di Sergio Ciappina
Chi semina memoria raccoglie speranza è quanto voglio idealmente contrapporre a quanto detto in questi giorni dalla Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana la quale, emula di un suo predecessore di un Regno che fu, pare invece seminare vento per raccogliere … eccetera, eccetera. Cos’è successo?
È successo che chi si batte per l’insegnamento della logica negli ordini superiori di II grado della nostra scuola, in particolare la logica delle proposizioni, ha potuto da subito riconoscere due esempi da manuale delle cosiddette «fallacie logiche» più usate dai politici in generale e dagli esponenti dei partiti cosiddetti populisti in particolare, quando devono trarsi d’impaccio.
Ai primissimi posti di questa lista di armi dialettiche di cui essi fanno uso, spicca infatti quella denominata «argomento fantoccio» o «straw man fallacy»: essa si realizza quando B costruisce un’argomentazione dando per scontato che l’argomento X proferito da A, dove A è la vittima della fallacia logica, sia in relazione a un argomento Y facilmente criticabile. In questo modo la discussione passa dall’argomento X all’argomento Y.
Nell’episodio citato la Presidente del Consiglio dei Ministri, sollecitata dall’opposizione parlamentare a rispondere sull’evanescente posizione del suo Governo circa i non bene definiti piani di riarmo militare dell’Unione Europea, collegava questo argomento al Manifesto di Ventotene, il cui titolo originale è «Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto», citandone, enucleandoli dal contesto storico, politico e sociale, alcuni passaggi per farne oggetto di scherno e disapprovazione. Usando quindi in successione anche un’altra fallacia logica: la Reductio ad ridiculum, variante ridanciana della più insinuante Reductio ad absurdum. Anche chi pensa che il latino sia una lingua ormai morta, dimenticando che nell’area mediterranea fino alla Romania oggi parliamo varie forme di «latino moderno», potrà facilmente capire di cosa trattino quest’ultime.
Però: grazie. Sì. Grazie davvero di cuore perché quello che chiaramente è stato un lampante esempio di «argomento fantoccio» [1] ha fatto conoscere a coloro che guardano abitualmente i vari «tiggì», tra un primo piatto e un secondo con contorno, uno strano manoscritto del quale probabilmente non avevano mai sentito parlare.
Un manoscritto scritto davvero a mano ai tempi del tristemente noto predecessore della Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, con matite temperate a mano, su carta velina e una calligrafia talmente minuscola che la lettura avrebbe richiesto in seguito una lente d’ingrandimento; un manoscritto trasportato nascosto, come vuole la leggenda, all’interno di un pollo, ma, più prosaicamente cucito in parte dentro l’imbottitura delle spalline di un vestito e in parte nascosto nel doppio fondo di una cassettina di legno costruita con povero legno e poveri attrezzi [2].
Un manoscritto, anch’esso scritto tra un primo e un secondo con contorno, non molto nutrienti per la verità, nella mensa comunitaria «E», dove la lettera dell’alfabeto stava per «Europa» [3]; la mensa comunitaria della struttura penale di confino ideata e impiantata sull’isola di Ventotene, dal genio concentrazionario del ventennale regime fascista. Che magari dovremmo anche ringraziare per aver «concentrato» un così alto numero di adepti del pensiero critico in così piccolo spazio, finendo così per avallare l’opinione desolatamente mainstream che «il fascismo ha fatto anche cose buone». No: la realtà è che la cattiveria spesso porta con sé una buona dose di stupidità, diventando perfino ridicola.
Strana isola Ventotene. O isola Pandateria come la chiamavano i greci che vi edificarono un tempio dedicato a una divinità perduta «che distribuisce tutto». O forse bisognerebbe dire che «distribuisce lutto».
Ventotene. Dove ogni anno, nel periodo tra metà aprile e metà maggio, oltre 9.000 uccelli di 70 specie diverse sostano per riposarsi e rifocillarsi, grazie al nettare delle piante come la ferula e la brassica, a metà della rotta migratoria che grazie a loro unisce, oggi come al tempo di Roma, il nord dell’Africa all’Europa in un unico paese: il Mediterraneo. [4]
Ventotene. Scelta da Cesare Ottaviano Augusto nel 2 a.e.v. per esiliare la figlia Giulia, cui si accompagnò volontariamente la madre Scribonia; emulato dal successore Tiberio il quale vi esiliò la nipote Agrippina nel 29 e.v. che si lasciò morire di fame sull’isola appena tre anni dopo.
