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Un’esperienza di transumanza in Molise

Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2021 @ 00:47 In Cultura,Società | No Comments

 

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Transumanza della mandria in Molise (ph. Maria Guidoni)

il centro in periferia

di Marcella Guidoni

Nel seguente testo si intende riflettere sul rapporto uomo-animale, a partire dalla partecipazione a un’esperienza di transumanza in un’area periferica del Molise, alla luce delle attuali posizioni teoriche dell’etica ambientale di orientamento biocentrico. La logica oppositiva interno-esterno attribuisce alla perifericità una situazione di marginalizzazione, anche in termini di potere. Lo Stato moderno, in particolare, ha diviso il mondo in centro e periferia, decidendo le caratteristiche fondamentali delle aree periferiche. In particolare, le aree periferiche di cui qui si parla, vengono viste in genere come aree attrattive e fascinose, per la loro amenità, la bellezza naturale, il senso di alterità [1].

Qui si vuole recuperare, osservando un’antica pratica di transumanza, il senso più profondo di rispetto per l’ambiente, che includa non solo gli abitanti umani ma anche quelli delle altre specie. Molte sono le domande che sorgono dall’osservazione di questa antichissima pratica: come si caratterizza la relazione uomo-animale rispetto al passato e agli altri sistemi contemporanei di allevamento? È presente una dimensione individuale di relazione? E in riferimento all’ambiente e al benessere animale, si può intravedere una dimensione di ecologia profonda [2] o siamo ancora all’interno di un orizzonte welfaristico?  In altre parole, come si colloca la visione di tale pratica rispetto alle più avanzate teorie antropologiche, filosofiche ed etiche sugli animal studies?

E se la progressiva attenzione istituzionale ha portato la transumanza fino al recente inserimento nella Lista Rappresentativa del Patrimonio culturale immateriale Unesco (ICH) [3], allora è doveroso chiedersi: la patrimonializzazione salva veramente la ricchezza culturale o esiste un pericolo di reificazione e mercificazione di tratti culturali non riducibili ad una dimensione meramente economica?

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Campanaccio (ph. Maria Guidoni)

Il racconto

L’esperienza di cui parlerò si riferisce all’ultima transumanza bovina orizzontale [4] ancora praticata in Italia dalla storica famiglia dei Colantuono, allevatori e produttori caseari del borgo molisano di Acquevive di Frosolone.

Ogni anno, nell’ultima settimana di maggio, dopo aver pascolato per oltre sei mesi nel Tavoliere delle Puglie, quando la terra inizia a inaridire, gli animali vengono spostati più a nord, alla ricerca dell’erba fresca dei pascoli montani. Mandriani e pastori si mettono in cammino con circa trecento mucche, lungo un antico tracciato di 180 chilometri, che percorrono in soli quattro giorni, partendo dalla località di San Marco in Lamis (Foggia), per arrivare ad Acquevive di Frosolone (Isernia).

Romina, ex pastorella che mi informa sull’origine dei toponimi, sente con forza il contrasto della situazione odierna con i tempi della sua infanzia, e lamenta lo stato di abbandono dei tratturi, spesso gestiti come beni privati, ormai «tenuti vivi solo dalla mandria che passa una volta all’anno».

