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Un’inchiesta a Ouistreham: tra finzione e realtà, appartenenza e agentività individuale

aubenas-ouistrehamdi Claudio Gnoffo 

Nel 2010, in Francia viene pubblicato Le Quai de Ouistreham, inchiesta della giornalista Florence Aubenas che, fingendosi disoccupata in cerca di lavoro, s’inserisce nella comunità di Caen per capire come vive chi è nella perenne precarietà, e così documenta lo sfruttamento di cui sono vittime gli addetti alle pulizie nei ferryboat che attraversano la Manica: l’inchiesta diventa un film nel 2021.

Prenderò in conto le dinamiche socio-culturali che vive la protagonista tra libro e film, dentro la comunità di Caen e il gruppo di lavoratori sfruttati. Per molti aspetti il ruolo di Aubenas può essere comparato a quello di un antropologo o un sociologo che s’inserisce in una comunità di nativi e li osserva, in apparenza neutralmente ma, di fatto, venendo coinvolto nelle dinamiche complesse associate in primis alla dimensione agentiva del proprio fare, poi alla dimensione emotiva legata alla propria presenza, e infine alla necessaria trascrizione della propria esperienza in un testo che vorrebbe essere veritiero ma risulta, comunque, la trasposizione di un’esperienza tanto finzionale quanto personale. Aubenas, nel suo essere giornalista, scrittrice e narratrice di questa particolare esperienza, può essere vista come una sorta di “socio-antropologa implicita” o “etnologa letteraria”.

Esaminerò dunque queste dinamiche complesse tenendo conto di cinque nozioni antropologiche quali:

- La solidarietà (che s’instaura tra i lavoratori sfruttati);

- La costruzione narrativa della verità (da parte di Aubenas);

- L’alterità (che caratterizza la protagonista/infiltrata rispetto ai veri lavoratori);

- L’esistenza (con le scarse prospettive dei lavoratori del porto di Ouistreham);

- Il connubio di identità e appartenenza (di una giornalista/scrittrice affermata in contrasto con quella di lavoratori sfruttati).

Le parole-chiave della nostra analisi, dunque, sono identità, agentività e appartenenza.

Nel romanzo, Florence Aubenas si finge una donna che deve reinventarsi dopo un matrimonio andato in fumo e una vita da casalinga. Questo suo alter ego non aveva mai avuto bisogno di lavoro finché era sposata, e adesso deve partire da zero.

Florence/Marianne agisce come osserv/attrice abilmente infiltrata in una realtà aliena, e la sua lucida agentività deve confrontarsi con la cordiale accoglienza della comunità di Caen: si creeranno così legami, soprattutto coi colleghi del porto di Ouistreham, una vera e propria micro-comunità. Lei vive il conflitto tra verità e finzione all’interno di un gruppo dalle dinamiche definite, dove agisce tra pari, ugualmente sfruttata, ma separata da un’alterità ineliminabile, di cui il lettore/spettatore è complice: mentre il gruppo di Ouistreham è unito dall’assenza di prospettive, poiché sanno che pochissimi fra loro potranno uscire da quella periferia esistenziale, lei invece potrà tornare alla propria classe sociale, tra salotti eleganti ed eventi glamour, appena vorrà. Si è ripromessa che tornerà alla propria agiata esistenza quando sarà arrivata al traguardo cui mirano tutti i lavoratori precari, ossia l’agognato contratto a tempo indeterminato, ma può comunque tirarsi indietro quando desidera, non la forza né controlla nessuno.

La precarietà dei nuovi colleghi e amici interagisce con la sua: che accadrà quando scopriranno la sua non-appartenenza? Un gruppo è tale perché si basa su un certo tipo di appartenenze, ma allora quei legami affettivi, basati sul comune sentire, sopravvivranno? È interessante osservare dinamiche e conseguenze di queste interazioni fino al disvelamento finale: nel film in particolare, le reazioni saranno diverse fra i personaggi, com’è tipico all’interno dei meccanismi del gruppo, per i quali gioca un ruolo fondamentale la dimensione emotiva della (re)azione, tanto individuale quanto comunitaria.

Come definisce Florence/Marianne la propria agentività? Innanzitutto, in dei nonluoghi. E allora può essere stimolante far incontrare Alessandro Duranti, che parla di agentività, con Marc Augé, che parla di nonluoghi. Duranti dà all’agentività la definizione di proprietà di quegli enti che hanno tre caratteristiche (Duranti, 2007: 89):

1) hanno un certo grado di controllo sulle proprie azioni;

2) le loro azioni hanno effetto su altri enti, e a volte su loro stessi;

3) le loro azioni sono oggetto di valutazione.