Ventotene. Dove anche l’imperatore Nerone nel 62 e.v. esiliò la prima moglie Ottavia, dopo averla ripudiata con il pretesto di non avergli dato figli, ma in realtà per l’odio che egli provava per lei in quanto figlia di Claudio e beneamata dal popolo.
E dove se non in tanto dolore e in tanto vento di tempesta e battere d’ali si poteva seminare un Manifesto della speranza? In un tempo, gli anni tra il 1941 e il 1942, dove soltanto chi era riuscito a «Non mollare» [5] continuava a seminare memoria per poter, un giorno, raccogliere speranza: la speranza di un futuro migliore.
A proposito di memoria: è interessante ricordare che lo spietato direttore di quello che, nelle parole della attuale Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, parrebbe essere stato un ameno resort nel quale gli ospiti godettero di un benefico trattamento e di uno smodato relax a carico dello Stato fascista, era e lo fu fino al 1943, quello stesso Marcello Guida nominato questore a Torino nel giugno e luglio 1969, durante i drammatici scontri con gli operai della Fiat in sciopero per essere in seguito, a dicembre del 1969, trasferito d’urgenza dall’allora Ministro degli Interni causa «incompatibilità ambientale», sempre come questore a Milano, dove diresse le indagini sulla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Quello stesso Marcello Guida che spinse verso la pista anarchica, poi rivelatasi un depistaggio [6], finendo coinvolto, come superiore del commissario Luigi Calabresi, nel caso dell’uccisione per defenestramento dell’anarchico Giuseppe Pinelli [7]. Insomma: Marcello Guida, un garbato e affabile maître d’hotel spentosi serenamente a 77 anni nella sua casa di Trieste nell’aprile del 1990 circondato dall’affetto dei suoi cari.
Ma forse siamo andati un po’ lontano nel voler raccontare il contesto nel quale vide la luce il manoscritto di cui si parlava poc’anzi. Il contenuto di quest’ultimo riguardava un progetto: il progetto di un Manifesto per un’Europa libera e Unita. Per gli amici: il Manifesto di Ventotene [8]. Fu un testo scritto da pochi: non «visionari» come sono stati osannati e bollati in questi nostri giorni dai mezzi d’informazione ambo parti. Bensì «eretici».
Eretici perché perfino molti compagni d’esilio, tra i quali Sandro Pertini, Umberto Terracini e Luigi Longo, trovarono «assurda» la critica alla sovranità assoluta dello Stato nazionale contenuta nel testo. Eppure era, ed è ancora, davanti agli occhi di tutti la catastrofe scaturita dalla concezione «sovranista» degli Stati nazionali: i 17 milioni di morti e i 68 milioni di morti rispettivamente della Prima e della Seconda guerra mondiale potrebbero, se potessero, raccontarci la loro opinione in proposito.
Il testo non trattava soltanto di critica alla concezione sovranista degli Stati nazionali: Secondo il racconto di Ada [moglie di Ernesto Rossi, che insieme ad Altiero Spinelli e Eugenio Colorni furono coloro che concepirono il Manifesto di Ventotene] «nell’inverno del 1940-1941, Ernesto le lesse una bozza del Manifesto. Le piacque molto in quanto vi ritrovò alcuni temi su cui avevano già discusso tra loro negli anni del carcere: l’orrore per la guerra, il volto demoniaco del nazionalismo, le vie per costruire la pace, un progetto di studio per gli Stati Uniti d’Europa e i princìpi per una riforma dello Stato in senso socialista-liberale» [9].
Ernesto Rossi, Altiero Spinelli e Eugenio Colorni, ma anche Ada Rossi e Ursula Hirschman che, «contrabbandandolo» a rischio della propria vita hanno «dato alla luce» il Manifesto, ribattendolo clandestinamente con la macchina da scrivere, l’intelligenza artificiale del tempo e distribuendolo in tutti gli ambienti antifascisti, assicurandogli una larga diffusione, soprattutto Ursula, attraverso la rete di contatti tra Milano e Roma e poi nell’Italia Meridionale quando andò «a far compagnia» al marito presso il confino di Melfi. Pardon il resort di Stato di Melfi [10].
Eretici perché hanno scelto: in ossequio al primigenio significato del termine eresia che indica appunto la scelta, la presa, l’elezione, l’inclinazione verso qualcuno o qualcosa, la proposta. Essi formulano la proposta irricevibile di un’idea cooperativa, socialista e liberale a un Occidente che ha ereditato dal pensiero classico, gravido di mille sfumature, soltanto la contrapposizione e l’antagonismo; un Occidente per il quale esiste solo verità o menzogna, giusto o sbagliato, vittoria o sconfitta, amico o nemico, vita o morte. Quello che non è visibile, annusabile, udibile, tastabile, semplicemente non esiste. Questi è «l’altro», colui che l’Occidente schiaccia tra le sue rigide distinzioni, il tertium non datur, il sempre escluso. Ma questi è anche la materia vivente che sorride, che è in grado di riprodursi continuamente da se stessa, l’indiviso, l’intera specie umana.