«I miei genitori erano contadini. Ci hanno cresciuti con i beni della campagna. Avevamo greggi di capre, fino a duecento. La mattina si facevano dieci chilometri per andare e dieci per tornare. Portavamo le capre a pascolare nei pressi del fiume. Conoscevamo i boschi, con tutte le sorgenti che davano un’ottima acqua, e le erbe, le piante, con tutte le loro proprietà. Avevamo il cane da pastore che ci aiutava a governare le capre, e il becco, uno, a volte anche due o tre, ma non di più.
L’incontro con la mandria è impressionante: più di trecento mucche, molte seguite dai loro vitelli; una ventina di cavalli, guidati dai relativi cavalieri; e il suono dei campanacci, un suono che ti accompagna nel corso di tutto il viaggio, giorno e notte, senza abbandonarti mai. La mandria è composta in larga maggioranza da mucche di razza podolica, con poche marchigiane, pochissime maremmane e qualche rarissima pezzata rossa.
La podolica [5], razza rustica dalle antiche origini, è capace di resistere ad ambienti particolarmente difficili e pertanto è più adatta di altre varietà bovine a effettuare la transumanza. È una razza che non può essere allevata in stalla, poiché ha bisogno di vita all’aperto e di erba fresca. Infatti è allevata sempre allo stato brado o semibrado e, a differenza di altre razze, non cresce in pochi mesi per essere subito macellata. Questo fatto spiega come mai non sia vista di buon occhio da molti allevatori, che vogliono veder crescere in breve tempo i loro animali per poter subito macellarli ed aver maggiori profitti.
La podolica ogni giorno fa in media dieci-quindici litri di latte, invece la frisona può arrivare a cinquanta litri. È più debole, non ha i piedi per camminare, non ha la struttura adatta, non potrebbe fare la transumanza. Tutti gli animali oggi sono stati resi più deboli. L’animale deve arrivare a pesare il più possibile già dopo sei mesi. Un vitello appena nato, a sette-otto giorni, vale 250 euro, a sei mesi può arrivare a 5-600 euro. Ma se beve sei-sette litri di latte al giorno, non c’è più il guadagno, o deve pesare talmente tanto da arrivare a un guadagno di almeno 900-1000 euro per compensare i soldi persi [6].
Il valore delle cose, nel mondo contemporaneo, è determinato solo da motivazioni economiche, e ciò che non dà profitto immediato non ha alcun valore. Eliminiamo così specie e varietà che non hanno valore commerciale, anche se sono essenziali a preservare l’integrità e la bellezza delle comunità bio-culturali» [7].

Le parole di Fernando, forestale a Frosolone al suo dodicesimo anno di transumanza, rientrano chiaramente in questo tipo di logica. Ѐ un bene che il bovino sia allevato, perché se così non fosse la specie finirebbe. Infatti, nella nostra società, dove il profitto viene messo sopra ogni altra cosa, senza di esso l’animale non servirebbe a niente. Senza l’allevamento la specie si estinguerebbe. È l’uomo che crea gli equilibri. Nei grandi spazi c’è anarchia. L’uomo contemporaneo si pone al centro di un sistema che lui stesso ha creato, ma lo considera dato “per natura”.

Riflettere sull’esperienza della transumanza ci porta a rilevare l’ambivalenza della relazione umana con la natura e ci mostra con chiarezza l’errore della nostra illusione antropocentrica. Guidiamo gli animali, ma dobbiamo seguire i loro ritmi, in armonia con i ritmi della natura: l’alternarsi del dì e della notte, che determina i momenti di riposo, il ciclo delle stagioni, da cui dipendono gli spostamenti alla ricerca di freschi pascoli, le soste alle sorgenti, necessarie per il ristoro.

«A Scorciacrapa, il vecchio abbeveratoio, punto di sosta di tanti viaggi, questa volta è asciutto. È necessario proseguire fino alla contrada di Femmina Morta, dove c’è il laghetto. I tempi li scandiscono gli animali, noi ci fermiamo in box naturali che ci permettono di controllarli solo da un lato. Il tratturo era il più grande corridoio ecologico che univa i pascoli montani necessari per l’estate alle pianure che servivano per svernare nei tempi freddi dell’inverno. […]. Fino a trent’anni fa scaglionavano le partenze per far sì che gli animali non si mischiassero; c’era una sorta di casello autostradale. Una volta, potevano viaggiare anche le mucche in stato di gravidanza. Ma i tempi erano più lenti, con i vitelli da sistemare, da mettere sotto le mamme…»[8].

Sembrerebbe che gli animali decidano i tempi della migrazione. Viene spesso ricordata una frase poetica di Felice Colantuono, il nonno di Carmelina, oggi erede dell’antica tradizione della transumanza: «Quando è tempo di migrare migrano, sono come le rondini». Ma le rondini non dipendono dagli umani: che farebbero gli animali se non ci fossero gli uomini? La risposta di Fernando lascia intendere che le mucche deciderebbero tempi ben diversi se fossero libere:

«Se non ci fossero ostacoli antropici, gli animali arriverebbero. Forse starebbero in giro un mese, ma arriverebbero. Il tratturo è diventato una striscia di pochi metri e bisogna stare molto attenti a non fare danni all’agricoltura. […]. Se una mucca si perde, diventa selvaggia in soli dieci giorni. Vivrebbe bene se il territorio non fosse antropizzato».

