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Islam e psicoanalisi

copertina di Giacomo Maria Arrigo

Il dibattito sul fenomeno dell’islamismo ha interessato tutte le discipline, interpellando esperti e specialisti di ambiti diversi stimolati dall’attualità e dalla necessità di trovarvi una rapida soluzione. Tuttavia, fra le varie scienze la psicoanalisi ha tardato a dare un contributo alla questione. Solo di recente la disciplina psicoanalitica ha mosso i primi passi nella direzione di un inquadramento teorico dell’islamismo radicale.

Da pochi mesi, e quasi simultaneamente, sono apparsi in libreria due testi chiave per una lettura psicoanalitica del fenomeno: Un furioso desiderio di sacrificio. Il supermusulmano di Fethi Benslama (Raffaello Cortina Editore, 2017) e Nella mente di un terrorista di Luigi Zoja (Einaudi, 2017). Benslama è docente di Psicopatologia clinica presso l’Università Paris-Diderot, Zoja è psicoanalista noto a livello internazionale, già presidente dell’Associazione Internazionale di Psicologia Analitica. Entrambi i libri, adottando una prospettiva psicoanalitica, indagano l’aspetto individuale e collettivo del problema in esame, proponendo una nuova e convincente strada per la psicoanalisi. Infatti −  spiega Zoja −  è solo nel secolo XXI che la psichiatria e la psicoanalisi si concentrano sull’individuo; dapprincipio, ed essenzialmente, la psicoanalisi «studia anche le turbe mentali della società e della storia». Entrambi gli autori sono quindi impegnati nella ricerca del perduto ruolo guida della disciplina nell’indagine dei fenomeni sociali emergenti.

Fethi Benslama ha inteso l’età anagrafica della popolazione radicalizzata come elemento centrale per ogni eventuale sviluppo del discorso. Secondo uno studio citato da Benslama, i due terzi dei radicalizzati hanno tra i 15 e i 25 anni, perlomeno in Francia; è evidente che ci troviamo di fronte a «uno stato di crisi adolescenziale prolungato», sostiene l’Autore. Quindi il fattore generazionale appare significativo e non può essere messo da parte. L’adolescenza è una fase della vita «segnata dall’idealità, nel quadro di una modificazione dell’identità», ove idealità e identità appaiono due termini reciprocamente dipendenti e mutualmente condizionanti. Se non opportunamente seguita e risolta, la fragilità del periodo adolescenziale può condurre a esiti nefasti.

Benslama spiega che durante la transizione soggettiva adolescenziale «gli ideali dell’infanzia finiscono in frantumi e al soggetto si impone, con un’avidità che attesta l’urgenza della ricerca, la necessità di sostituirli con ideali nuovi». Un simile meccanismo, che consente al soggetto di appropriarsi di un sé autentico in contrapposizione alle consuetudini familiari, è guidato dal desiderio di un cambiamento radicale – e può accadere che l’accento cada ora su “radicale” e ora semplicemente su “cambiamento”. In questo senso, l’offerta radicale approfitta della transitoria fragilità per installarvisi, sfruttando momenti e luoghi in cui l’animo umano è più vulnerabile. Non bisogna pensare che la propaganda jihadista sia all’oscuro di simili funzionamenti.

Similmente, ma da una prospettiva diversa, Luigi Zoja, che vede nello sguardo rigidamente passatista del salafismo «una componente giovanilistica: l’adolescente si interpreta come eterno e tende a considerare eterno anche il mondo che lo circonda. […] I fanatismi si somigliano tra loro: sono tutti giovanilisticamente indisponibili al compromesso e vorrebbero che il mondo che amano sempre uguale a se stesso».

1Alla luce di quanto sinora detto, la radicalizzazione viene intesa da Benslama come un sintomo: la rottura della continuità dell’esistenza dell’adolescente e l’abbandono a una visione radicale e potenzialmente violenta, in altre parole la radicalizzazione, «è un tentativo di sopravvivenza a uno stato di urgenza psichica». Il pericolo avvertito dal soggetto, ovvero la perdita dell’identità finora assunta e il passaggio a una nuova incerta fase dell’esistenza, viene affrontato da alcuni individui estremi – quelli che ci interessano – «mediante la ricerca di un’unità identitaria o di una “uni-identità” che trova la sua realizzazione estrema nella morte, come se la scelta della morte salvasse il soggetto dall’annichilimento». Conseguenza di un tale funzionamento psicologico è la considerazione della radicalizzazione come «una via di “guarigione”».