Eretici perché hanno proposto che più importante dell’invenzione delle armi con le quali vincere o perdere sarebbe stata la capacità d’immedesimazione, la capacità di non riferire i concetti di bene e male soltanto a se stessi, ma di estenderli all’«altro».
Eretici perché hanno osato pensare che tra uccidere e morire esiste una terza via: vivere. Una terza via «al di là del Bene e del Male» ovvero aldilà delle polarizzazioni estreme e vincolanti. Giusto per citare un filosofo tanto osannato dalle forze politiche di destra e vituperato da quelle della sinistra, negli anni che seguirono la contestazione studentesca del 1968, per via di una non ben compresa e altrettanto male elaborata «Teoria del Superuomo».
E dissidenti perché, rinchiusi contro la loro volontà in un luogo di villeggiatura, hanno escluso la via separatista e violenta di tanti Stati nazionali sovranisti, approfittando della contingenza rappresentata dal confino di Polizia inopinatamente ideato da uno Stato totalitario e sovranista, per conoscersi e coltivare la memoria. E il sogno di una società incruenta e cooperativa.
Ernesto Rossi l’economista creativo, Eugenio Colorni il filosofo antidealista, Altiero Spinelli l’ex comunista e sicuro federalista, Ada Rossi infaticabile divulgatrice [11] e Ursula Hirschman anch’essa figura fondamentale per la diffusione delle idee, legate alla necessità di una federazione europea dotata di un parlamento e di un governo democraticamente eletto. Insieme fondarono nella Milano del 27 di agosto 1943, un mese dopo l’arresto e la condanna al confino dell’allora Presidente del Consiglio dei Ministri Benito Mussolini, il Movimento Federalista Europeo.
Di lì a pochi giorni l’Italia avrebbe visto coi suoi occhi la barbarie e la ferocia del «grande e fedele alleato germanico» [12]. Ma il progetto andò avanti, traslocando in Svizzera, dove Ernesto Rossi e gli altri riuscirono a fuggire, scrivendo, promuovendo, intessendo reti di contatti in tutta Europa, fino alla conclusione del conflitto.
Nonostante il sollievo per l’approssimarsi della fine dell’immane mattanza però, i nuovi scenari internazionali che si andavano profilando all’orizzonte non promettevano nulla di buono: il Comitato di Liberazione Nazionale mostrava già al suo interno le prime divisioni dovute alla futura spartizione dello scenario politico della nascente Repubblica e anche i Paesi già liberati dalle forze alleate stavano nuovamente risorgendo secondo il vetusto modello delle sovranità statuali separate [13]. A conferma della concezione binaria della politica alla quale risulta ostico, per non dire impossibile, concepire come si possa essere socialisti e liberali, uniti e differenti allo stesso tempo: quindi anche per la Nuova Italia ancora una volta «o Roma o morte». Non riusciamo proprio a vedere un po’ più in là dei nostri immaginari confini. Non riusciamo a comprendere come vittoria su vittoria alla fine significhi rovina, quella rovina che è insita nella nostra natura antagonista.
Quello che, a uno sguardo malevolmente frettoloso, dettato dalla necessità di continuare a gettare sassi nello stagno per tentare di nascondere una totale inesistenza di un progetto di sviluppo e coesione sociale che grava sulla compagine politica al governo dei nostri giorni [14], viene definito un documento antidemocratico è in realtà uno degli scritti fondamentali dell’europeismo moderno che hanno posto le basi dell’Europa unita. Perché quel documento immaginò l’Europa in senso federale già allora, in piena Seconda guerra mondiale.
Malevolmente frettoloso perché soffermandosi su alcune frasi del testo, fuori contesto e non lette per intero, ne dà un’interpretazione falsa: in sostanza finisce per presentarlo come antidemocratico, vale a dire il suo esatto contrario. Il rischio di una valutazione superficiale, al di là degli interessi più o meno faziosi dettati dalle contingenze, resta però reale se non si approfondisce oltre al testo anche il contesto nel quale fu elaborato il documento fondamentale del Movimento Federalista Europeo, vale a dire il pensiero dei suoi estensori. Tracceremo brevemente il profilo di uno di questi, lasciando ad altri il compito di fare altrettanto per gli altri e le altre.