Per quanto possa sembrare ovvio che Florence/Marianne sia dotata di agentività, è interessante andare a vedere questi tre aspetti in lei:

1) è perfettamente cosciente di ciò che fa e, dotata dell’abilità di linguaggio che ci si aspetterebbe da una giornalista/scrittrice navigata, impara presto a inserirsi in questo mondo per lei nuovo, e lo fa con straordinaria fermezza, senza tentennamenti;

2) è intenta nella propria missione di reportage, non ha intenzione di avere effetti sulla vita di coloro che incontra, tantomeno di farsi influenzare da loro all’infuori di quei consigli o istruzioni che le saranno utili; cionondimeno lei non rifiuta ma anzi cerca il contatto umano, proprio per immergersi il più possibile in quel mondo e farlo proprio, per rendere la propria scrittura la più pregna possibile di verità, seppur nella finzione. Agisce da antropologa e sociologa ma ciò chiaramente avrà ripercussioni sugli altri e su di sé, poiché si creeranno legami affettivi che lei non immaginava;

3) è sottoposta a una costante valutazione dal mondo che la circonda, non solo perché viene vista (secondo il ruolo che interpreta) come la donna da fuori, separata, che vuole rifarsi una vita e che dev’essere istradata (e ciò concorre all’accoglienza cordiale che riceve), ma proprio perché nella sua ricerca lavorativa, che andrà avanti fino al fatidico contratto a tempo indeterminato, lei dev’essere soggetta a valutazione e giudizio.

Anche da un punto di vista squisitamente sociale, pare chiaro che Florence/Marianne venga valutata e che lei chiaramente se lo aspetti:

«La società è organizzata sulla base del principio che ogni individuo che possiede certe caratteristiche sociali ha il diritto morale di aspettarsi che gli altri lo valutino e lo trattino in un modo appropriato. Connesso a questo diritto vi è la sua aspettativa che una persona che dichiara di possedere certe caratteristiche sociali debba effettivamente possederle» (Goffman, 1969: 17).

duranti-etnopragmaticaFlorence/Marianne, da giornalista/scrittrice di esperienza, sa che il parlato ha una sua dimensione performativa: probabilmente lei non la intende in modo scientifico come la intende e la studia la pragmatica filosofica e linguistica, ma in qualche modo, da professionista qual è, lei lo sa. L’uso del linguaggio nella vita quotidiana è, per definizione, pragmatico, cioè rivolto all’adempimento di vari atti, per loro natura sociali. Lei non ha problemi, dopo le difficoltà iniziali, a muoversi tra due livelli: il primo è la vita quotidiana nella città dove va a stare, Caen, alla ricerca di lavoro, ricerca che la porterà alla cittadina di Ouistreham e al suo porto; il secondo è la narrazione di ciò che vive, con la proprietà di linguaggio dello scrittore/antropologo/sociologo che riflette su di sé e sulla propria esperienza mentre la sta vivendo, in una sorta di diario intimo che diverrà poi il libro.

Il libro di Aubenas è un reportage reso romanzato affinché sia piacevole e interessante, ma non si ha sensazione di falsità, anche perché, già nel Prologo, l’autrice introduce e spiega cosa l’ha portata a questa esperienza d’immersione che è divenuta il testo: lei ci chiede fiducia sulla sua veridicità, e noi lettori gliela diamo.

Nel film Carrère mette in atto un gioco più sottile, a partire da una scelta semplice: oltre al fatto che, ovviamente, tutti i nomi dei personaggi sono cambiati, la protagonista non è più una giornalista ma una scrittrice: non si occupa di articoli e reportage, di per sé associati alla categoria di “verità”, bensì è una romanziera, inventa storie che immediatamente associamo a fiction e creatività. Il nucleo della struttura narrativa, in prospettiva intersemiotica, rimane lo stesso, ma questa scelta non è un caso. Da scrittore e sceneggiatore, Carrère trasforma il reportage in opera di finzione, e traspone la giornalista Florence nella romanziera Marianne, proprio perché vuole dirci qualcosa che non era nelle intenzioni dell’autrice: c’è sempre della finzione, o quantomeno della licenza creativa, quando raccontiamo la nostra realtà o la nostra esperienza, cioè quando siamo autori di noi stessi. Del resto, per Bruner «La creazione del Sé è un’arte narrativa» (Bruner, 2006: 73), mentre per García Márquez «La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla» (García Márquez, 2004: incipit). È un rafforzamento intenzionale, da parte del regista, della distanza tra la protagonista e le persone che la circondano: inutile girarci attorno, essere scrittori affermati ha un che di aristocratico, sa di privilegi e si connette al libro quale totem di prestigio e riconoscimento sociale, quanto di più distante dalle periferie esistenziali dove l’autrice s’inserisce.