La fortuna dell’estremismo di matrice islamica deriva da diversi fattori – sociali, storici, geopolitici – ma ha trovato terreno fertile nella coscienza fragile di una personalità adolescenziale grazie a un meccanismo di sovrapposizione ben sottolineato da Benslama: «L’offerta jihadista consiste nel sovrapporre il torto fatto alla comunità musulmana al vissuto di un danno individuale nell’esistenza del soggetto». Le promesse tradite dopo la Prima guerra mondiale, gli accordi di Sykes-Picot (1916), l’abolizione del califfato (1924), il fallimento delle ideologie di stampo occidentale su suolo arabo, nonché la rabbia e la frustrazione per decenni di governi dittatoriali e corrotti, hanno finito per alimentare nel mondo arabo un risentimento collettivo capace, grazie a specifiche tecniche propagandistiche, di essere assimilato a livello individuale e di essere fatto coincidere con le manchevolezze e incertezze di un adolescente più fragile.

La «teoria dell’ideale islamico ferito» ha permesso di far assumere alla «disperazione musulmana» un ruolo di primo piano non solo nel mondo musulmano ma in tutto il globo, acquisendo, in altri termini, la «funzione di collettore di negatività». Se, da una parte, nei Paesi arabo-islamici «le generazioni ritrasmettono il trauma e il pregiudizio, in modo che gli individui si percepiscano come eredi di un’infamia», dall’altra parte, nel mondo non islamico e, in particolare occidentale, una simile eredità, benché immaginaria, viene nondimeno ritenuta da alcuni individui parte della propria identità, e la “disperazione musulmana” diventa «un passe-partout dell’idealizzazione».  È proprio nell’ideale islamico ferito che ha luogo «l’incrocio del clinico e del sociale», ed è tramite questo concetto che è possibile dire con Zoja che la psicoanalisi deve e può «rimettere al centro del dibattito le connessioni esistenti fra psicologia, cultura di massa e politica».

Il titolo del libro di Benslama contiene un’espressione peculiare, quella di supermusulmano. Cosa s’intende con un simile termine? Benslama ne fa la chiave di volta del suo discorso psicosociale: «Il supermusulmano è una diagnosi sulla vita psichica di musulmani impregnati di islamismo». Non è l’atteggiamento tradizionale del vero credente; piuttosto si tratta di una sorta di «Islam pride». In altri termini e più concisamente, il supermusulmano è una costruzione psicologica secondo la quale il musulmano è portato a diventare sempre più musulmano seguendo un cammino a ritroso fino ai tempi del Profeta, assumendo un atteggiamento mimetico nei confronti degli antenati e, così facendo, riscattando il tempo presente da qualsivoglia allontanamento da una presunta purezza delle origini.

2Il supermusulmano si assegna il compito di purificare il mondo da agenti patogeni, avviando qui e ora (come il gruppo Stato Islamico) o proiettando in un immediato futuro (come al-Qaeda) il progetto di una «città islamica ideale». I supermusulmani «si concepiscono come voci di Dio nel mondo», non accorgendosi, così facendo, che «si sottomettono a Dio, sottomettendolo a loro stessi». Il soggetto, sempre secondo le parole di Benslama, assume il ruolo di «vendicatore della divinità oltraggiata», e in nome di questa missione divina gli diventa permesso compiere impunemente qualsiasi azione criminale e violenta, nella certezza del «perdono già assicurato». È per questo motivo che molti delinquenti e criminali alla ricerca del perdono sono attratti dallo jihadismo. La giustizia umana perde qualsiasi valore agli occhi del supermusulmano, il quale «è autorizzato a non rispettare la legge in nome della superiore legge divina», «attraverso la quale nobilita le tendenze antisociali e sacralizza le pulsioni omicide».

A ciò di deve aggiungere la rinuncia all’individualità, passaggio essenziale per la trasformazione definitiva nel supermusulmano: «Il sacrificio della singolarità lo libera [il soggetto] dai suoi sintomi psichici», assorbito ormai dalla comunità e protetto da essa. Il soggetto radicale rinuncia a pensare autonomamente e a reagire spontaneamente, lasciando che sia il gruppo a occuparsi di lui. Avviene qui la «superidentificazione», cioè la «identificazione diretta con il super-io della comunità» che commissiona i crimini e che, di fatto, deresponsabilizza il singolo terrorista. Il fioccare di fatwa, pareri religiosi su questioni individuali e sociali, dipende propriamente da una siffatta impostazione del gruppo di appartenenza: «Le fatwa costituiscono una forma di potere sulle coscienze dei credenti».