Anche Carmelina ritiene che le mucche partirebbero da sole. All’arrivo del caldo sentono che devono partire. Quando iniziano ad avvertire il cambio di stagione, i mandriani devono tenere i recinti ben chiusi, altrimenti gli animali partirebbero da soli.

«Un anno dovevano partire per la Puglia e non ritrovavano una mucca sulla montagna. Doveva partorire questa mucca. L’hanno cercata, tanti giorni, ma non l’hanno trovata da nessuna parte. Quindi pensavano che fosse morta, perché non si vedeva, da nessuna parte. […] È passato del tempo, poi sono scesi con le altre mucche in Puglia e l’hanno trovata lì che già era andata e aveva partorito lì, perché la mucca aveva capito che il suo piccolo, il suo cucciolo, lo doveva far nascere in un posto caldo rispetto a qua e che le avrebbe potuto dare la garanzia di poter mangiare»[9].

La storia appena riportata è ancora una volta la testimonianza dell’ambivalenza di un rapporto che si manifesta al confine fra natura e cultura: alla base c’è la tendenza naturale dell’animale a spostarsi, a seguire i ritmi stagionali, la sua necessità di curare i cuccioli; l’uomo vi innesta la sua volontà di controllo, tende a determinare i tempi, spesso restringendoli o dilatandoli, talvolta senza comprendere le esigenze più profonde di creature che mostrano di essere maestre nella conoscenza dei cicli naturali.

Oggi la relazione umana con quegli animali definiti “da reddito” è concepita come esclusivamente utilitaria. Nelle società contadine non sempre è stato così. Sull’evoluzione della relazione uomo-animale hanno agito anche fattori come l’emozione e l’empatia, che hanno influenzato il nostro comportamento e quello degli animali, e sono stati per tanto tempo il modo attraverso il quale l’altro ci ha fatto sentire la sua voce ed è divenuto parte di noi stessi [10]. La cura e la reciprocità hanno come mezzo elettivo di espressione la comunicazione attraverso il suono e quindi la voce. Alcuni informatori ne riconoscono la somiglianza con la manifestazione dei sentimenti umani nei confronti dei bambini piccoli:

«Gli fai “Te, te, te” e [la mucca] si avvicina; gli urli e si allontana. Sono un po’ come i bambini» [11].  Si tratta di reazioni spontanee, comuni forse a tutti gli animali, certamente a quelli più vicini a noi in termini evolutivi, come gli uccelli e i mammiferi. Ogni creatura incarna un’individualità irripetibile, e ciò che ne sottolinea la soggettività è in primo luogo l’imposizione del nome. Tutte le mucche di Carmelina Colantuono hanno un nome, e a testimonianza del rapporto empatico che si stabilisce fra uomo e mucca, e di quanto sia importante il nome, e dunque la voce e il suo riconoscimento da parte dell’animale, Carmelina racconta una bellissima storia [12]:

«Durante la transumanza prima rubavano sempre gli animali perché c’era l’abigeato. Quindi dovevi stare molto attento, dove passavi… Ecco perché loro [i mandriani] contano sempre gli animali, a ogni passaggio, li guardano e, se ne manca uno, se ne accorgono facilmente. È come se fosse [parte della …] famiglia la mucca […]. Quindi loro se ne accorgono immediatamente se mancano. Allora che hanno fatto? Si sono accorti che questa mucca mancava e mio nonno è tornato indietro a cercarla lungo il tratturo, perché si fa sempre così. È tornato indietro e l’ha trovata in una stalla che stava proprio vicino al tratturo, già legata, vicino alla mangiatoia e con il fieno davanti. Questa mucca mangiava tranquillamente. […] mio nonno è andato dai carabinieri e ha detto: – Maresciallo, Lei deve venire con me, perché mi hanno rubato la mucca. Allora il maresciallo gli ha detto: – Guarda, Colantuono, io voglio pure venire, ma come faccio a dire poi che la mucca è tua? Che ne so io? All’epoca non ci stavano marchi auricolari, come adesso, microchip, ecc. Allora mio nonno ha detto: – Non si preoccupi, marescia’. Lei deve venire con me e penso a tutto io! Sono andati là nella stalla, è andato il proprietario, che ha detto: – No, no, questa è mia! Allora ha detto mio nonno: – Va bene, marescia’, allora facciamo una prova: io la chiamo col nome mio e lui la chiama col nome che dice che è suo. Allora il padrone della stalla l’ha chiamata: – Giovannina, Giovannina! La mucca ha continuato a mangiare e non si è girata per niente. È andato mio nonno e l’ha chiamata: – Tomassina, Tomassina! La mucca si è girata e ha fatto: – Muuu. Allora il maresciallo ha detto: – Colantuo’, prenditi la mucca e portatela, perché non ci sono dubbi».

