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Usi collettivi dell’acqua nella Sardegna bassomedievale. Note storiche antropologiche

mappa_1di Francesco Borghero, Francesco Salvestrini 

Introduzione

Stando ai dati del WMO – World Meteorological Organization, aggiornati al 2023, circa 3,6 miliardi di persone, corrispondenti a quasi il 45% della popolazione mondiale, soffrono attualmente di carenze idriche causate da fonti d’acqua non sicure o insufficienti. Si prevede che questa cifra possa superare i 5 miliardi entro il 2050, principalmente a causa dell’aumento della pressione sulle risorse idriche e dei sempre più marcati effetti dei cambiamenti climatici. Al contempo, la crescente siccità che affligge ampie zone dell’Africa, dell’Asia centrale e delle Americhe sta accelerando l’espansione delle aree desertiche, fenomeno che mette in crisi un numero crescente di Paesi e che contribuisce all’incremento dei flussi migratori dei cosiddetti ‘profughi climatici’.

Parallelamente, in altre regioni del mondo quest’ultimo fenomeno è aggravato da sempre più frequenti e intensi episodi alluvionali. A questo proposito, le attuali ‘politiche ambientali’ messe in atto dai governi dei Paesi maggiormente sviluppati non promettono nulla di buono quanto a consapevolezza dei rischi ai quali l’umanità sta andando incontro [1].

Le coste del Mediterraneo, caratterizzate da estati lunghe e secche, intense piogge autunnali e improvvise gelate invernali, figurano tra le aree europee maggiormente esposte alle conseguenze dei cambiamenti climatici, sebbene con intensità non ancora estrema. In Italia, il rapporto ISPRA – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale del 2021 – segnala che circa il 94% dei comuni è soggetto a dissesto idrogeologico, con oltre 8 milioni di persone residenti in zone ad alta pericolosità. Eventi alluvionali, anche di notevole gravità, fanno ormai parte del quotidiano vissuto da molte popolazioni. Tra tali aree maggiormente esposte, la Sardegna figura come una delle regioni mediterranee più vulnerabili, con un crescente rischio di siccità alternato a perturbazioni meteorologiche estreme. Tali criticità sono strettamente correlate alle modalità di gestione delle risorse naturali, aggravate dall’interazione tra incendi, deforestazione, alluvioni ed erosione del suolo [2].

Le attuali vulnerabilità ambientali dell’isola presuppongono una riflessione sulle relazioni storiche tra l’ecosistema e le comunità locali [3]. In questa prospettiva, in un recente contributo si è approfondita la dimensione sociale ed economica dell’impiego del fuoco nella Sardegna bassomedievale, proponendo, attraverso un approccio storico-antropologico, elementi di analisi circa le trasformazioni delle pratiche di gestione del territorio e il loro impatto, a medio e lungo termine, sull’ambiente [4]. Muovendo da queste considerazioni e da un recente lavoro di sintesi, il presente studio si propone di esaminare in quale misura la normativa statutaria e le altre fonti legislative prodotte in Sardegna tra XIII e XIV secolo abbiano regolato l’uso dell’acqua, sia negli spazi rurali che negli agglomerati urbani [5].

La scelta di analizzare queste fonti deriva dal fatto che gli statuti medievali, grazie alla loro ampia diffusione e alla relativa uniformità strutturale – derivante in parte da modelli continentali e dal diritto comune – costituiscono la tipologia documentaria più efficace per delineare, in prospettiva di comparazione, un quadro significativo della realtà isolana. Tuttavia, occorre tener presente che tale uniformità compositiva può talvolta nascondere una certa rigidità: allora come oggi, infatti, le norme non sempre riflettevano la realtà concreta, ma delineavano piuttosto un modello ideale, lasciando spesso in ombra le consuetudini locali, che pure erano fondamentali nella gestione delle risorse offerte allo sfruttamento del contesto naturale [6].

Alla luce delle analisi critiche precedentemente condotte, questo studio intende offrire una ricostruzione dei provvedimenti legislativi relativi all’uso e alla gestione delle risorse idriche, prestando attenzione anche al ruolo svolto dalle magistrature preposte alla loro applicazione. L’indagine, di carattere eminentemente ricognitivo, si basa su testi editi (che costituiscono la maggior parte delle fonti statutarie sarde) e ha lo scopo di delineare una panoramica ampia e articolata delle normative, evidenziando sia gli aspetti comuni alle diverse raccolte legislative, sia le peculiarità che caratterizzano ciascun contesto. Il tutto con la consapevolezza che tali testimonianze rappresentano il risultato di complesse stratificazioni redazionali, condizionate dall’attività di differenti organismi istituzionali e da specifici scenari economici e sociali [7].

Veduta di Bosa, dominata dal castello di Serravalle e attraversata dal fiume Temo, in una fotografia del 1923. © Wikimedia Commons

Veduta di Bosa, dominata dal castello di Serravalle e attraversata dal fiume Temo, in una fotografia del 1923 © Wikimedia Commons

Dinamiche idrografiche e trasformazioni storiche del paesaggio

Al-Idrisi e altri geografi arabi che, a partire dal XII secolo, descrissero la Sardegna, rappresentarono l’isola come un territorio fertile ma caratterizzato da una marcata disomogeneità nella distribuzione delle risorse idriche, abbondanti nelle pianure costiere e nei bassopiani di origine marnosa, scarse invece nelle aree interne, soprattutto durante la stagione secca [8]. In età moderna questa condizione è stata evidenziata da osservatori quali il magistrato e umanista cagliaritano Sigismondo Arquer (1530-1571) e il naturalista lombardo Francesco Cetti (1726-1778). La scarsità e la stagionalità delle precipitazioni hanno determinato lo sviluppo di corsi d’acqua brevi e prevalentemente torrentizi, caratterizzati da un forte regime stagionale: ridotti spesso a semplici rivoli durante l’estate, possono generare improvvise e intense piene in autunno, con conseguenti fenomeni di rapida esondazione [9].