Dopo decenni di esperienza islamista – e quindi di collaudo dell’etichetta di supermusulmano – l’islamismo, che si configura come una difesa dell’Islam e della umma, la comunità dei fedeli, è «diventato autoimmune, nel senso che distrugge ciò che vuole salvare», spiega Benslama. La ormai celebre distinzione tra nemico esterno (l’occidentale) e il nemico interno (l’occidentalizzato) è sintomo di una sclerotizzazione identitaria forte ed esclusiva che minaccia la sopravvivenza stessa della umma. Ponendosi al di fuori di qualsiasi tradizione islamica “ortodossa”, il supermusulmano utilizza il letteralismo come un’arma: il supermusulmano «non considera le interpretazioni [del Corano] perché è la sua letteralità a consentirgli un accesso diretto alla fede». Il carattere anti-intellettuale dell’islamista è segno di una novità perniciosa per la comunità dei credenti. I continui attacchi alle confraternite sufi ne sono una conseguenza diretta.

3Fethi Benslama inquadra il fenomeno del supermusulmano con una lucidità non comune. La sua esperienza da psicologo clinico e psicoanalista, i suoi studi in psicopatologia e antropologia, gli hanno assicurato una certa competenza e disinvoltura nella trattazione di tematiche in dialogo con le altre scienze umane e sociali. Luigi Zoja afferma che il lavoro degli psicoanalisti «comporta una responsabilità politico-sociale» oramai perduta da tempo, e Benslama sembra rispondere appieno a questo appello, inserendosi all’incrocio di tre parametri, «il contesto geopolitico, l’ambiente sociale e la configurazione psichica».

Non meno acute le osservazioni di Zoja circa l’ambiente tecnologico in cui oggigiorno siamo tutti immersi, elemento di estrema centralità nella configurazione dell’identità del supermusulmano (benché Zoja non utilizzi questo termine, è nondimeno utile accostarlo al suo discorso, perlomeno ai fini di una lettura organica dei due testi). «Il ricorso continuativo al web – scrive Zoja – può favorire un pericoloso solipsismo, un estremo isolamento all’interno del proprio mondo mentale». La superidentificazione di cui parla Benslama acquista sovente un carattere simulato e non reale, in cui il prossimo non è più tale in senso fisico, allorché si crea «un’illusoria permanenza virtuale nei luoghi di origine», siano essi reali nel caso dei migranti o semplicemente immaginari nel caso della tradizione falsata degli islamisti. Ma non è tutto: la velocizzazione dei processi sociali indotta dal web «rende più vulnerabili alle suggestioni. Paradossalmente, la tecnica dà più spazio alla componente animale e istintiva delle nostre reazioni; e lo toglie a quella umana e riflessiva»; da cui il legame tra propaganda virtuale, adolescenza, violenza e fenomeno dei lone wolves.

Molti sono gli aspetti che Zoja considera: dalla riemersione del rimosso della morte, realtà «trascurata dal consumismo», al «rigetto dell’unisex» dovuto alla paura della perdita dell’identità sessuale.

Ad ogni modo, Luigi Zoja conclude il libro con una considerazione: «Come sappiamo persino dai film di Woody Allen, esistono moltissimi psicoanalisti ebrei. Quello che non sappiamo è che invece pochissimi sono musulmani. Così si può anche parlare di Islam, ma sempre dall’esterno. […] Insomma, c’è ancora molto su cui lavorare». Fethi Benslama va contro questa valutazione, emergendo quale capofila di una auspicabile tradizione di studi psicoanalitici da parte di musulmani o, più in generale, di persone di cultura islamica. E oggi ce n’è tanto bisogno, specialmente con il prossimo ritorno dei foreign fighters dalla Siria e dall’Iraq nei propri paesi d’origine. Il gruppo Stato Islamico sta scomparendo, ma i residui della sua furia distruttiva perdureranno ancora per molto tempo e bisognerà affrontarli in maniera ragionata e accorta. La psicoanalisi dovrà fare la sua parte.

Dialoghi Mediterranei, n.28, novembre 2017

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Giacomo Maria Arrigo, dottorando in “Politica, Cultura e Sviluppo” presso l’Università della Calabria con un progetto di ricerca dal titolo: Il salafismo-jihadismo come fenomeno gnostico-rivoluzionario, è membro del team di ricerca di Occhialì – Laboratorio sul Mediterraneo islamico e fa parte del Comitato editoriale dell’omonima rivista. Dopo la Laurea triennale e la Laurea magistrale in Filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, si è diplomato al Master Universitario in “Middle Eastern Studies” presso ASERI (Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali) con una tesi intitolata The Islamic State’s Apocalyptic Jihad dedicata allo studio delle profezie apocalittiche adoperate nella propaganda del gruppo Stato Islamico.

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