Carmelina commenta la storia dicendo che effettivamente c’è un forte rapporto di simbiosi fra uomo e animale. Le mucche sono animali molto sensibili e il vitello viene chiamato col nome della mamma per farli incontrare la mattina, quando i piccoli devono prendere il latte: basta chiamare il nome della mamma e anche il cucciolo arriva.

La dimensione sonora è la prima ad essere avvertita nell’incontro con la mandria, ed è quella che più fa riflettere sull’importanza della relazione umana con gli animali. A che serve il campanaccio? Questa è stata la prima domanda rivolta a più persone durante questo percorso di transumanza. Riporto di seguito una sintesi delle risposte più frequenti:

«Il campanaccio è armonia, serve sia agli uomini che agli animali, permette di individuare dove sta la mandria e richiama sempre il gruppo; è un punto di riferimento, soprattutto di notte, poiché i suoni, nella quiete del riposo, sono più chiari e distinti. Nelle giornate di nebbia, quando un lieve velo grigio impedisce di vedere oltre pochi metri, o nel meriggio estivo, quando il pastore si sveglia sotto la pianta dove era stato colto dal sonno e non vede più le mucche, il campanaccio permette di continuare a controllarle anche a distanza».

Alle sei-sette mucche dominanti, quelle più anziane che guidano la transumanza, viene appeso al collo un campanaccio grande, di trenta centimetri di diametro, usato solo per il tratturo. Sul collare di cuoio (collera in dialetto molisano) ci sono incise due lettere, C F, le iniziali di Felice Colantuono, il leggendario nonno di Carmelina.

Ci sono pastori e vaccari che raccontano di quando i campanacci si facevano su ordinazione, con suoni diversi per i maschi e per le femmine. Alcuni dicono che fosse anche possibile riconoscere ogni singolo animale dal tipo di scampanìo. Per gli animali che vivono allo stato brado è opinione comune che il campanaccio sia un importante sistema di controllo territoriale all’interno della stessa mandria, che rimane unita proprio grazie al suono [13]. Un tempo serviva anche ad impedire che mandrie diverse si mescolassero, poiché il suono diverso degli altri campani avrebbe allontanato gli animali finiti in gruppi estranei. Oggi, questo problema non esiste più, poiché la mandria della famiglia Colantuono è la sola rimasta a fare la transumanza orizzontale.

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Stella, cavalla di sei anni (ph. Maria Guidoni)

A orientare le mucche, ci sono una ventina di cavalli, guidati dai relativi cavalieri, che svolgono la stessa funzione dei cani da pecora nelle greggi di ovini. Alcuni si dispongono davanti alla mandria, altri la controllano ai lati, altri ancora chiudono tutto l’insieme. Anche i cavalli, come le mucche, hanno tutti il nome. Tintoretto e Blu, che deve il suo nome a un occhio azzurro, brucano placidi durante la sosta, allo stesso modo di Barok, Paint e Artù. Alcuni cavalieri sono accanto ai loro cavalli. Così, Maurizio di Arsoli, si occupa di Cassandra, una cavalla di dodici anni, mentre Luciano, dello stesso paese laziale, accudisce Stella: «In viaggio, prima vengono loro e poi noi. Solo dopo che hai sistemato l’animale puoi fare quello che ti pare», ci tiene a sottolineare Luciano.

Luciano è un personaggio che sembra appartenere a tempi lontani, esprime un pensiero arcaico, che vede l’animale come un essere da prendere a modello, un punto di riferimento per gli umani, talvolta perfino un maestro dal quale trarre insegnamenti oggi perduti. A conferma del suo pensiero, Luciano racconta un episodio straordinario.