Nondimeno, all’interno delle fonti normative bassomedievali sarde non si trovano specifiche disposizioni relative alla gestione degli alvei fluviali o alla prevenzione delle inondazioni, nonostante questi fenomeni abbiano certamente interessato il territorio isolano, coinvolgendo anche centri urbani importanti come Bosa, attraversata dal Temo, oppure Oristano, costeggiata dal Tirso [10]. D’altra parte, recenti ricerche geoarcheologiche effettuate in aree meno densamente popolate, come la valle del Rio Posada, non hanno evidenziato tracce significative di eventi alluvionali distruttivi dal periodo romano ad oggi [11]. Tale dato sembra indicare la presenza, nella storia dell’isola, di pratiche efficaci di gestione ambientale, che, pur non documentate in forma scritta negli statuti o nelle altre normative ufficiali, potrebbero aver contribuito a limitare i danni causati dagli eventi estremi, anche grazie alla tradizionalmente bassa pressione antropica [12].

La ridotta lunghezza e il regime torrentizio dei corsi d’acqua della Sardegna hanno storicamente limitato la possibilità di sfruttare le vie fluviali per la navigazione interna, con poche eccezioni localizzate in prossimità degli estuari. Sebbene l’utilizzo navigabile del fiume Coghinas sia stato ipotizzato ma non pienamente documentato, fonti storiche attestano con maggiore chiarezza la navigabilità degli ultimi chilometri del Temo e del Tirso, specialmente di quest’ultimo in prossimità di Oristano. In particolare, alcuni documenti pisani risalenti al XIV secolo testimoniano l’esistenza di tre approdi fluviali lungo il corso d’acqua che origina sul limitare della Punta Pianedda, situati tra il ponte romano noto come Ponti Mannu – attraversato dall’antica strada a Tibulas Sulcis – e la foce del fiume, oltre alla pratica della fluitazione del legname. Tali attività, tuttavia, non sono esplicitamente menzionate nella normativa statutaria del periodo [13].

Rovine del ponte romano sul Rio Canonica, nel territorio comunale di Iglesias, periodicamente sommerse dalle acque del Lago Corsi in occasione delle piene. © Wikimapia

Rovine del ponte romano sul Rio Canonica, nel territorio comunale di Iglesias, periodicamente sommerse dalle acque del Lago Corsi in occasione delle piene © Wikimapia

Giurisdizione e diritti sulle acque

Considerata la conformazione idrografica della Sardegna, assicurare un adeguato approvvigionamento di acqua sorgiva, potabile o comunque di buona qualità è stato storicamente complesso. Per questa ragione, sin dal XII secolo, nei documenti di donazione o compravendita stipulati dai sovrani giudicali e da altri signori locali a favore di enti religiosi, si faceva spesso esplicita menzione della presenza di risorse idriche sufficienti nei terreni concessi, con diritti specifici e distinti da quelli fondiari. In tali documenti l’acqua svolge un ruolo cruciale anche nella definizione dei confini dei terreni oggetto di transazione economica, evidenziando la morfologia locale in relazione alla presenza di fiumi, torrenti e ruscelli [14].

Nelle fonti normative del XIII e XIV secolo, infatti, i corsi d’acqua rappresentavano spesso delimitazioni naturali e punti di riferimento fondamentali per stabilire ambiti di giurisdizione territoriale. Emblematico è il caso di Iglesias, ove la competenza delle magistrature civiche si estendeva «dela dicta terra di Villa di Chiesa, e in dele suoi pendige e confine, e Cannadonica», ovvero l’attuale Rio Canonica, «et in dell’altre aque e luochi u’ si lava vena o menuto per quelli della dicta Villa di Chiesa e delli homini d’argientiera, o’ si cava o fa altro lavoro d’argintiera» (I, 3) (§ 5). Analogamente, le disposizioni del Breve di Villa di Chiesa relative all’attività dei macellai prevedevano che «tucto lo bestiame che passa dal flume di Baratoli in qua non si possa partire si no paga lo diritto ordinato» (III, 14), confermando ulteriormente l’importanza strategica attribuita ai corsi d’acqua come elementi di riferimento spaziale e amministrativo.

. Giovanni Francesco Fara, De Chorographia Sardiniae, 2. voll., Torino, Ex Typographia Regia, 1835. © Internet Archive

. Giovanni Francesco Fara, De Chorographia Sardiniae, 2. voll., Torino, Ex Typographia Regia, 1835 © Internet Archive

Le attività agro-pastorali

La gestione collettiva delle superfici irrigue richiedeva un controllo attento della distribuzione dell’acqua, essenziale per la fertilità del suolo. Già nel XVIII secolo il giurista e agronomo sassarese Andrea Manca dell’Arca osservava che gli acquitrini costieri (§ 6) necessitavano di drenaggi e canali per garantire la coltivabilità [15]. Tuttavia, la normativa statutaria sarda si concentrava principalmente sulla gestione idrica urbana e suburbana. Gli Statuti di Sassari offrono dettagli significativi, in particolare sulla regolazione dell’uso delle acque nel vasto territorio rurale della città. Dal Logudoro e, in misura minore, dall’Arborea provengono del resto le più antiche attestazioni di macchine idrauliche, documentate già nel XII secolo [16]. In questa cornice, la normativa sassarese disciplinava la costruzione di canali, il funzionamento degli impianti molitori e le pratiche irrigue [17].

Particolarmente significativo è il capitolo degli statuti sassaresi intitolato De non impaçare sa abba dessos molinos (I, 100), che regolava i rapporti tra mugnai e ortolani nelle vallate limitrofe al nucleo urbano. Queste aree erano caratterizzate da un notevole patrimonio irriguo, tanto che, sul finire del XVI secolo, i consiglieri della comunità turritana lo celebrarono in un memoriale, ricordando con enfasi la presenza di «mil fuentes de aguas muy sanas» [18]. Nel medesimo periodo l’erudito Giovanni Francesco Fara, nella sua Chorographia della Sardegna, lodava le «quadringenti perennes [...] fontes, dulces et salubres» che irrigavano le campagne circostanti, favorendo la crescita di «hortensia et nemorosa viridaria malorum aureorum, citrorum, limonum et aliorum omnium fructuum» e alimentando numerosi mulini destinati alla macinazione del grano [19].