Le amiche Christèle e Marilou avranno un ruolo fondamentale. Christèle è una madre sola, tre figli e un casermone come nido domestico, ed è solo grazie a Marianne se si concede momenti di libertà, mentre Marilou è una ragazzina che ha già appreso che è meglio aspettarsi il minimo dalla vita, in linea con le aspettative del gruppo: alcuni tra loro sognano una vita diversa, sperano di affrancarsi, ma la maggior parte no. Il sentimento dominante è la rassegnazione, non troppo appesantita in realtà, anzi: questo microcosmo sottoproletario viene rappresentato come un’alchimia di relazioni idilliache, immerse nella semplicità, nell’allegria e nella solidarietà, come ci si aspetta da tutti i luoghi comuni del caso. Del resto, sono un gruppo di oppressi che traggono forza dallo spalleggiarsi e sostenersi a vicenda nella rassegnazione, ma gioendo di cuore se qualcuno di loro ce la fa. Interessante è che Carrère sposti il tema centrale dalla condizione delle lavoratrici alla difficoltà di due mondi così diversi di poter avere un’unione duratura (non senza un retrogusto di stereotipi): durante la pellicola, Marianne riesce a dissimulare la propria non-appartenenza per un po’, ma essa emergerà tutta. Il sorriso perennemente compiaciuto della scrittrice, che in quest’esperienza massacrante tutto sommato si diverte, è dovuto al fatto che sa che può tornare al proprio mondo con uno schiocco di dita, anche se al contempo deve stare attenta a non far cadere l’inganno prima del previsto. La differenza tra ciò che è (o si ritiene) ineluttabile, e ciò che non lo è (o non lo si ritiene tale), qui è tutto.

film-tra-due-mondiD’altronde, Florence/Marianne vuole dare visibilità a questa gente, e di più non le si può chiedere. Cerca, dal di dentro, il senso della crisi economica, cosa voglia dire questa espressione sciorinata ogni giorno dai media, e si fa carico sulla propria pelle di quella precarietà che vive quell’umanità da cui lei è circondata ma con cui non aveva, finora, interagito. Si rende disponibile a ritmi massacranti e umiliazioni per arrivare al nocciolo della questione. All’inizio del film, l’impiegata del centro di collocamento riconosce in Marianne la celebre scrittrice e le chiede perché mai si ostini a cercare lavoro come donna delle pulizie. La risposta sa di sfogo sincero: «Sono stufa di sentir parlare di crisi e disoccupazione come se fossero cose astratte. Ho bisogno di vedere coi miei occhi, viverle ogni giorno. Conoscere la realtà». Vuole lanciare un grido d’allarme alla società mentre, con sua stessa sorpresa, inizia a godersi il divertissement di quest’esperienza: le due cose non si escludono, perché in fondo è una persona che mente, manipola e si fa credere ciò che non è (in fondo, è questo il bello della storia). Così lei è in mezzo a “due mondi”, come il titolo internazionale del film si compiace di rimarcare. La protagonista usa lucidamente la propria agentività per entrare e uscire dalla linea di confine tra queste due dimensioni. L’aspetto relazionale e affettivo delle dinamiche di gruppo però non può passare in secondo piano, ora che lei si è legata a questa gente.

A pensarci bene, Florence/Marianne non si limita a dire di sé cose non vere, con le parole lei “fa” in senso positivo e generativo, crea una vera e propria realtà. Già Austin (1987) rileva che il linguaggio non solo descrive stati di realtà, ma fa; persino l’informare è un modo di fare. Nella sua agentività dunque lei mente e manipola ma al contempo è sincera, perché davvero “fa” ciò che dice di fare, vuole realmente essere una di loro e agisce come loro. Per questo possiamo dire che non finge mentre mente, non è falsa mentre crea finzione, proprio come farebbe una romanziera con le avventure che inventa: dunque comprendiamo la scelta del regista. Se, nella performatività del linguaggio, dire è già un fare, allora lei effettivamente “fa” chi (e cosa) dice di essere. Siamo tentati di credere in tutto e per tutto a Florence Aubenas: Emmanuel Carrère invece ci invita a restare un passo indietro.