«Una notte, in viaggio attraverso luoghi solitari con il suo cavallo, si accorse di aver perduto la strada. Era nel fitto del bosco e non aveva idea di quale fosse la direzione giusta da prendere. Mai avrebbe ritrovato la via di casa se non gli fossero tornate in mente le parole di suo nonno, che spesso gli aveva consigliato di ascoltare gli animali nei momenti di difficoltà. “Se ti dimentichi la via di casa e sei con un animale”, gli aveva detto, “affidati a lui, che ti porterà a casa”. Così fece. Si affidò al cavallo, senza orientarlo, poiché lui sapeva dove andare. Il ricordo di quell’insegnamento fu la sua salvezza».

La giornata termina a Quercigliole, dove il sole è ormai calato e il fuoco è già acceso per la notte. Cavalieri e mandriani riposano attorno al fuoco, poco distanti i cavalli; ancor più in là, fra gli alberi, le mucche, e il suono dei campanacci che si va facendo più lieve.

All’alba del giorno seguente, mucche e cavalli sono già in viaggio. La via passa per una zona di brigantaggio. È un tratto della Via di Francesco, detta anche Con le ali ai piedi. In lontananza si intravede la Morgia dei Briganti. Siamo in una zona di cinghiali, apprendo sulla via da un transumante.

I cinghiali sono visti molto male da queste parti, poiché fanno razzie: di mais, di patate, di uva, di meloni. Sono i nemici del contadino, che lamenta la regolamentazione della caccia, che impedisce l’uccisione degli animali nel corso di tutto l’anno. Il cinghiale di queste zone, inoltre, è un incrocio fra il cinghiale maremmano, meno prolifico (partorisce uno-due figli) e quello ungherese, che ne partorisce undici-dodici e si riproduce due o tre volte all’anno. Fatto che lo rende ancor più odiato. Lo stesso destino di animale nemico dell’uomo è toccato al lupo, particolarmente odiato dai pastori di Torella del Sannio.

Guadato il Biferno, si risale verso Castropignano, dove avviene l’incontro con Pasquale, il veterinario del posto. Pasquale si sofferma a parlare del pastore abruzzese, cane selezionato fin dai tempi antichi, e ricorda come già Marco Terenzio Varrone (I sec. a. C.) lo descriva come cane della transumanza, dal colore rigorosamente bianco, che lo rende ben visibile di notte. Il veterinario lo definisce un’arma biologica, che si interpone fra pecore e lupo o orso, e critica la ripresa del maremmano negli anni Cinquanta, che considera una moda. «Ci stiamo riprendendo gli animali della transumanza», sottolinea, e fa riferimento, per delineare i veri tratti storici di un sistema da rimettere in piedi, a una “gerarchia della transumanza”, che vedeva al vertice il massaro (proprietario delle pecore), cui seguivano i pastori e i fanciulli più giovani. La gerarchia inquadrava anche gli animali, con il montone-guida (manziero), tirato dal pastore e seguito da tutte le pecore.

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Scorciacrapa, Campobasso, abbeveratoio (ph. Maria Guidoni)

Conclusioni

Dall’esperienza di transumanza sopra riportata, emerge che la relazione umana con gli animali, in particolar modo con la mucca, rivela anche una dimensione non utilitaria, che però è così strettamente unita a quella economica da risultarne quasi occultata. Dare il nome, avere un rapporto empatico con qualche creatura, viaggiare con gli animali appaiono come aspetti secondari inseriti all’interno di un grande discorso economico, in cui il ruolo primario è occupato da fattori quali la valorizzazione del territorio, la produzione dei formaggi pregiati, l’inserimento nella lista Unesco. È questa seconda dimensione ad essere privilegiata dai media, a dominare nei progetti istituzionali, perfino nella visione dell’antropologia che, come scienza dell’alterità, con la sua vocazione critica, dovrebbe avere più attenzione per gli aspetti meno evidenti ma rivelatori di necessità e bisogni non meramente utilitari ed economici.

In una prospettiva ancora antropocentrica, va da sé che il benessere animale sia in funzione umana, e che si esalti la valorizzazione del territorio a beneficio esclusivamente economico. Si evidenzia, e a ragione, che le mucche vivono allo stato brado, relativamente libere. Pascolano all’aperto e la loro vita non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella della loro compagne degli allevamenti intensivi. Il contrasto fra gli usi rurali tradizionali, quando l’animale aveva una sua identità [14], e la grave situazione in cui vivono i bovini degli allevamenti industriali [15] è conosciuto da tempo. Da una parte, creature che vivono all’aperto, mangiano erba fresca, vedono la luce del sole, si muovono all’interno di un ciclo naturale giornaliero e stagionale, hanno un nome che le rende individui, a volte perfino protagoniste di racconti leggendari. Dall’altra, creature anonime, che trascorrono la loro breve esistenza al chiuso, in un tempo sempre uguale a se stesso, senza luce, senza aria, senza erba. Due mondi, fra i quali, apparentemente, non vediamo legami.