A Sassari, i mugnai avevano diritto all’acqua corrente tutta la settimana, eccetto dall’alba del sabato a quella del lunedì, quando gli ortolani potevano deviarne il corso per irrigare i campi. La gestione delle turnazioni spettava ai partidores de abba (compartitores aquae), tre funzionari eletti dagli ortolani delle sezioni De Levante, De Mesu e De Ponente della valle di Gurusele, oggi fosso della Noce. Nominati sotto giuramento dal podestà, regolavano il flusso idrico e dirimevano le eventuali dispute. Il loro ruolo era cruciale in estate, quando l’acqua per l’irrigazione entrava in conflitto con quella destinata agli impianti molitori. Inoltre, garantivano il rifornimento idrico ai conciatori, nonché ai cittadini, nel rispetto dei privilegi ecclesiastici [20]. Sebbene non sia semplice determinare se questa figura, erede degli antichi distributori di acqua altomedievali, derivasse da una consuetudine locale oppure fosse il risultato di influenze provenienti dagli ordinamenti italici, iberici o anche magrebini, simili magistrati erano previsti in diversi statuti continentali [21].

Gli statuti di Castelgenovese (odierna Castelsardo) attestano, inoltre, pratiche agro-pastorali regolamentate da consuetudini non scritte. Essi suggeriscono, infatti, accordi tra proprietari terrieri e braccianti agricoli (juargiu, dall’antico jugarius) per l’uso delle risorse idriche. In particolare, i braccianti dovevano «carrare abba assu campu» (cap. 162), ossia trasportare acqua con carri per abbeverare le bestie da soma, senza intaccare le riserve dei terreni. Anche il Codice rurale di Mariano IV d’Arborea regolava l’accesso all’acqua per il bestiame: le greggi di capre dovevano restare lontane dagli abitati e dai campi coltivati, ma in estate era permesso condurle ad abbeverarsi, purché subito dopo fossero riportate sui monti (cap. 155). L’acqua, quindi, risultava un elemento cruciale nel rapporto tra agricoltori e allevatori, con norme volte a bilanciare le esigenze di entrambe le categorie [22].

Diagramma delle altezze dell’acqua nelle miniere iglesienti, tratto da G. Zoppi, Descrizione geologico-mineraria dell’Iglesiente, Roma, Tipografia Nazionale, 1888. © Sardegna Digital Library

Diagramma delle altezze dell’acqua nelle miniere iglesienti, tratto da G. Zoppi, Descrizione geologico-mineraria dell’Iglesiente, Roma, Tipografia Nazionale, 1888. © Sardegna Digital Library

Le attività minerarie

Analogamente agli ordinamenti minerari toscani di Massa Marittima, il IV libro del Breve di Villa di Chiesa, in riferimento alle attività di estrazione del piombo argentifero nella regione del Sigerro, anch’essa dominata dalla consorteria dei Gherardeschi, regolamentava l’estrazione dell’acqua dalle gallerie di scavo. Si prescriveva l’installazione, presso l’imbocco delle fosse, di un manubrio in ferro (curba) per azionare un verricello necessario sia al sollevamento del minerale, sia al drenaggio delle acque infiltrate (sciomfare).  L’acqua raccolta veniva rimossa con sacchi di pelle (bolghe), trasportati dai bulgaioli, mentre a bocca di miniera alcuni addetti specializzati, i fancelli di truogora, procedevano alla cernita del minerale impiegando diversi contenitori. In assenza di acqua, il lavaggio – ovvero la separazione del materiale sterile – si svolgeva nelle piasse da lavare vena, site lungo corsi d’acqua appositamente scavati o deviati purché non si danneggiassero strade o terreni limitrofi. Era vietato operare presso il Monte di Malva (oggi Monte Narba), mentre era consentito lavare il minerale nelle acque di Cannadonica, escludendo altri lavoratori dallo sfruttamento dei residui [23].

La normazione delle aree di lavaggio dei minerali era necessaria anche per fronteggiare la scarsità idrica durante i periodi di siccità, che comprometteva gli interventi antincendio nelle aree abitate (IV, 112). Del resto, l’acqua era essenziale anche per altre attività legate all’estrazione mineraria, in particolare per il funzionamento dei forni a mantice destinati alla fusione dell’argento, azionati dalla forza motrice dei corsi d’acqua. Gli imprenditori metallurgici (guelchi) potevano utilizzarla senza restrizioni, anche vicino ad orti e vigne, poiché la sua carenza avrebbe arrecato «grandissimo danno» all’attività del Sigerro, impedendo il funzionamento dei forni (IV, 82). In caso di controversie tra ortolani e operatori minerari sarebbe spettata al giudice della corte iglesiente la nomina di due «buoni homini» imparziali per distribuire equamente l’acqua tra le parti (IV, 108).

Tavola botanica dell’euforbia cipressina (euphorbia cyparissias). © Bridgeman Images

Tavola botanica dell’euforbia cipressina (euphorbia cyparissias) © Bridgeman Images

Le attività di pesca e lavanderia

Nonostante le importanti bonifiche realizzate tra il Settecento e il Novecento, la Sardegna era ed è tuttora caratterizzata dalla diffusa presenza di aree paludose, concentrate prevalentemente nel Cagliaritano (stagni di Molentargius e Santa Gilla), nell’Oristanese (laguna di Santa Giusta, stagni di Cabras e di Sassu), nella penisola di Stintino (stagni di Casaraccio, delle Saline e di Pilo) e lungo la fascia costiera della vicina Platamona. Tali zone umide hanno storicamente influenzato in modo determinante le scelte insediative, contribuendo all’insalubrità del clima e alla diffusione della malaria, ma al contempo favorendo economie basate sulla raccolta del sale e sulla pesca d’acqua dolce [24].