Austin sostiene che i verbi performativi (promettere, richiedere, proibire, ordinare ecc.) costituiscono la prova empirica della specifica forza illocutiva di un enunciato, ossia l’ottenere ciò che un parlante vorrebbe ottenere tramite, appunto, l’enunciato. In realtà, rileva Duranti, questi verbi performativi sono raramente usati dai parlanti nell’interazione quotidiana, poiché di solito noi non specifichiamo, per i nostri ascoltatori, il tipo di atto linguistico che stiamo compiendo. Si potrebbe dire che questa non-necessità dei verbi performativi, questa libertà, è anche (non solo e non per forza) una condizione di genuinità, o almeno di immediatezza (Duranti, 2007: 92). Non è detto però che questa genuinità sia sincerità tout court, le due cose non vanno identificate necessariamente. Emblematico è un passaggio del film: Marianne e Christèle sono a casa di quest’ultima, entrambe davanti allo specchio, mentre la prima indossa la collanina che la seconda le ha regalato, e Christèle le dice: «Per favore, non dire che non dovevo…». È chiaro che la precarietà di questa donna, madre sola di tre figli, rende ancora più potente il suo dono all’amica. Affetto, generosità, orgoglio, sono tutti elementi presenti, ascrivibili a quell’appartenenza che (secondo Christèle) le accomuna. Marianne dice tra sé che finché vivrà non si toglierà mai dal collo questo dono, ed è vero: nel confronto finale con l’amica, indosserà ancora la collana. La scrittrice qui è genuina, si commuove e sente tutto il peso della messa in scena, ma non si può dire che diventi veritiera con l’altra: la libertà del linguaggio le permette tanto di essere genuina nel viversi questa relazione affettiva, quanto di continuare la finzione.

Il momento decisivo è quando Marianne rimane bloccata su un ferryboat con Christèle e Marilou. Dovranno arrivare fino in Inghilterra e poi, sullo stesso, riattraversare la Manica, ma decidono di prenderla a ridere e godersi il viaggio in prima classe. Come vedremo meglio, è una situazione di pericolo per la messinscena della scrittrice, in quanto fuori dagli schemi della routine che sta impersonando, ma forse era inevitabile che, prima o dopo, questa sua recita andasse incontro a dei rischi, giacché ciò capita già a ogni umana interazione: «Si può dire che un “atto di faccia” – cioè, azioni come richieste, consigli, rimproveri, lodi, scuse, ecc. – tende intrinsecamente a mettere in pericolo la faccia dell’attore o quella degli altri, o entrambe» (Goffman, 2010: 27).

goffman-il-rituale-dellinterazioneÈ interessante che questo snodo della trama avvenga proprio nel nonluogo finale, il punto d’arrivo del tragitto lavorativo, in particolare per l’atto linguistico che prenderemo in esame. La complicità di questo momento rafforza il loro legame, e Marianne chiede loro di promettere che non si perderanno, che rimarranno amiche. Qui il verbo performativo ci sta tutto. Non è raro promettersi tra amici, magari conosciuti nel corso di situazioni transitorie quali viaggi o vacanze, di non perdersi: in tali casi, l’intento illocutivo è quello di far sì che il linguaggio verbale diventi realtà fattuale, ci si promette di non perdersi e, di fatto, si sta stabilendo un’intenzione ferma, che poi la vita metterà alla prova. In questo caso specifico, il parlato di Marianne ha un significato ancora più profondo, perché intende, nel sotto-testo, nel non-detto, che la realtà è diversa da quella che credono le amiche e che, per questa ragione, lei sta chiedendo di realizzare l’irrealizzabile. Il verbo performativo si rende necessario proprio come tentativo estremo di evitare l’inevitabile. Si potrebbe obiettare che non ci sono ragioni per cui, scoperto che lei è una scrittrice in incognito, non possano rimanere amiche, e che Marianne magari si preoccupa troppo, ma la regia del film fa intendere chiaramente che il nodo sta proprio qui, cioè nella prevedibile, necessaria separazione, quando le loro vite torneranno sui rispettivi binari: sappiamo che avverrà (il bello è scoprire come e quando).

Duranti ritiene che l’atto del promettere sia un ottimo caso per pensare all’agentività. Un parlante che fa una promessa non solo mette in gioco la propria agentività in quanto essa è il poter fare delle cose che hanno effetto su sé stessi e/o sugli altri, ma è sempre anche oggetto di valutazione. Nel caso della promessa la valutazione riguarda proprio la capacità di portarla a termine, rispetto al tipo di persona che la promessa proietta tanto su chi la fa (cioè l’idea che Marianne dà di sé e che proietta su sé stessa nel momento in cui promette) come su chi la riceve (cioè su Christèle e Marilou, che vedono nella promessa la conferma della loro idea di Marianne, di chi loro credono che lei sia, per sua stessa bocca). Il promettere, ci dice Duranti, è un caso classico d’agentività espressa e realizzata tramite il linguaggio, anche quando il compimento della promessa coinvolge atti non-linguistici, nonché un atto sociale con condizioni e responsabilità particolari (Duranti, 2007: 92).

Quest’atto linguistico di Marianne è però destinato a rimanere inefficace, perché sul momento le amiche sì credono alla promessa ma poi non potranno più. La promessa in realtà non dovrebbe perdere di credibilità: forse non è genuino l’affetto per loro, non vuole loro bene davvero? La premessa della promessa era questa. Ciononostante, la scrittrice compie un atto linguistico che non riuscirà, rimarrà incompiuto e svelerà quanto sia deficitaria la forza del suo parlare. Si può dire che, per Duranti, tale atto non soddisfa tutte e quattro le condizioni richieste dalla teoria degli atti linguistici di Austin (Duranti, 2007: 92).