Nel caso degli animali domestici, come la mucca, possiamo risalire, attraverso la loro storia di relazione con gli umani, a un anello intermedio fra i due modi di vita. La domesticazione costituisce il passaggio intermedio fra la vita libera allo stato di natura e la schiavitù delle masse prigioniere nascoste negli allevamenti industriali. La sua essenza sta nel carattere che assume la relazione uomo-animale. Nelle società del mondo antico ove vigeva anche la schiavitù umana, il parallelismo fra schiavo e animale domestico si impone in tutta la sua evidenza. I Romani classificavano schiavi e bestiame, rispettivamente, come instrumentum genus vocale e instrumentum genus semi-vocale; i testi vedici distinguevano gli schiavi fra bipedi e quadrupedi; e in Mesopotamia, nell’antica città-stato di Lagash, le schiave tessitrici, allo stesso modo del bestiame da latte, dovevano assicurare la discendenza, mentre gli schiavi maschi erano castrati e messi al lavoro, a tirar le barche gli umani, a spingere l’aratro i buoi [16].

Caratteri fortemente gerarchici li riscontriamo normalmente fra le comunità agropastorali tradizionali, e molte di queste praticano anche la transumanza, che è facilmente rappresentabile come un sistema piramidale. In cima alla piramide si colloca l’uomo che, pur all’interno dei cicli stagionali, determinati dalle necessità della natura, decide i tempi esatti della partenza, la durata del viaggio, il percorso e le tappe del tragitto. Decide anche quali individui possano mettersi in cammino. Divide i maschi dalle femmine, i lattanti dagli svezzati, i forti dai deboli. Le mucche partirebbero ugualmente, “sono come le rondini”, si potrebbe obiettare. Ma partirebbero forse un po’ prima o un po’ dopo, marcerebbero al loro ritmo, vagherebbero liberamente, senza essere orientate da nessuno. Invece ci sono i mandriani, a dare l’orientamento. Con i cavalli o senza cavalli.

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Femmina morta, Campobasso, sosta della mandria presso il laghetto

Le mucche sono animali che occupano una posizione subalterna rispetto al cavallo. È molto più frequente che col cavallo si sviluppi una relazione affettiva. Con la mucca è decisamente più raro. Quando il cavallo si fa vecchio è difficile che il proprietario lo mangi. Nel 99% dei cavalieri, in Molise, non c’è la cultura del mangiare carne di cavallo: o muore come una persona o viene venduto in Puglia o in Sicilia, dove invece questa cultura esiste [17].

Il mondo agropastorale non è scevro di conoscenze sul comportamento animale. I campanacci che vengono posti al collo delle mucche riaffermano la gerarchia naturale osservata fra gli animali. Quelli da viaggio, più grandi e sonori, vengono messi alle bovine più anziane, campani più piccoli da pascolo vengono apposti a vacche che hanno una posizione intermedia nella gerarchia, i vitelli ne sono tutti sprovvisti.

Il dominio umano sugli animali si esercita attraverso una logica dualistica e gerarchica che coinvolge la visione del mondo agropastorale. Nel sistema della transumanza, il mondo umano, con la sua egemonia, si oppone al non umano, con la sua subalternità, la cultura precisa del calendario alla natura approssimativa dei cicli stagionali, la ragione del domatore o del mandriano all’istinto dell’animale.

Cosa vede il mandriano, il pastore o il contadino al di fuori del suo universo culturale? Quali sono i suoi rapporti con le altre sfere della vita? Come vede il mondo selvatico?

Nel mondo agropastorale, l’orizzonte della civiltà appare limitato allo spazio antropizzato, costituito da campi coltivati e pascoli. Il selvatico si identifica con il nocivo, minaccia permanente per coltivazioni e animali domestici, come è il caso del cinghiale distruttore di orti o del lupo divoratore di greggi. L’animale selvatico è il nemico dell’uomo [18]. Possiamo rappresentare la struttura mentale dualistica alla base del pensiero agropastorale attraverso una serie di termini oppositivi, dove la parte destra della lista rappresenta l’alterità o altro-da-sé: domestico/selvatico; allevamento/caccia;agricoltura/raccolta; civile/barbaro; stabile/aleatorio; abitato/selvaggio; valore/non-valore; utile/nocivo.