In particolare, gli ordinamenti normativi bassomedievali fanno riferimento alla pesca in quanto attività di terra svolta esclusivamente sulle acque interne, assimilabile dunque, per molti aspetti, ad altre forme di sfruttamento delle risorse fondiarie, senza alcun cenno alla pesca marittima. In tale ambito, il Breve di Villa di Chiesa cita l’impiego di vasche per conservare vivi i pesci (dette pischere) da parte dei pescivendoli. Particolarmente diffusa e disciplinata nelle norme dell’epoca era la pratica della pesca con il lattice di euforbia (lua, in volgare locale), pianta dal cui fusto inciso si estrae un lattice biancastro (l’euforbio), acre, irritante e tossico. Tale sostanza, condensandosi, forma una gommoresina contenente un composto velenoso denominato euforbone, il quale, versato nei fiumi e negli stagni, facilitava la cattura dei pesci, rendendoli più facilmente preda delle reti.

In particolare, la Carta de Logu del Giudicato d’Arborea proibiva la pesca col lattice di euforbia, prevedendo consistenti sanzioni pecuniarie per chi avesse violato tale divieto (cap. 85) e imponendo ai pastori di risarcire collettivamente i proprietari di bestiame le cui greggi fossero morte dopo aver bevuto acqua colposamente avvelenata da tale sostanza (cap. 117). Disposizioni analoghe si riscontrano negli Statuti di Sassari, che oltre al divieto di avvelenare le acque interne, vietavano ai pescivendoli di commercializzare pesce catturato mediante l’uso di lattice di euforbia (I, 67). Questa tecnica, punita severamente ancora dagli editti sabaudi del XVIII secolo, risulta attestata almeno sino alla prima metà del Novecento; tutt’oggi è in uso l’aggettivo alluau, riferito a persone intontite, appunto come su pisci alluau [25]. D’altro canto, l’impiego di sostanze tossiche nella pesca non era una esclusiva peculiarità isolana, essendo documentato anche in differenti contesti territoriali e ambientali [26].

breve_di_villa_di_chiesaTra le professioni legate all’utilizzo dell’acqua emerge inoltre quella, squisitamente femminile, delle lavandaie, le quali trattavano, dietro compenso, abiti e biancheria da letto. Secondo il Breve di Villa di Chiesa, per svolgere il proprio lavoro le lavatrici della città avrebbero dovuto recarsi presso l’attuale Rio Canonica (III, 20); analogamente, le Ordinazioni di Cagliari vietavano a queste lavoratrici di lavare i panni e gettare rifiuti presso gli abbeveratoi urbani e suburbani (II, 145, 215) (§ 7). Era inoltre stabilito che il bucato fosse eseguito esclusivamente durante le ore diurne, prestando attenzione a che il fuoco appositamente acceso non lambisse il soffitto delle abitazioni e versando acqua sulle ceneri al termine delle attività. A tal proposito, il codice di Castelgenovese consentiva alle lavatrici di raccogliere legna secca nella contrada di Basalorgia «pro faguer sa bugada et pro lavare lana» (cap. 215).

La fontana di Rosello a Sassari in una incisione del XIX secolo. © Wikimedia Commons

La fontana di Rosello a Sassari in una incisione del XIX secolo © Wikimedia Commons

Approvvigionamento idrico

L’importanza storica attribuita alla disponibilità d’acqua nelle campagne sarde emerge chiaramente dall’atto con cui, attorno al 1346, il futuro giudice Mariano IV d’Arborea rifondò Burgos presso il castello del Goceano, concedendo ai coloni delle franchigie sull’uso delle acque dei fiumi locali [27]. Anche presso i centri urbani l’approvvigionamento idrico poteva risultare problematico: a Cagliari i pozzi fornivano perlopiù acqua salmastra e solo le cisterne assicuravano risorse potabili [28]; a Iglesias le frequenti siccità causavano il prosciugamento delle fonti, costringendo gli abitanti ad attingere acqua da fontane e fossi situati in vigne e orti limitrofi (III, 88). Il libero accesso alle fonti pubbliche urbane, come quelle di Corradino e di Bagno citate nel Breve iglesiente (II, 68; III, 29), era tutelato anche dal codice di Castelgenovese (cap. 205), tramite disposizioni in parte confermate dai pregoni sabaudi estesi a tutta la Sardegna nel XVIII secolo [29].

Tra le figure professionali legate all’approvvigionamento idrico spiccavano gli asinai, detti localmente molentari (dal volgare sardo molenti, ‘asino’), assimilabili agli acquaioli diffusi in tutta l’area mediterranea medievale. Secondo il Breve di Villa di Chiesa (III, 21, 88) e le Ordinazioni dei consiglieri di Cagliari (I, 64; II, 46), gli asinai erano incaricati di trasportare l’acqua attinta dalle fonti cittadine e di venderla in strada utilizzando barili ufficialmente misurati e marchiati, con prezzi stabiliti dalle autorità locali. I proprietari di fonti, pozzi o cisterne erano a loro volta obbligati a fornire agli asinai l’acqua a un prezzo concordato. Inoltre, la Carta de Logu d’Arborea (cap. 126) e il Breve iglesiente (II, 59) vietavano ai trasportatori di vino, olio e miele di annacquare o adulterare i prodotti, rimarcando come l’acqua fosse spesso anche strumento di frode commerciale; per la medesima ragione, il Breve limitava la presenza di acqua sui banchi dei vinai (II, 46).

Sulla scia della tradizione classica, l’acqua continuò, inoltre, a rivestire un ruolo centrale nella socialità quotidiana. Le persone si incontravano non solo presso le fonti, ma anche nei bagni pubblici cittadini, come attestato dagli Statuti di Sassari. In queste strutture l’accesso era rigidamente disciplinato per ragioni morali: nei primi tre giorni della settimana l’ingresso era esclusivamente riservato alle donne, mentre dal giovedì alla domenica spettava agli uomini. Tale alternanza era tassativa, e chiunque l’avesse violata poteva essere condannato alla pena capitale (I, 160).