  1. Esiste una procedura convenzionale per produrre un certo effetto, tramite delle espressioni linguistiche. Marianne le adopera, e dunque rispetta tale procedura.
  2. Le persone coinvolte e le circostanze devono essere appropriate. La circostanza lo è, perché parliamo di tre amiche coinvolte in un’avventura fuori dall’ordinario che richiede complicità e coesione, ma, se Christèle e Marilou sono pienamente sé stesse, Marianne invece è sempre nella propria posizione ambigua, non totalmente falsa ma comunque falsata.
  3. La procedura convenzionale dev’essere eseguita fino in fondo, sia con le parole che con il comportamento non verbale. Marianne la esegue pienamente, vuole loro bene davvero, ma, se è sincera sui propri sentimenti, non lo è su sé stessa, e quindi è già minata quell’appartenenza presunta che è alla base di tutte le dinamiche che lei sta vivendo, tanto quelle di gruppo a Ouistreham quanto quelle del rapporto con le due amiche.
  4. Il parlante dev’essere sincero, deve intendere davvero ciò che dice. Marianne è sincera e intende davvero essere loro amica per sempre, nonostante sappia che non può accadere (le condizioni 2 e 3 già ci dicono perché).

Ed è poco dopo, nel nonluogo che è il ferryboat che attraversa la Manica, che accade il disvelamento. Marianne viene riconosciuta da Louis-Do de Lencquesaing, attore e regista che interpreta sostanzialmente sé stesso e, nella storia, è amico della scrittrice. Louis-Do, senza volerlo, la fa riconoscere a Christèle lì presente. Marianne deve giustificarsi con l’amica, che però disvela a sua volta il proprio odio di classe, e non può perdonare l’inganno. Soprattutto, non può perdonare che Marianne non sia condannata come lei. La scrittrice è affranta, ma di lì a poco riceve una proposta di lavoro a tempo indeterminato, e può concludere la propria missione. Tutta la comunità è felice di sapere chi è lei e dell’opportunità che la loro storia, il loro mondo, divengano noti al pubblico. Non così Christèle e Marilou, che, mettendo in campo tutta la loro affettività ferita, si sentono manipolate e usate: fanno da necessario contraltare in termini narrativi. Lo sanno che la donna vuol loro bene, non lo mettono in dubbio, ma è stata disconfermato il legame, perché quell’appartenenza, seppur agita, non era vera. Dunque l’agentività di Marianne è stata sì tanto performativa quanto decodificata, ossia entrambi i tipi di agentività che possiamo distinguere (Duranti, 2007: 90), ma, cionondimeno, l’atto linguistico della sua promessa era destinato a non riuscire.

auge-nonluoghiCurioso è che lo spazio dove l’agentività di Marianne ha fallito sul piano relazionale, sia proprio un nonluogo, il ferryboat. Partiamo da una base più ampia, che è poi quella che dà il titolo all’opera (che tanto nell’edizione italiana del libro, quanto nel titolo internazionale del film, si perde), ossia “La banchina di Ouistreham”. Il porto di Caen-Ouistreham è il nonluogo posto nell’ultimo dei gironi danteschi attraversati dalla gente precaria di Caen che non riesce a collocarsi nel mondo del lavoro o che regolarmente il lavoro lo perde, è l’ultimo guado dell’abisso dove si ritrovano tutti quelli che, da un ufficio di collocamento all’altro, si sono incrociati almeno una volta con lo sguardo. È la sede di un lavoro disumano, ai limiti della resistenza: sveglia all’alba, salire sui traghetti in partenza e, in turni massacranti, rifare 230 letti in 90 minuti, prima che salgano i passeggeri nuovi. È fondamentale: le addette alla pulizia devono restare invisibili ai passeggeri, scomparendo prima della loro salita a bordo.

Infatti l’amico di Marianne, Louis-Do, non si sarebbe accorto di lei se la scrittrice e le sue amiche non fossero rimaste bloccate nel traghetto; anzi, in una diversa circostanza Marianne avrebbe potuto essere un’altra passeggera assieme a lui, anche lei incurante delle addette che lì si erano massacrate a rifare tutte le camere. L’invisibilità è la caratteristica di chi lavora in questo nonluogo. E quando essa diventa visibilità, ha le sue conseguenze: nel momento in cui viene scoperta, Marianne lo apprende a proprie spese.

Per lavoro, dunque, la scrittrice si trova a vivere la mobilità quotidiana lungo un nonluogo (la strada da Caen a Ouistreham) per giungere a un altro nonluogo (il porto con la sua banchina) che consente di lavorare nel nonluogo finale (il ferryboat). In concreto, il porto di Caen-Ouistreham è composto da una serie di bacini sul Canal de Caen à la Mer, che collegano Caen a Ouistreham per 15 km. È lungo questo tragitto che le protagoniste transitano, e la banchina di Ouistreham è il punto di arrivo per andare al lavoro sul traghetto prima che i viaggiatori salgano a bordo ed esso salpi per la Manica.