Ernesto Rossi [15], nel tempo presente, è solitamente relegato dalla vox populi al ruolo di comprimario nell’elaborazione dei fondamenti concettuali di un progetto di federazione di Stati europei. Analizzando i suoi scritti però emerge il profilo di un pensiero complesso e articolato che va ben oltre una caratterizzazione statica. Nei suoi scritti, pubblicati dopo la scarcerazione avvenuta alla caduta del fascismo, Ernesto smentì puntualmente tutte le etichette che via via gli venivano imposte sia dalla critica favorevole che da quella avversa, confermando che il pensiero critico è il solo antidoto all’imposizione di un’identità unica, anticamera di ogni totalitarismo.
Il voler conservare la libertà di una scelta pluridentitaria, ebbe però un prezzo da pagare all’interno di quelle collettività nazionali o gruppi sociali, che, per il loro essere fortemente gerarchizzate, considerano socialmente pericolosi, tacciandoli di eresia, gli individui che non manifestino un incondizionato consenso a siffatti regimi.
È risaputo che gli eretici infastidiscono perché esserlo significa scegliere di aderire ad una propria identità, anziché a un’altra identità proposta o, addirittura imposta. Significa eleggere un proprio pensiero, una propria concezione dell’esistenza e strada da percorrere, il più delle volte in solitudine, fosse anche la solitudine di una cella o di un isolamento civile.
La libertà di scelta è figlia del pensiero critico e della rivoluzione copernicana, eventi che ci avrebbero, il condizionale è d’obbligo, insegnato a relativizzare mettendoci in guardia circa le contraddizioni dell’assoluto. Si potrebbe obiettare che una moltitudine di individui, professando la loro eresia nei confronti dello Stato liberale italiano del primo dopoguerra si sentirono liberi di scegliere l’ideale fascista. Ma anche in questo caso il pensiero critico ci illumina la strada: scegliere un altro ideale, che in pochissimo tempo abolirà la libertà di scelta, annulla di fatto la prima azione.
Eppure, anche sotto un regime totalitario, la possibilità di eresia permane. Ernesto Rossi eretico lo è stato davvero, al pari di coloro che, in cinque secoli e forse più di mentalità «diplomatica» italiana, di cultura della dipendenza, della certezza, del parassitismo, hanno proclamato il verbo indigesto del dubbio, dell’autonomia del pensiero e dell’azione, della crescita individuale, anche fallimentare, purché libera; persuaso che l’emancipazione morale dell’individuo passasse anche e soprattutto per la possibilità di disporre pienamente della propria vita, finanche di quella economica.
Ernesto fu il sostenitore di un’autorità statuale che fosse capace di intervenire laddove il libero gioco delle parti sociali non risultasse poi tanto libero, ma anche di un’autorità che fosse in grado di riposizionarsi «a bordo campo» una volta ristabilite condizioni di equità e di confronto incruento. Non si potrebbe dire che sia stato un «politico», nel senso che non conobbe mai l’arte del compromesso. Portatore di un dissenso fermo che giunse all’azione fisica, rappresentò la manifestazione di un estremo bisogno di coerenza con il proprio pensiero. Fu interventista schierato sul fronte di quei progressisti favorevoli alla guerra come Gaetano Salvemini, benché egli stesso non si facesse soverchie illusioni sul mito dell’«ultima guerra», quella che, così come recitava la propaganda interventista, avrebbe liberato definitivamente tutti i popoli oppressi. Appassionato delle idee dell’economista e sociologo Vilfredo Pareto contro il protezionismo, il corporativismo e l’asservimento dello stato agli interessi privati.
La sua critica, spietata e impassibile nei confronti del totalitarismo e della monarchia costituzionale non fu meno corrosiva quando si rivolse alla democrazia rappresentativa dello Stato liberale. Ernesto nella parola sentiva la cosa in sé e nell’idea trovava l’imperativo della testimonianza del fatto e in ogni caso il bisogno inappellabile di dover testimoniare la sua «eresia», le sue scelte con l’azione. E lo fece mediante un pensiero che si tramutava in esternazione nei confronti della prepotenza illiberale del regime e che gli costò ben dieci anni di carcere durissimo [16] e tre di «confino» nell’isola di Ventotene.
Ben tredici anni nei quali fino all’8 settembre del 1943 in Italia si contavano poco più di quarantaquattro milioni di aderenti al fascismo tolti quei pochi che per manifesta o sospetta avversione al regime furono eliminati fisicamente o avviati ad amene vacanze a spese dello Stato. Fascista.