Veduta di Castelaragonese (odierna Castelsardo) dalla foce del Rio di Frigiano, tratta da N. Pène – J. Pétré, Recueil des cartes, plans, veues, reconnaissances, et memoire des costes d’Italie et des isles d’Elbe, Corse, et Sardaigne, 1679, Chateaux de Vincennes (Parigi), Service Historique de la Defense-Marine, 98, cc. 48-49. © Wikimedia Commons

Veduta di Castelaragonese (odierna Castelsardo) dalla foce del Rio di Frigiano, tratta da N. Pène – J. Pétré, Recueil des cartes, plans, veues, reconnaissances, et memoire des costes d’Italie et des isles d’Elbe, Corse, et Sardaigne, 1679, Chateaux de Vincennes (Parigi), Service Historique de la Defense-Marine, 98, cc. 48-49 © Wikimedia Commons

La tutela e la purezza delle acque

All’approvvigionamento idrico si collega anche il tema della purezza dell’acqua, frequentemente affrontato nella legislazione statutaria sia isolana che continentale dell’epoca. Tale attenzione nasceva dalla consapevolezza della difficoltà di accedere ad acqua potabile, ovvero – secondo le antiche concezioni classiche – priva di sapore e odore [30]. Questa esigenza era particolarmente sentita nei contesti urbani, ove la prossimità degli abitanti favoriva pericolose contaminazioni tra i pozzi di rifornimento e i liquami di scarico. Numerose norme degli statuti cittadini dell’isola disciplinavano perciò il trattamento dei reflui domestici, proibendo di versare acque sporche lungo strade e canali [31]. Tuttavia, la possibilità prevista dal Breve di Villa di Chiesa di «gittare acqua [o] fastidio» dopo il terzo suono serale della campana, pronunciando tre volte «Cansa!» (II, 79), dimostra che tali disposizioni mirassero più al decoro urbano e alla tutela dei beni materiali che alla prevenzione di eventuali malattie causate da acque contaminate.

L’impiego delle fonti urbane e suburbane era inoltre tenuto distinto dalle attività di lavanderia e di abbeveraggio del bestiame. Lo stesso Breve iglesiente vietava espressamente di lavare i panni e far bere gli animali presso le fontane cittadine (II, 77). Emblematica, a questo proposito, la fonte situata nella cosiddetta «Piassa Vecchia» di Iglesias, la cui ubicazione resta ancora incerta. Tale struttura doveva essere ripulita accuratamente una volta all’anno, durante l’estate, a spese del sovrano, così da garantire ai cittadini un’acqua sempre «necta, sensa alcuna lordura» (I, 74). Allo stesso modo, tutti gli abbeveratoi cittadini dovevano essere protetti dalla presenza di sporcizie e da animali affetti da malattie contagiose (II, 43, 76).

A Iglesias era inoltre vietato utilizzare l’acqua delle fontane cittadine per attività inquinanti come la conceria, bandita nel centro urbano e nei sobborghi (II, 66). Analogamente, a Sassari gli statuti obbligavano i conciatori a smaltire le acque sporche fuori dall’abitato e dalla valle di Gurusele, curando che fuoriuscissero in prossimità dei ponti, delle mura e delle strade principali, tutelando così il decoro urbano (I, 43). Anche a Castelgenovese si disciplinava rigidamente l’uso delle risorse idriche: lavandaie, conciatori e maceratori di lino dovevano prelevare l’acqua soltanto dalla foce del Rio di Frigiano, evitando punti più a monte chiaramente identificati, per garantire la pulizia dell’acqua destinata ai vigneti e alle coltivazioni (capp. 216, 218, 219). Tali disposizioni, assai comuni negli statuti comunali medievali, confermano il già evidenziato approccio pragmatico, mirato più a proteggere selettivamente le risorse di diretto interesse, come l’acqua dolce, piuttosto che a salvaguardare l’ambiente nel suo complesso, come dimostra la mancanza di qualsiasi attenzione riservata alle acque marine [32].

Assonometria del sito archeologico di Sant’Anastasia a Sardara, con le vestigia di templi e pozzi votivi sulle quali insiste l’omonima chiesa del XV secolo. © Nurnet

Assonometria del sito archeologico di Sant’Anastasia a Sardara, con le vestigia di templi e pozzi votivi sulle quali insiste l’omonima chiesa del XV secolo © Nurnet

Ritualità e simbologie

La recente ricerca archeologica relativa alla Sardegna ha evidenziato come, sin dall’età preistorica e protostorica, l’acqua fosse connessa ad alcune pratiche rituali, testimoniate da edifici monumentali quali pozzi sacri e fonti cultuali di età prenuragica e nuragica. Questi riti, chiaramente legati a cicli stagionali ed esigenze agro-pastorali, sono stati talvolta reinterpretati nell’immaginario collettivo moderno e contemporaneo nell’ambito dei cosiddetti ‘culti dell’acqua’. Nondimeno, già in età medievale molti di tali siti furono riutilizzati come supporto spaziale o infrastrutturale a nuovi edifici del culto cristiano, perdendo progressivamente la loro dimensione sacrale e assumendo, nell’ambito degli insediamenti rurali, prevalente funzione di riserve idriche [33].

Più precisamente, per quanto riguarda i riti che si sarebbero svolti all’interno dei templi a pozzo, alcuni riferimenti compaiono nelle testimonianze degli autori classici, i quali tuttavia attribuiscono un ruolo primario alle fonti d’acqua calda, considerate luoghi privilegiati di pratiche sacre [34]. Già in epoca romana, del resto, erano note in Sardegna le proprietà terapeutiche di diversi siti termali, come le Aquae Ypsitanae di Fordongianus e le Aquae calidae Neapolitanorum di Sardara [35].