Tali elementi sono in coerenza con la lista aperta della filosofa australiana Val Plumwood [19], il cui pensiero si focalizza proprio sulla critica al dualismo e all’antropocentrismo occidentale. Si tratta di uno schema inconsapevole, chiaramente, entrato nel profondo della coscienza umana, difficile da sradicare. Come superare una logica dualistica e gerarchica così profondamente radicata?

L’esperienza di vita di studiosi che hanno passato decenni con creature di altre specie ha portato a riflettere sull’importanza dell’empatia per capire gli animali e sulla necessità di decentrarsi da sé per entrare nel loro mondo [20]. È solo uscendo dai propri confini che si supera la logica dualistica e gerarchica e si trova il punto d’incontro fra umano e naturale.

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Mucca con il campanaccio da transumanza (ph. Maria Guidoni)

Per comprenderli, gli animali vanno osservati, ascoltati, nello sforzo di indovinarne emozioni e desideri. Gli animali hanno la capacità di sentire e percepire il mondo che li circonda con una profondità e una chiarezza a noi sconosciute, si pongono in allerta rispetto ai pericoli perfino quando dormono, sono forti e lottano, ma rarissimamente uccidono un loro simile, hanno velocità, spontaneità, straordinaria conoscenza dello spazio e senso acutissimo dell’orientamento da noi perduti. La loro comprensione del mondo naturale va al di là della comunicazione [21].

E se la profonda esperienza di vita con altre specie ha portato molti ricercatori a scoprire negli animali una consapevolezza a noi ignota [22], diviene allora doveroso domandarci: l’istituzionalizzazione, la patrimonializzazione, l’iscrizione in liste di salvaguardia aiutano veramente a salvare la straordinaria ricchezza della vita animale? In altre parole, la cultura umana e animale ne risultano arricchite o impoverite? E se per caso ne risultassero impoverite, come fare affinché l’alterità animale sia ascoltata e non ne vengano evidenziati solo pochi tratti fissi, esclusivamente economici? E come evitare i pericoli di reificazione e spettacolarizzazione?

Qui entra in gioco il ruolo dell’antropologo. Orientato verso l’alterità, dovrebbe sostenerne il rispetto, in coerenza con un turismo sostenibile e attento al territorio, certamente, ma dovrebbe anche adoperarsi per introdurre nel dibattito istituzionale e accademico le categorie dell’etica ambientale, proporre un nuovo modo di educare alla conservazione, che guardi non solo ciò che è economicamente conveniente ma anche ciò che è esteticamente bello ed eticamente giusto [23],  adottando una relazione fondata sulla reciprocità, sulla cooperazione, sull’uguaglianza fra le comunità umane e non umane [24].

Così la mucca non sarà più soltanto utile a produrre formaggi di alta qualità, non sarà più solo fonte di ricchezza per le popolazioni locali, ma sarà anche quella creatura ispiratrice di racconti leggendari, quell’individuo unico che risponde al suo nome, che cammina sulle antiche vie d’erba insieme agli umani, nell’armonia dei campanacci ma anche dei lenti cicli della natura.

 Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
 Note
[1] Simonicca, A., Fra mobilità turistica e aree interne, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 46, novembre 2020.
[2] Naess, A., Il movimento ecologico: ecologia superficiale ed ecologia profonda. Una sintesi, in Tallacchini, M. (a cura di), Etiche della Terra: antologia di filosofia dell’ambiente, Milano, Vita e Pensiero, 1998: 143-149.
[3] Il progetto di transumanza è stato sostenuto e portato avanti per l’Italia dall’agenzia di sviluppo rurale Moligal diretta da Nicola Di Niro. La candidatura all’Unesco è stata formalizzata a Parigi nel marzo 2018. La proposta è partita dal Ministero delle Politiche Agricole (prima ancora dal Molise) e ad essa si sono unite Austria e Grecia. La transumanza è stata iscritta nella lista Unesco (ICH) nel dicembre 2019.
[4] La transumanza può assumere in generale due modalità: si ha transumanza verticale, detta anche alpina o alpeggio, quando lo spostamento degli animali avviene dal piano al monte e viceversa, e transumanza orizzontale quando lo spostamento interessa un territorio più ampio, che può riguardare anche diverse regioni. Quest’ultima è ancora praticata in forma minimale in varie zone d’Europa: Spagna, Francia, Svizzera, Germania meridionale, Carpazi, Balcani. In Italia, essa riguarda sei regioni dell’area appenninica centro-meridionale: Abruzzo, Molise, Lazio, Puglia, Campania e Basilicata. Il racconto qui riportato si riferisce alla transumanza svoltasi dal 23 al 26 maggio 2018.
[5] La parola deriva da Podolia, nome latino di una regione dell’Europa orientale, della quale questa razza, secondo alcune fonti storiche, potrebbe essere originaria.
[6] Intervista a Fernando, forestale a Frosolone (25 maggio 2018).
[7] È quanto osserva l’ecologista Aldo Leopold con la sua idea di etica della terra; Leopold, A., L’etica della Terra, in Tallacchini, M., (a cura di), “Etiche della Terra”, cit.: 131-141.
[8] Informazione fornita da Fernando, cit.
[9] Trascrizione dell’intervista a Carmelina Colantuono (26 maggio 2018).
[10] Murphy, P. D., Base, fulcro, movimento: teoria ecofemminista, metodo dialogico e pratica letteraria, in Faralli, C., Andreozzi, M., Tiengo, A. (a cura di), Donne, ambiente e animali non-umani, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano, 2014: 120.   
[11] La frase è stata pronunciata da Fernando (cit.).
[12] Viene di seguito trascritta l’intervista a Carmelina Colantuono (26 maggio 2018).
[13] Ricci, A., Il secondo senso. Per un’antropologia dell’ascolto, Franco Angeli, Milano, 2016: 131.
[14] Lanternari, V., Ecoantropologia. Dall’ingerenza ideologica alla svolta etico-culturale, Bari, Dedalo, 2003: 86.
[15] Singer, P., Animal Liberation. A New Ethics for Our Treatment of Animals, New York, Avon Books, 1977: 121-130.
[16] Tani, Y., Domestic animal as serf: ideologies of nature in the Mediterranean and the Middle East, in “Redefining nature: ecology, culture and domestication”, ed. da Roy Ellen e Katsuyoshi Fukui, Oxford, Berg, 1996: 404-5.
[17] Informazione fornita da Fernando, cit.
[18] Cfr. Dalla Bernardina, S., I doni del cacciatore. La morte dell’animale tra simulazione sacrificale e pragmatismo, in Tugnoli, C. (a cura di), Zooantropologia.  Storia, etica e pedagogia dell’interazione uomo/animale, Milano, Franco Angeli, 2003: 211-231.
[19] Per una visione approfondita del dualismo, cfr. Plumwood, V., Dualismo: la logica della colonizzazione, in Faralli, C., Andreozzi, M., Tiengo, A. (a cura di), Donne, ambiente e animali non-umani, cit.
[20] Cyrulnik, B., Fontenay, E. de, Singer, P., Les animaux aussi ont des droits, Paris, Seuil, 2013.
[21] Safina, C., Al di là delle parole, Milano, Adelphi, 2018.
[22] Guidoni, M., Narrare gli animali. Individualità e memoria nella relazione interspecifica. Roma, Efesto, 2020: 28- 37.
[23] Leopold, A., L’etica della Terra, in Tallacchini, M. (a cura di), “Etiche della Terra”, cit.
[24] Cfr. Merchant, C., Un’etica della Partnership, in Faralli, C., Andreozzi, M., Tiengo, A. (a cura di), “Donne, ambiente e animali non-umani”, Milano, Ed. Universitarie LED, 2014: 87-110.
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Marcella Guidoni, attualmente insegna Italiano, Storia e Geografia agli studenti migranti del IV CPIA di Roma, ha conseguito studi antropologici presso l’Università “Sapienza”, dove si è laureata in Etnografia preistorica dell’Africa e ha conseguito il master in Geopolitica e sicurezza globale e il diploma di specializzazione in Beni demoetnoantropologici. I suoi interessi di ricerca si focalizzano principalmente su fiabe e leggende, geopolitica e diritti animali. È autrice di Fiabe del Marocco (Sensibili alle foglie, 2012) e Narrare gli animali (Efesto, 2020).

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