Dissenso combattente quello di Ernesto Rossi. In una delle tante lettere che Rossi scrisse dal confino di Ventotene alla moglie si può intravedere in filigrana, una sorta di testamento spirituale:
«[...] Ognuno di noi faccia la sua parte sinceramente lasciando al Burattinaio la responsabilità della commedia generale. Per mio conto non mi sono mai preoccupato di sembrare straniero nel mio Paese, o «superato» rispetto ai miei contemporanei. Non ho bisogno di trovare negli avvenimenti delle prove della bontà delle mie convinzioni. Mi basta la mia coscienza ed il debole lume della mia ragione. Il successo o l’insuccesso niente possono aggiungere o togliere alla mia scala di valori: possono solo illuminarmi per una scelta più adeguata dei mezzi rispetto ai fini. Ed è per questo che, comunque vadano le cose, spero che non perderò mai la mia serenità d’animo» [17].
Intelligenza eclettica e bramosa di conoscenza quella di Ernesto: dalla matematica alla fisica che insegnava ai compagni di prigionia intingendo le dita nel sapone e scrivendo sul vetro della finestra della cella. Quando i detenuti vennero privati finanche dell’uso del sapone, egli dichiarò:
«[...] Ma io scrivo ugualmente, anche senza il sapone: scrivo per terra con l’acqua e col dito; il Ministero non vuole che noi si scriva: ed io scrivo lo stesso; l’acqua ce la lasceranno, speriamo, e con il dito posso scrivere quanto voglio. Io vorrei arrivare a questo punto, per essere punito per questa ragione. Io voglio partire da questo principio: loro non vogliono che noi scriviamo, ed io scrivo con il dito, a noi ci conviene così, scusa, ci proibiscono di fare qualsiasi esercizio [di algebra], anche facendo così, con il dito e l’acqua, ed io voglio mostrare quali siano le belle modifiche del regime carcerario in Italia» [18]
fino all’economia politica i cui testi ha letto per anni consumandosi la vista alla debole luce di mozziconi di candele di sego e perfino buttandosi sui ritagli di giornali:
«[...] Arrivato a Regina Coeli, dopo tre giorni di sofferenza poiché non avevo niente da leggere, il detenuto barbiere, dopo avermi raso dimenticò nella mia cella dei fogli di un giornale illustrato, tagliato in otto parti, che serviva a ripulire il rasoio dal sapone. Mi gettai sui foglietti come un affamato e cominciai a divorare dei brani di uno stupidissimo romanzo di avventure che il settimanale pubblicava in continuazione» [19].
Anche la riflessione filosofica occupava un ruolo preminente tra gli interessi di Ernesto: nell’epistolario dal carcere emerge un Ernesto Rossi, puntuale lettore e commentatore di Giuseppe Rensi, il grande filosofo italiano del XX secolo incorso nella damnatio memoriæ del regime a causa della sua ferma critica al neoidealismo di Benedetto Croce e Giovanni Gentile.
Fin dal giugno del 1933, in una lettera dal reclusorio di Piacenza, indirizzata alla madre, corrispondente intellettuale, oltreché affettiva, e memoria fisica dei suoi studi in carcere – poiché vi era concesso lo studio, ma non lo scrivere, salvo le lettere ai familiari – Ernesto raccontava:
«Mi è piaciuto molto [...] Passato, Presente e Futuro del Rensi. È questo uno dei pochissimi filosofi italiani, che – non seguendo la moda corrente dell’idealismo crociano e gentiliano – riesco a capire completamente. E molte volte ho trovato una perfetta concordanza fra le sue e le mie idee. Il suo studio sullo stoicismo m’ha interessato particolarmente [...] » [20].
Come tutte le altre lettere che compongono il vastissimo epistolario di Ernesto Rossi, dal giorno del suo arresto a Bergamo, il primo novembre 1930, al giorno della sua scarcerazione da Regina Coeli a Roma, il 30 luglio del 1943, la lettera continua con ampie considerazioni intellettuali e culturali. Conservate con cura dalla madre e dalla moglie, durante quei tredici anni di privazione della libertà, esse costituiranno il patrimonio che completerà il percorso di studio, intrapreso da Rossi fin dai primissimi giorni di penitenziario. Ma se così scrivendo nel ‘33, l’economista dichiarava un’identificazione sul piano filosofico con Giuseppe Rensi, ben cinque anni più tardi e dopo otto dal suo arresto, Rossi rimarcava, sempre nelle sue lettere, una comunanza etica con il filosofo veronese alla luce delle prove affrontate e la repressione subìta nel prosieguo della sua vita carceraria:
«Rensi non è mai stato un rimasticatore di luoghi comuni, né un chierichetto officiante davanti a qualche santone, né un arrivista che abbia adattate le sue teorie alla convenienza del momento. È un animo inquieto, sinceramente pessimista, mai soddisfatto dei risultati raggiunti, che di continuo mette in dubbio i suoi stessi dubbi, e rompe le uova nel paniere alla gente troppo tranquilla e troppo soddisfatta, agitando sempre nuove idee e così impedendo che imputridiscano nell’immobilità dell’ossequio. Quando la marea ha cambiato direzione si è gettato dalla parte opposta a quella in cui era, e dove, rimanendo avrebbe avuto il successo e sarebbe stato un precursore» [21].