Complesso termale di epoca romana presso l’antica Forum Traiani (odierna Fordongianus) (I-III sec. d.C.). © Wikimedia Commons

Complesso termale di epoca romana presso l’antica Forum Traiani (odierna Fordongianus) (I-III sec. d.C.) © Wikimedia Commons

In relazione a ciò, una delle più antiche cronache medievali isolane, probabilmente risalente alla seconda metà del XIII secolo e dedicata alla storia dei giudici del Logudoro, si sofferma sulla figura di Mariano I (1073-1082), descrivendolo come un uomo affetto da una condizione riconducibile all’idropisia e amante del buon vino, ma anche attento alla disponibilità di acque sia salse che fresche presso le proprie residenze, in particolare per mitigare la calura estiva [36].

Sotto questo aspetto, è rilevante il caso di alcune carte cagliaritane trecentesche (§ 3), nelle quali il ricognitivo pagamento del canone enfiteutico poteva consistere in una tazza d’acqua, gesto dall’evidente valore simbolico che richiama, da una parte, l’importanza del prelievo d’acqua sorgiva; dall’altra, la sacralità del rito offertorio [37]. Del resto, echi liturgici pur vaghi, evocanti una commistione tra sostanze vitali e potenzialmente sacramentali, emergono nel ricorrente tema della frode del vino annacquato, presente nei vari statuti bassomedievali (§ 7) [38].

La fontana di Rosello a Sassari nella serie di francobolli Fontane d’Italia, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1975. © Wikimedia Commons

La fontana di Rosello a Sassari nella serie di francobolli Fontane d’Italia, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1975 © Wikimedia Commons

Conclusioni

Elementi di una relazione plurisecolare tra comunità e risorse idriche emergono dunque dall’analisi delle pur non numerose raccolte normative della Sardegna bassomedievale. La protezione degli ambienti naturali era garantita da divieti tesi a impedire abusi da parte dei cittadini e danni causati da forestieri o dal loro bestiame. Norme severe prevedevano ammende, non solo in denaro, per chi comprometteva l’integrità di fiumi e torrenti, risorse fondamentali per l’irrigazione, il lavaggio dei minerali, il funzionamento delle macchine idrauliche e le attività artigianali. Tali disposizioni, analoghe a quelle presenti nei comuni continentali, non si limitavano a vietare usi impropri dell’acqua, ma regolavano anche la sua equa distribuzione.

Strumenti fondamentali di tutela e gestione delle risorse idriche erano rappresentati dagli ufficiali pubblici e dal principio di responsabilità collettiva. Un esempio significativo è costituito dai partidores de abba, figure incaricate di regolare la distribuzione dell’acqua, il cui ruolo, come attestano gli Statuti di Sassari, conferma un’idea centrale della ricerca antropologica: nelle società preindustriali – e, sotto alcuni aspetti, anche in quelle contemporanee – la scarsità d’acqua non sarebbe assoluta, bensì spesso dipendente da dinamiche di potere e conflitti d’interesse [39]. Le normative disciplinavano l’accesso all’acqua in base a giorni, stagioni e persino fasce orarie, riprendendo principi già presenti nel diritto romano, che prevedeva la regolamentazione dei prelievi idrici secondo tempistiche derivanti dalle pratiche agricole dell’Italia antica [40].

La salvaguardia delle risorse idriche era affidata alle collettività, responsabili della loro integrità. Tuttavia, sebbene i codici bassomedievali contengano disposizioni ricorrenti in materia, esse non esplicitano mai le motivazioni dei divieti o degli obblighi imposti, rendendo quantomeno discutibile l’attribuzione di un intento di tutela a carattere ‘igienico-sanitario’ [41]. Nondimeno, il mantenimento e la cura delle infrastrutture idriche, in particolare delle fontane cittadine, rivestivano un ruolo significativo. Monumentalizzate in età moderna, queste strutture non solo garantivano l’approvvigionamento idrico, ma divennero anche simboli del prestigio urbano, inscrivendosi in una più ampia logica di glorificazione municipale [42].

Se da un lato alcune pratiche dannose nell’uso delle acque, come la pesca con sostanze tossiche, hanno resistito ai divieti legislativi sino all’età moderna e contemporanea, dall’altro l’esperienza e l’accortezza delle comunità rurali hanno permesso di proteggere le valli fluviali dagli effetti delle esondazioni anche in assenza di normative scritte. In questo senso, la legislazione bassomedievale sarda rifletteva solo parzialmente la gestione quotidiana delle risorse idriche, spesso regolata da consuetudini non codificate. Tuttavia, l’influenza della normativa continentale introdusse strumenti giuridici e culturali che arricchirono il sistema normativo locale. I magistrati sassaresi e iglesienti, così come i giudici arborensi, recepirono e adattarono tali principi, traslandoli in norme scritte che contribuirono ad una amministrazione tendenzialmente corretta delle risorse idriche e del loro sfruttamento.