I nonluoghi sostanzialmente hanno due elementi distinti ma complementari: gli spazi costituiti per certi fini (trasporto, transito, commercio, tempo libero), e il rapporto che i singoli intrattengono con questi spazi. Le risultanti di questi due elementi sono perlopiù solitudine per ciascun individuo, e similitudine fra gli individui. Per capire come la protagonista eserciti la propria agentività in questi nonluoghi fino a essere una sorta di “etnologa letteraria”, è utile partire da un concetto preliminare: Augé illustra qual è il luogo comune sull’etnologo e sul suo lavoro. Esso riguarda i luoghi intesi precisamente come posti concreti, abitati: il luogo

«occupato dagli indigeni che vi vivono, vi lavorano, lo difendono, ne segnano i punti importanti, ne sorvegliano le frontiere, reperendovi allo stesso tempo la traccia delle potenze ctonie o celesti, degli antenati o degli spiriti che ne popolano e ne animano la geografia intima, come se il piccolo segmento di umanità che n quel luogo indirizza le loro offerte e sacrifici ne fosse anche la quintessenza, come se non vi fosse umanità degna di questo nome se non nel luogo stesso del culto che viene loro consacrato» (Augé, 2009: 63).

E l’etnologo, a partire dall’organizzazione del posto con le sue precise delimitazioni, le ripartizioni esatte e le piante dei luoghi ben disposte, è convinto di poter decrittare un ordine talmente bene che la sua stessa trascrizione si presenta come una seconda natura. L’etnologo pertanto vede sé stesso come il più attento e il più sapiente degli indigeni. Augé ritiene questo luogo comune sull’etnologo e sugli indigeni un’invenzione: i racconti di fondazione sono raramente racconti di autoctonia, sono più spesso racconti di gruppi in movimento, che, giunti in un luogo, ne diventano i primi abitanti. Quest’invenzione di una società ancorata da tempi immemorabili nella perennità di una terra non scalfita da corpi estranei, sarebbe un’illusione dell’etnologo che vuole credere in una società così trasparente a sé stessa da esprimersi tutt’intera persino nel più infimo dei suoi usi, in una qualsiasi delle sue istituzioni, così come nella personalità globale di ciascuno di coloro che la compongono. La disconferma di questo luogo comune non può che svelare quanto sia complesso il compito dell’etnologo: è come la missione del dio Ermes, direbbe Crapanzano, ossia «un messaggero che, provvisto di metodologie per svelare ciò che è occulto, latente, inconscio, […] Rappresenta le lingue, le culture, le società nella loro opacità, estraneità, insensatezza; poi […] chiarisce ciò che è oscuro, rende l’estraneo familiare, dà un significato all’insignificante. Decodifica un messaggio, lo interpreta» (Crapanzano, 2017: 89).

È così che anche Florence/Marianne, viaggiando fino a Caen per cercare lì le sue risposte, deve muoversi ancora, inoltrandosi ulteriormente in una dimensione che attiene al transito piuttosto che alla stanzialità, e operare in questa mobilità il suo ruolo di Ermes. Chiaramente, ciò che fa di Florence/Marianne una sorta di “etnologa letteraria”, mentre i suoi colleghi e amici sono gli “indigeni” del caso, è non solo la provenienza (lei è, tanto nella realtà quanto nella finzione, “quella venuta da fuori”) ma l’intento consapevole con cui mette in atto la sua agentività di osserv/attrice.

Così la sua esplorazione, di pari passo con la vita dei suoi compagni di viaggio, è tutta una mancanza di stabilità e fissità, tanto lavorativa quanto esistenziale. Eppure, ci dice Augé, stanzialità, chiusura e confine, come in un cerchio ben chiuso e delimitato, è ciò che tanto l’etnologo quanto l’indigeno si raccontano quasi in accordo, secondo il luogo comune:

«Il fantasma degli indigeni è quello di un mondo chiuso, fondato una volta per tutte e di cui dunque, in senso stretto, non c’è nulla da conoscere. Si conosce già tutto quanto c’è da conoscere: le terre, la foresta, le sorgenti, i punti importanti, i luoghi di culto, le piante medicinali, senza trascurare quella dimensione temporale dei luoghi di cui i racconti sull’origine e il calendario rituale postulano la fondatezza e assicurano, in linea di principio, la stabilità» (Augé, 2009: 65).