L’eloquio di Rossi tradiva anche, nell’identificazione con il pensiero e con l’azione del filosofo, la sua personale riprovazione contro il larghissimo strato sociale che ossequiava, parassitandola con il suo consenso, l’Italia fascista. Era un’Italia nella quale né l’uno né tanto meno l’altro si sentivano di casa: ad ambedue difettava la capacità a mutare posizione secondo il principio dell’opportunità. Sempre alla madre, Rossi citava il poeta risorgimentale Giuseppe Giusti e il suo elogio funebre del principe Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, vescovo, politico e diplomatico che barcamenandosi tra la Rivoluzione Francese, Napoleone e Luigi XVIII, contò tali giuramenti e tradimenti da finire poi i suoi giorni come un grande diplomatico, fra onori e ricchezze. La poesia del Giusti s’intitolava «Il brindisi di Girella». Così Rossi:
«[...] Mi pare avesse ragione il Giusti quando del Talleyrand scrisse l’elogio funebre nella poesia sul “girella”. Oggi, forse, invece di “girella” bisognerebbe dire “realista” o “tempista”, ma la sostanza del giudizio potrebbe rimanere la stessa» [22].
Tra l’altro quest’ultimo rappresenta un buon esempio di come Ernesto Rossi utilizzasse colti riferimenti letterari a personaggi e interpreti del Risorgimento italiano, per poter condividere con la madre e la moglie, la critica all’Italia fascista, senza incorrere nelle cancellature del censore. Ed è anche un buon esempio di come una poesia di un poeta dell’Unità d’Italia, anch’egli contrario a tutto ciò che potesse «…limitare in qualche modo, anco indiretto, il libero esercizio delle sue facoltà intellettuali» [23] possa ancor oggi illustrare magnificamente le tante «girelle» politiche al centro delle cronache dei nostri giorni.
Oltre a identità filosofiche ed etiche, sempre riferendosi ad opere di Giuseppe Rensi, l’epistolario di Rossi narra anche della posizione fortemente anticlericale condivisa tra i due:
«[...] Ultimamente leggevo nel libro del Rensi, alcune pagine, che mi son sembrate molto belle, a proposito d’una delle più grandi ingiustizie che la storia ricordi, e cioè il trionfo ufficiale del cristianesimo, che vien generalmente presentato come un’opera di convinzione, esercitata con la propaganda dei princìpi moralmente superiori del cristianesimo. Niente di più falso. Anche la parola di Cristo ha trionfato nel mondo con la violenza, l’intolleranza, l’assassinio; ha trionfato per l’aiuto dato dai poteri dello stato agli aggressori contro gli aggrediti, per la santificazione ufficiale dei delinquenti, per l’oppressione dei deboli che tentavan di difendere i loro diritti. (Se ti capita tra le mani quel libretto del Rensi, leggilo, ché corrisponde molto alle mie idee.)» [24].
Su Ernesto Rossi la bibliografia è estesa ed esauriente come pure le varie biografie [25], del Rossi economista parlano i suoi libri e i suoi saggi. Sulla sua esistenza di antifascista prima e uomo politico della Repubblica Italiana dopo, molto è stato scritto e molto, ancora oggi, ci sarebbe bisogno di scrivere; così pure del carcerato e confinato Ernesto Rossi narratosi attraverso la pubblicazione di tutte le sue lettere scritte alle persone care, durante i suoi lunghi anni di reclusione.
Quello che si è voluto e potuto fare qui è rinverdire frammenti di quelle missive indirizzate a Ernesto Rossi dalla madre e dalla moglie e mai giunte a destinazione, perché trattenute dalle maglie della censura: rimettere cioè al proprio posto qualche tassello di quel dialogare umano, tagliuzzato dall’opera di repressione. Oltre a testimoniare, grazie agli altri documenti conservati negli archivi del sistema di repressione del dissenso al fascismo, l’immagine del sovversivo Ernesto Rossi, così come era visto da chiunque ottemperasse al compito di «custodirlo». E cercando anche qui di scorgere, laddove possibile, i segni e le ferite che invariabilmente il sistema repressivo dell’Italia totalitaria lasciava sul fisico e nell’animo dei condannati politici, detenuti nelle carceri del regime.