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] URL: https://wmo.int/publication-series/state-of-global-water-resources-2023.
[2] URL: https://www.isprambiente.gov.it/it/pubblicazioni/rapporti/dissesto-idrogeologico-in-italia-pericolosita-e-indicatori-di-rischio-edizione-2021.
[3] La protezione dell’ambiente oggi e i condizionamenti del passato: il ruolo della geografia fisica nella protezione dell’ambiente, i problemi dell’ambiente nella storia, a cura di P. Brandis – G. Scanu, Bologna, Pàtron, 1995.
[4] F. Borghero, Usi sociali del fuoco nella Sardegna bassomedievale. Una prospettiva storica e alcune notazioni antropologiche, «Dialoghi Mediterranei», n.69, 2024, URL: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/usi-sociali-del-fuoco-nella-sardegna-bassomedievale-una-prospettiva-storica-e-alcune-notazioni-antropologiche/.
[5] F. Borghero – F. Salvestrini, Fuoco e acqua negli ordinamenti normativi della Sardegna bassomedievale, «Mélanges de l’École française de Rome – Moyen Âge», CXXXV, 2023: 137-170.
[6] F. Salvestrini, Water and the Law. Water Management in the Statutory Legislation of Later Communal Italy, Oxford, Archaeopress, 2024; Id., Résilience et antifragilité dans les centres fluviaux de l’Italie médiévale (XIIIe et XIVe siècles). Les risques d’inondation, in Perception et appréhension du risque naturel dans l’Antiquité et au Moyen Âge, a cura di J. Dumasy – A. Perrier, Projet PARAMA, Oxford, Archaeopress, in stampa.
[7] F. Artizzu, Alcune considerazioni sulla legislazione statutaria e sulla Carta de Logu, «Archivio Storico Sardo», XLII, 2002: 225-237.
[8] M.M. Bazama, Arabi e Sardi nel Medioevo, Cagliari, EDES, 1988: 17-21.
[9] F. Cetti, Storia naturale di Sardegna, a cura di A. Mattone – P. Sanna, Nuoro, Ilisso, 2000: 65-67; S. Arquer, Sardiniae brevis historia et descriptio, a cura di M.T. Laneri – R. Turtas, Cagliari, CUEC, 2007: 10.
[10] M.G. Mele, Oristano giudicale. Topografia e insediamento, Cagliari, CNR, 1999: 30-31, 110-111, 186; F. Di Gregorio – P. Frongia – G. Piras – N. Scionis, Modelli e metodi per la previsione e la prevenzione del rischio idrogeologico nei piccoli bacini in ambiente mediterraneo. L’esempio del Rio Pardu (Sardegna centro-orientale), in Paesaggi ambienti culture economie. La Sardegna nel Mondo Mediterraneo. Per ricordare Pasquale Brandis, a cura di G. Scanu, Bologna, Pàtron, 2013: 453-466; I. Lucherini – P.G. Spanu, L’evoluzione del paesaggio costiero nella Sardegna nord occidentale. Metodi avanzati di indagine: Bosa e il suo fiume, in Bosa. La città e il suo territorio dall’età antica al mondo contemporaneo, a cura di M.B. Cocco – A. Mattone, Sassari, Carlo Delfino, 2016: 677-688.
[11] F. Sulas, Verso un’ecologia storica del paesaggio rurale in Sardegna. Note dal bacino del Rio Posada, in Sa massarìa. Ecologia storica dei sistemi di lavoro contadino in Sardegna, a cura di G. Serreli – R.T. Melis – Ch. French – F. Sulas, vol. I, Cagliari, CNR, 2017: 21-77.
[12] M. Tangheroni, Problemi della storia demografica della Sardegna medievale: uno stato della questione, in Demografia e società nell’Italia medievale (secoli IX-XIV), a cura di R. Comba – I. Naso, Cuneo, Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della Provincia di Cuneo, 1994: 363-371.
[13] F. Artizzu, Un inventario dei beni sardi dell’Opera di Santa Maria di Pisa (1339), «Archivio Storico Sardo», XXVII, 1961: 63-80; Mele, Oristano giudicale, cit.: 185-187; A. Soddu – F.G.R. Campus – G. Floris, Paesaggi costieri tra storia e archeologia nella Sardegna settentrionale. Le valli del Coghinas e del Rio Posada nel Medioevo, in Sa massarìa, cit., vol. II: 701-767.
[14] E. Artizzu, L’acqua e il suo utilizzo nelle Carte volgari cagliaritane e nei Condaghi, «Archivio Storico Sardo», LIV, 2019: 95-128.
[15] A. Manca Dell’Arca, Agricoltura di Sardegna, a cura di G. Marci, Cagliari, CUEC, 2005: 30.
[16] B. Fois, Utensili, macchine semplici, mulini ad acqua e manodopera servile nelle campagne sarde dell’età giudicale, in Ead., Territorio e paesaggio agrario nella Sardegna medievale, Pisa, ETS, 1990: 115-144.
[17] F. Artizzu, Disposizioni riguardanti l’edilizia nella legislazione statutaria della Sardegna medievale, «Archivio Storico Sardo», XXXVII, 1992: 71-82; M. Cadinu, Water-related architecture in Sardinia, Wuppertal, Steinhäuser, 2015: 55-92.
[18] P. Cau, L’acqua e la città: ortolani e mugnai a Sassari nei secoli XVI-XVII, in Corporazioni, gremi e artigianato tra Sardegna, Spagna e Italia nel Medioevo e nell’età moderna (XIV-XIX secolo), a cura di A. Mattone, Cagliari, AM&D, 2000: 256-277: 256.
[19] Ioannis Francisci Farae, Opera, vol. I, In Sardiniae Chorographiam, a cura di E. Cadoni – M.T. Laneri, Sassari, Gallizzi, 1992: 166, 168. Cfr. P. Cau, Indice toponomastico delle zone irrigue sassaresi nei secoli XVI-XVII, in La Sardegna nel mondo mediterraneo, vol. 6, Per una storia dell’acqua in Sardegna, a cura di M. Brigaglia, Nuoro-Sassari, ISRE-Gallizzi, 1990: 153-168; R. Turtas, Per uno studio sulle culture irrigue a Sassari nel Cinque-Seicento, in Ivi: 169-180.
[20] P. Cau, Una fonte archivistica per la ricostruzione storica del territorio: gli elenchi dei “subrastantes” e “partidores” delle acque irrigue sassaresi nei secoli XVI-XVII, in La protezione dell’ambiente, cit.: 348-362; Id., La materia dei “victualia” negli Statuti sassaresi: le norme e le magistrature, in I settecento anni degli Statuti di Sassari. Dal Comune alla città regia, a cura di A. Mattone – P.F. Simbula, Milano, Franco Angeli, 2019: 455-477.
[21] S. Ciriacono, Gli usi dell’acqua. Per un approccio multidimensionale, in Paesaggi dell’acqua, a cura di G. Bonini – R. Pazzagli, («Quaderni della Scuola di Paesaggio Emilio Sereni», XVI), 2020: 73-83.
[22] B. Fois, Sul “codice rurale” di Mariano IV d’Arborea, «Medioevo. Saggi e Rassegne», VIII, 1983: 41-69.
[23] L. Dallai, Massa Marittima nell’età del Codice: una rilettura dei dati archeologici e minerari, in I codici minerari nell’Europa preindustriale: archeologia e storia, a cura di R. Farinelli – G. Santinucci, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2014: 71-81; C. Sanna, Le miniere nel Breve di Villa di Chiesa, in Ivi: 45-52.
[24] C. Incani Carta, Teoria e pratica nell’organizzazione del territorio: le bonifiche in Sardegna tra ’700 e ’800. L’esempio dello stagno di Sanluri, in La Sardegna nel mondo mediterraneo, vol. 5, L’acqua del Mediterraneo, a cura di P. Brandis, Nuoro-Sassari, ISRE-Gallizzi, 1990: 27-36.
[25] A.D. Atzei, Le piante nella tradizione popolare della Sardegna, Sassari, Carlo Delfino, 2003: 134-135.
[26] F. Sznura, Veleni e nobilissimi pesci. Appunti sulla legislazione fiorentina in tema di pesca nelle acque interne (secolo XV), in Fiumi e laghi toscani fra passato e presente. Pesca, memorie, regole, a cura di Id., Firenze, Aska, 2010: 270-282.
[27] Codex Diplomaticus Sardiniae, a cura di P. Tola, vol. I, Torino, E Regio Typographeo, 1861: 762.
[28] C. Tasca, La situazione idrica di Cagliari nei secoli XV-XVIII: epigrafi e documenti, in La Sardegna nel mondo mediterraneo, vol. 6, cit.: 117-151.
[29] Editti, pregoni, ed altri provvedimenti emanati pel Regno di Sardegna […], vol. II, Cagliari, Nella Reale Stamperia, 1775: 139.
[30] J. Verdon, Bere nel Medioevo. Bisogno, piacere o cura, trad. it. Bari, Dedalo, 2005.
[31] F. Bocchi, Regolamenti urbanistici, spazi pubblici, disposizioni antinquinamento e per l’igiene nelle maggiori città della Sardegna medievale, in La Corona d’Aragona in Italia (secc. XIII-XVIII), vol. II-1, Il “regnum Sardiniae et Corsicae” nell’espansione mediterranea della Corona d’Aragona, Sassari, Carlo Delfino, 1995: 73-124.
[32] D. Balestracci, La politica delle acque urbane nell’Italia comunale, «Mélanges de l’École française de Rome – Moyen Âge», CIV, 1992: 431-479; Water Control in Western Europe, Twelfth-Sixteenth Centuries, a cura di E. Crouzet-Pavan – J.C. Maire Vigueur, Milano, Università Bocconi, 1994.
[33] V. Lanternari, Preistoria e folklore. Tradizioni etnografiche e religiose della Sardegna, Sassari, L’Asfodelo Editore, 1984; Il tempo dei nuraghi. La Sardegna dal XVIII all’VIII sec. a.C., a cura di T. Cossu – M. Perra – A. Usai, Nuoro, Ilisso, 2018.
[34] R. Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, Piacenza, Società Editrice Pontremolese, 1912.
[35] M. Bonello Lai, Terme e acquedotti della Sardegna romana nella documentazione epigrafica, in La Sardegna nel mondo mediterraneo, vol. 6, cit.: 27-43.
[36] Libellus Judicum Turritanorum, a cura di A. Sanna, Cagliari, S’Ischiglia, 1957: 46.
[37] Battesimo e battisteri, a cura di R. Iorio, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1993.
[38] M. Montanari, Acqua e vino nel medioevo cristiano, in Storia dell’acqua. Mondi materiali e universi simbolici, a cura di V. Teti, Roma, Donzelli, 2016 (12003): 225-236.
[39] N. Breda, Per un’antropologia dell’acqua, in Antropologia dell’acqua, a cura di Ead., («La Ricerca Folklorica», LI), 2005: 3-16.
[40] M. Fiorentini, Struttura ed esercizio della servitù d’acqua nell’esperienza giuridica romana, «Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche. Università di Trieste», VIII, 2003: 51-197.
[41] R.E. Zupko – R.A. Laures, Straws in the Wind. Medieval Urban Environmental Law. The Case of Northern Italy, New York (NY), Routledge, 1996; J.L. Smith, Medieval Water Energies: Philosophical, Hydro-Social, and Intellectual, «Open Library of Humanities», IV, 2018:1-27.
[42] M. Cadinu, Fontane e architetture dell’acqua tra XVI e XIX secolo, in La Sardegna medievale moderna e contemporanea. Storia e materiali, a cura di R. Martorelli – R. Ladogana – A. Pasolini – S. Campus – M. Salis, Sassari, Carlo Delfino, 2021: 121-135. 