auge-il-metro-rivisitatoA partire da questa che forse è una provocazione, è utile vedere come Augé, prendendo spunto da Michel de Certeau, prima di fare una graduale distinzione tra luogo e nonluogo, distingue tra luogo e spazio. Luoghi, spazi e nonluoghi non sono realtà contrapposte. De Certeau vede lo spazio come un “luogo praticato”, “un incrocio di mobilità”. Ad esempio sono coloro che si muovono lungo la strada, geometricamente definita come luogo dell’urbanesimo, a trasformarla in spazio. Lo spazio può essere inteso come animazione di luoghi causata dalla mobilità: infatti Marianne e Christèle fanno insieme, ogni giorno, il tragitto per andare a lavoro, andata e ritorno, e così si conoscono sempre meglio, aprendosi l’una all’altra pur dentro i confini consentiti dalla finzione della scrittrice, rafforzando il legame. Nella solitudine personale che ciascuna vive dentro di sé, il loro legame, concretamente agito, rende il percorso quotidiano un vero e proprio spazio sociale, che è pure spazio d’azione per l’agentività dell’osserv/attrice (Augé, 2005).

Augé, parlando del concetto di spazio in de Certeau, vi trova almeno tre riferimenti significativi.

-  Il primo riferimento di de Certeau, secondo Augé, è in Merleau-Ponty (1965), che distingue lo spazio “geometrico” dallo spazio “antropologico” inteso come spazio “esistenziale”, ossia luogo di un’esperienza di relazione col mondo da parte di un essere essenzialmente situato “in rapporto a un ambiente”.

-  Il secondo è alla parola e all’atto locutorio: «Lo spazio sarebbe per il luogo ciò che diventa la parola quando è parlata, cioè quando è afferrata nell’ambiguità di un’effettuazione, tramutata in un termine derivante da molteplici convenzioni, posta come l’atto di un presente (o di un tempo) e modificata dalle trasformazioni dovute a contiguità successive» (de Certeau, 2001: 173).

- Il terzo deriva dal precedente (spazio come effettuazione del luogo) e privilegia il racconto come lavoro che, incessantemente, «trasforma i luoghi in spazi o gli spazi in luoghi» (de Certeau, 2001: 174).

Senza dubbio, tanto il tragitto per arrivarci, quanto il porto di Ouistreham con la sua banchina che dà accesso ai ferryboat, sono spazi esistenziali: lì i personaggi della storia, etnologa e indigeni, mettono in gioco la loro vita. Rispetto ai compagni, Florence/Marianne, da “etnologa letteraria”, mostra di possedere bene due attitudini, necessarie entrambe: la distanza e la partecipazione (cfr. Augé, 2009b: 18). Lei è tanto distante quanto partecipe, sebbene, tra questi “due mondi” che sono Ouistreham e la sua vera vita, lei senta tutto il conflitto. «Questa scissiparità così particolare è legata a una certa fatalità che pesa sull’etnologo non appena si mette a scrivere» (Augé, 2009b: 19).

Pertanto, sempre seguendo il pensiero di Augé che rievoca de Certeau, il concetto di “nonluogo” allude (sembra pleonastico dirlo) a una negazione: un’assenza del luogo a sé stesso, impostagli dal nome che gli viene dato. Nome di passaggio o crocevia, o transito che dir si voglia: “strada”, “porto”, banchina”, “traghetto”, “nave” e così via. Eppure, rileva Augé, possiamo dire, in modo inverso, che proprio il fatto di “passare”, questa mobilità, conferisce uno statuto particolare ai nomi di luogo, e «che la faglia scavata dalla legge dell’altro, dove l’occhio si perde, è l’orizzonte di ogni viaggio – somma di luoghi, negazione del luogo – e che il movimento che “sposta le linee” e traversa i luoghi è, per definizione, creatore di itinerari, cioè di parole e di nonluoghi» (Augé, 2009: 93).

Dunque il nonluogo nasce come negazione ma è tanto generato quanto generatore, è un rendere lo spazio “effettuato” al pari del luogo, così come la parola parlata rende effettuata la parola in sé (e l’abilità della parlante Florence/Marianne nel tessersi un mondo con relazioni annesse, ne è la dimostrazione). Il fatto che il nonluogo sia «uno spazio che non può definirsi identitario, relazionale e storico» (Augé, 2009: 93), non nega che esso possa al contempo generare questo dinamiche, superando l’idea iniziale di negazione tout court.

Le vicende di Florence/Marianne e della porzione di umanità nella quale lei, da osserv/attrice, “socio-antropologa implicita” ed “etnologa letteraria”, s’insinua, sembrano proprio la resa plastica di questa vitalità dei nonluoghi, che evidentemente sono spazi concretamente vivi, pur nelle solitudini che li attraversano. Per usare sempre un’espressione di Augé, i lavoratori di Ouistreham fanno parte di quell’umanità che deve passare una parte considerevole del proprio tempo, quello lavorativo, “fuori territorio” (Augé, 2009: 122).