È da questi segni e da queste ferite che nasce la riflessione su quell’ideale cooperativo, socialista e liberale insieme che informa le idee rivoluzionarie del Manifesto di Ventotene [26].
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] Per il fatto di cronaca: https://www.ilpost.it/2025/03/19/meloni-ventotene-risoluzione-riarmo-salvini-mandato/ (03/25)
[2] Antonella Braga, Rodolfo Vittori, Ada Rossi, Unicopli, Milano, 2017: 54
[3] Un bellissimo vassoio, decorato personalmente da Ernesto Rossi, illustra uno dei tanti momenti conviviali della mensa «E». Nella struttura le foto erano ovviamente vietate.
[4] Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino, 2010
[5] «Non Mollare» fu un periodico clandestino antifascista – il primo in Italia – stampato senza cadenza fissa (Esce quando può) a Firenze tra il gennaio e l’ottobre del 1925. Cessò le pubblicazioni dopo 22 numeri[1]. Con lo stesso nome riprese le pubblicazioni come rivista dal 1945 al 1961. Tra i redattori Nello Traquandi, Tommaso Ramorino, Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, Luigi Emery, Nello Rosselli – da Wikipedia al link: https://it.wikipedia.org/wiki/Non_Mollare (03/25). La ristampa anastatica è a cura di: Mimmo Franzinelli, Non mollare (1925), Bollati Boringhieri, Torino, 2005
[6] Si veda la corrispondenza riservata inoltrata dallo stesso Guida al Ministro dell’Interno il 17 gennaio 1970: https://stragedistato.wordpress.com/wp-content/uploads/2013/04/17-gennaio-1970-questura-milano-su-sospetti-anarchico-pino-pinelli-questore-guida.pdf (03/25)
[7] https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/Pinelli.html (03/25). Si veda: Licia Pinelli, Piero Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia: La storia di Giuseppe Pinelli, l’anarchico, Feltrinelli, Milano, 2019
[8] Il Manifesto di Ventotene aveva come titolo originale, lo ricordiamo: «Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto»
[9] Antonella Braga, Rodolfo Vittori, Ada Rossi, op. cit.: 53-54
[10] ivi
[11] O «infaticabile scrivanella» come amava firmarsi Ada Rossi in calce ai documenti di propaganda del Movimento Federalista Europeo – ibidem: 60
[12] Si tratta dell’Operazione Achse (“Asse”, nella storiografia tedesca Fall Achse). Fu il nome in codice del piano elaborato dall’Oberkommando der Wehrmacht (OKW) durante la seconda guerra mondiale per controbattere un’eventuale uscita dell’Italia dalla guerra, neutralizzare le sue forze armate schierate nei vari teatri bellici del Mediterraneo e occupare militarmente la penisola. L’operazione, pianificata da Hitler e dal comando tedesco fin dal maggio 1943 in previsione di un possibile crollo del fascismo e di una defezione italiana, si concluse con il pieno successo della Wehrmacht, che, approfittando anche del disorientamento dei reparti di truppa e della disgregazione delle strutture dirigenti italiane dopo l’armistizio dell’8 settembre, in pochi giorni sopraffece gran parte delle forze armate dell’ex-alleato, catturando centinaia di migliaia di soldati che furono in gran parte internati in Germania come lavoratori coatti, e si impadronì di un cospicuo bottino di armi ed equipaggiamenti. da Wikipedia al link: https://it.wikipedia.org/wiki/Operazione_Achse (03/25)
[13] cfr. Antonella Braga, Rodolfo Vittori, Ada Rossi, op. cit: 61
[14] https://www.ilpost.it/2025/03/19/meloni-ventotene-risoluzione-riarmo-salvini-mandato/ (03/25)
[15] Sulla figura dell’economista e politico si consiglia il suo scritto fondamentale sul tema federalista: Ernesto Rossi, L’Europa di domani, ovvero gli Stati Uniti d’Europa, Aragno, Torino, 2021 oltre a Ernesto Rossi, Abolire la guerra. Idee e proposte su guerra, pace, federalismo e unità europea, Nardini, Firenze, 2020. Per la sua biografia la più completa ed esaustiva è attualmente: Antonella Braga, Un federalista giacobino. Ernesto Rossi pioniere degli Stati Uniti d’Europa, Il Mulino, Bologna, 2007