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Francesco Borghero, dottore di ricerca in Storia Medievale presso l’Università degli Studi di Firenze e in seguito borsista e assegnista di ricerca presso il medesimo ateneo e l’Università degli Studi di Siena, si occupa di storia socio-economica e istituzionale del tardo Medioevo italiano, con una focalizzazione sul notariato, sulle istituzioni ecclesiastiche e religiose della Toscana e sulle realtà istituzionali e sociali della Sardegna. Oltre ad articoli e recensioni su riviste scientifiche e volumi miscellanei, è autore della monografia Ser Lando di Fortino dalla Cicogna. Notariato e ascesa sociale a Firenze nel tardo Medioevo, Firenze, Olschki, 2024. Cultore della materia presso l’Università degli Studi di Firenze, è attualmente è borsista di ricerca presso l’Istituto Storico Italiano per il Medioevo. Dal 2022 è membro della segreteria di redazione della rivista «Archivio Storico Italiano». 
Francesco Salvestrini è professore ordinario di Storia Medievale presso il Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo (SAGAS) dell’Università degli Studi di Firenze. Si occupa principalmente di storia della Chiesa medievale e del monachesimo benedettino, di storia del rapporto uomo-ambiente, di storia delle istituzioni politiche ed ecclesiastiche nell’Italia comunale, di edizioni normative e di storia della storiografia e dell’erudizione storica sul Medioevo in età moderna e contemporanea.

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