Nulla di strano allora che Aubenas, nella sua doppia veste di esploratrice e autrice, si sia trovata ad avere a che fare con la dimensione del viaggio, esercitando la propria agentività nella transitorietà: «Il racconto infine, e in particolare il racconto di viaggio, mette insieme la doppia necessità di “fare” e di “vedere”» (Augé, 2009: 96). L’accostamento può essere forzato, eppure la combinazione del “fare” e del “vedere” è ciò che caratterizza l’esperienza della giornalista. Tale tipo di racconto diventa secondo de Certeau, come ci ricorda sempre Augé, delinquenza e trasgressione, perché esso «consacra il privilegio del percorso sullo stato di fatto» (de Certeau, 2001: 190). Ma tale “privilegio”, non sono costretti a subirlo tutti i lavoratori di Ouistreham, precari e non, appunto viaggiatori obbligati a lavorare “fuori territorio”?

clifford-e-marcus-tra-due-mondiDunque il porto di Ouistreham, col lavoro massacrante delle addette alla pulizia, è uno spazio concreto, portatore di vitalità oltre che di negazione: i nonluoghi sono lì dove noi non riconosciamo una nostra identità, perché ci sentiamo sfruttati e non-visti, proprio come accade ai nonluoghi stessi in primis, eppure lì trascorriamo parti di vita. Come fanno le addette alla pulizia, sottratte alla vista prima che il traghetto inizi a imbarcare passeggeri: «nella coesistenza dei luoghi e dei nonluoghi, lo scoglio sarà sempre di carattere politico» (Augé, 2009: 124).

Clifford direbbe che la vicenda di Aubenas, svoltasi in luoghi precisi della Francia, nel contesto storico della crisi economica del 2009, ha avuto un significato locale e culturale definito, ma essa, facendosi narrazione, s’inscrive nella storia più generale di cosa sia stata quella crisi in Occidente e, ancor di più, cosa sia questo clima di instabilità nel quale siamo tuttora immersi (Clifford, 2017: 110). A poco più di un decennio dall’esperienza della giornalista e dal suo libro, dopo una pandemia e nuovi venti di guerra, questa storia è perfettamente attuale, purtroppo. «Si pone una differenza, e la si trascende» (ibidem) direbbe sempre Clifford, cioè la vicenda particolare di Aubenas trascende sé stessa e diventa l’esperienza possibile di ognuno di noi, allegoria dell’umanità precaria, quantomeno di questo primo quarto di secolo. «I testi etnografici sono inevitabilmente allegorici: accettarlo veramente determina un mutamento nei modi di scrivere e leggere l’etnografia» (ibidem). 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 
Riferimenti bibliografici 
Augé M., Un etnologo nel metrò, trad. it. di F. Lomax, Elèuthera, Milano 2005.
Augé M., Nonluoghi, trad. it. di D. Rolland, Elèuthera, Milano 2009.
Augé M., Il metrò rivisitato, trad. it. di L. Odello, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009.
Austin J.L., Come fare cose con le parole, trad. it. Di C. Villata, Marietti, Torino 1987.
Bruner J., La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita, Laterza, Bari-Roma 2006.
Clifford J., “Sull’allegoria etnografica”, in J. Clifford, G. E. Marcus (a cura di), Scrivere le culture. Poetiche e politiche dell’etnografia, Maltemi, Milano 2017: 145-174.
Crapanzano V., “Il dilemma di Ermes: l’occultamento della sovversione nella descrizione etnografica”, in J. Clifford, G. E. Marcus, Scrivere le culture. Poetiche e politiche dell’etnografia, Meltemi, Milano 2017: 81-110.
Duranti A , Etnopragmatica. La forza nel parlare, Carocci, Roma 2007.
García Márquez G., Vivere per raccontarla, trad. it. di A. Morino, Mondadori, Milano 2004.
Goffman E., La vita quotidiana come rappresentazione, trad. di M. Ciacci, Il Mulino, Bologna 1969.
Goffman E., Rituali dell’interazione, trad. di M. Cerulo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010.
Merleau-Ponty M., Fenomenologia della percezione, trad. it. e appendice bibliografica a cura di A. Bonomi, Il saggiatore, Milano 1965. 

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Claudio Gnoffo, dottorando in “Scienze Umanistiche” presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi di Roma e cultore di “Storia dell’Arte Medievale” presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo, è stato coordinatore nel 2022 del convegno internazionale “Realtà mediali. Sociologia, semiotica e arte negli immaginari e nelle rappresentazioni” e co-curatore del 1° volume tratto da esso, Realtà mediali. Medialità, arte e narrazioni, per UniPa Press; è inoltre autore di diversi articoli scientifici, fra cui, con regolarità dal 2019, per “Le nuove frontiere della scuola” de La Medusa Editrice.

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