[16] Ernesto Rossi, Nove anni sono molti – Lettere dal carcere 1930-39, Bollati e Boringhieri Torino, 2001
[17] Ernesto Rossi, Miserie e splendori del confino di polizia. Lettere da Ventotene 1939-1943, Feltrinelli, Milano, 1981: 53
[18] Archivio Centrale dello Stato Casellario Politico Centrale – Rossi Istanze, protoc. 73070 del 29 ottobre 1934: Copia dattiloscritta dell’istanza di Ernesto Rossi con la quale si richiedeva l’autorizzazione a tenere in cella materiali scrittori. – Archivio Centrale dello Stato Casellario Politico Centrale – Rossi, protoc. 73256 del 20 novembre 1934: trascrizione manoscritta della intercettazione ambientale effettuata nella sala comune del settore di massima sicurezza del carcere di Regina Cœli
[19] Ernesto Rossi, Aneddoti carcerari, «Il Ponte», 3, 1949: 360
[20] Giuseppe Rensi, Passato, presente, futuro, Cogliati, Milano, 1932. Lettera di Ernesto Rossi alla madre del 30 giugno 1933 in Ernesto Rossi, Elogio della galera – Lettere 1930-1943, Roma-Bari, Laterza,1968: 183-184
[21] Ernesto Rossi, Nove anni sono molti. Lettere dal carcere 1930-1939, Bollati Boringhieri, Torino, 2001: LXVII
[22] ibidem: LXVI. La poesia di Giuseppe Giusti dal titolo «Il brindisi di Girella» sottotitolata «Dedicato al signor di Talleyrand, buon’anima sua» si trova insieme a «Il Re Travicello» ed altre satire in A. Saba (a cura di), Giuseppe Giusti. Poesie scelte, Esculapio, Milano 1960
[23] da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Giusti (03/25)
[24] Lettera alla madre dal reclusorio di Piacenza del primo settembre 1933 in Ernesto Rossi, Elogio della galera, cit.: 197-200. Sull’argomento dell’anticlericalismo e sull’ateismo cfr.: E. Rossi, Pagine anticlericali, Samonà e Savelli, Roma 1966 ed anche: Ernesto Rossi, Il Sillabo e dopo, Kaos, Milano, 2000 in particolare :17: «Questo è un libro anticlericale. La sua singolarità consiste soltanto nel fatto che non è stato scritto da un anticlericale, ma dagli otto pontefici che si sono succeduti, durante l’ultimo secolo, sulla “cattedra di S. Pietro”: Pio IX, Leone XIII, Pio X, Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI». Sull’anticlericalismo di Giuseppe Rensi, oltre al già citato Passato, presente e Futuro, si veda anche Giuseppe Rensi, Apologia dell’ateismo, prefazione di N. Emery, Castelvecchi, Roma, 2013
[25] Cfr. Mimmo Franzinelli, Cronologia, in Id. Ernesto Rossi, Nove anni sono molti, op. cit.: CXIX-CXLI
[26] http://www.altierospinelli.org/manifesto/it/manifestoit_it.html (03/25)
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Sergio Ciappina, siciliano di nascita, toscano d’adozione; si occupa di ingegneria dei sistemi informatici e networking strutturale e fornisce consulenza su revisione dei processi decisionali, tecniche della contrattazione e gestione dei conflitti. Ha ottenuto il diploma di laurea in Storia presso l’Università degli Studi di Firenze con una tesi sulle «Radici e evoluzione del pregiudizio antiebraico: un’analisi storico-semantica» pubblicata dall’Osservatorio antisemitismo della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea CDEC ETS; successivamente ha proseguito gli studi e la ricerca conseguendo il diploma di laurea magistrale in Scienze Storiche con una tesi sulla «Repressione del dissenso intellettuale sotto il fascismo: Giuseppe Rensi e Ernesto Rossi nelle carte della polizia». Nel 2024 ha conseguito il diploma di laurea magistrale in Intermediazione Culturale e Religiosa con la tesi «Il controllo della Chiesa Cattolica sul corpo e sulle libertà delle donne come strumento per la rigenerazione del patriarcato: Venere e Imene al tribunale della penitenza» e concluso il percorso di Perfezionamento in Didattica della Shoah su un progetto dal titolo: «Quello che i libri non dicono e che è importante conoscere». Fa parte della redazione del progetto di ricerca gestito dalla Firenze University Press ‘Intellettuali in fuga dall’Italia fascista’.
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