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Un’esperienza di transumanza in Molise
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2021 @ 00:47 In Cultura,Società | No Comments
il centro in periferia
di Marcella Guidoni
Nel seguente testo si intende riflettere sul rapporto uomo-animale, a partire dalla partecipazione a un’esperienza di transumanza in un’area periferica del Molise, alla luce delle attuali posizioni teoriche dell’etica ambientale di orientamento biocentrico. La logica oppositiva interno-esterno attribuisce alla perifericità una situazione di marginalizzazione, anche in termini di potere. Lo Stato moderno, in particolare, ha diviso il mondo in centro e periferia, decidendo le caratteristiche fondamentali delle aree periferiche. In particolare, le aree periferiche di cui qui si parla, vengono viste in genere come aree attrattive e fascinose, per la loro amenità, la bellezza naturale, il senso di alterità [1].
Qui si vuole recuperare, osservando un’antica pratica di transumanza, il senso più profondo di rispetto per l’ambiente, che includa non solo gli abitanti umani ma anche quelli delle altre specie. Molte sono le domande che sorgono dall’osservazione di questa antichissima pratica: come si caratterizza la relazione uomo-animale rispetto al passato e agli altri sistemi contemporanei di allevamento? È presente una dimensione individuale di relazione? E in riferimento all’ambiente e al benessere animale, si può intravedere una dimensione di ecologia profonda [2] o siamo ancora all’interno di un orizzonte welfaristico? In altre parole, come si colloca la visione di tale pratica rispetto alle più avanzate teorie antropologiche, filosofiche ed etiche sugli animal studies?
E se la progressiva attenzione istituzionale ha portato la transumanza fino al recente inserimento nella Lista Rappresentativa del Patrimonio culturale immateriale Unesco (ICH) [3], allora è doveroso chiedersi: la patrimonializzazione salva veramente la ricchezza culturale o esiste un pericolo di reificazione e mercificazione di tratti culturali non riducibili ad una dimensione meramente economica?
Il racconto
L’esperienza di cui parlerò si riferisce all’ultima transumanza bovina orizzontale [4] ancora praticata in Italia dalla storica famiglia dei Colantuono, allevatori e produttori caseari del borgo molisano di Acquevive di Frosolone.
Ogni anno, nell’ultima settimana di maggio, dopo aver pascolato per oltre sei mesi nel Tavoliere delle Puglie, quando la terra inizia a inaridire, gli animali vengono spostati più a nord, alla ricerca dell’erba fresca dei pascoli montani. Mandriani e pastori si mettono in cammino con circa trecento mucche, lungo un antico tracciato di 180 chilometri, che percorrono in soli quattro giorni, partendo dalla località di San Marco in Lamis (Foggia), per arrivare ad Acquevive di Frosolone (Isernia).
Romina, ex pastorella che mi informa sull’origine dei toponimi, sente con forza il contrasto della situazione odierna con i tempi della sua infanzia, e lamenta lo stato di abbandono dei tratturi, spesso gestiti come beni privati, ormai «tenuti vivi solo dalla mandria che passa una volta all’anno».
Le parole di Fernando, forestale a Frosolone al suo dodicesimo anno di transumanza, rientrano chiaramente in questo tipo di logica. Ѐ un bene che il bovino sia allevato, perché se così non fosse la specie finirebbe. Infatti, nella nostra società, dove il profitto viene messo sopra ogni altra cosa, senza di esso l’animale non servirebbe a niente. Senza l’allevamento la specie si estinguerebbe. È l’uomo che crea gli equilibri. Nei grandi spazi c’è anarchia. L’uomo contemporaneo si pone al centro di un sistema che lui stesso ha creato, ma lo considera dato “per natura”.
Riflettere sull’esperienza della transumanza ci porta a rilevare l’ambivalenza della relazione umana con la natura e ci mostra con chiarezza l’errore della nostra illusione antropocentrica. Guidiamo gli animali, ma dobbiamo seguire i loro ritmi, in armonia con i ritmi della natura: l’alternarsi del dì e della notte, che determina i momenti di riposo, il ciclo delle stagioni, da cui dipendono gli spostamenti alla ricerca di freschi pascoli, le soste alle sorgenti, necessarie per il ristoro.
Sembrerebbe che gli animali decidano i tempi della migrazione. Viene spesso ricordata una frase poetica di Felice Colantuono, il nonno di Carmelina, oggi erede dell’antica tradizione della transumanza: «Quando è tempo di migrare migrano, sono come le rondini». Ma le rondini non dipendono dagli umani: che farebbero gli animali se non ci fossero gli uomini? La risposta di Fernando lascia intendere che le mucche deciderebbero tempi ben diversi se fossero libere:
Anche Carmelina ritiene che le mucche partirebbero da sole. All’arrivo del caldo sentono che devono partire. Quando iniziano ad avvertire il cambio di stagione, i mandriani devono tenere i recinti ben chiusi, altrimenti gli animali partirebbero da soli.
La storia appena riportata è ancora una volta la testimonianza dell’ambivalenza di un rapporto che si manifesta al confine fra natura e cultura: alla base c’è la tendenza naturale dell’animale a spostarsi, a seguire i ritmi stagionali, la sua necessità di curare i cuccioli; l’uomo vi innesta la sua volontà di controllo, tende a determinare i tempi, spesso restringendoli o dilatandoli, talvolta senza comprendere le esigenze più profonde di creature che mostrano di essere maestre nella conoscenza dei cicli naturali.
Oggi la relazione umana con quegli animali definiti “da reddito” è concepita come esclusivamente utilitaria. Nelle società contadine non sempre è stato così. Sull’evoluzione della relazione uomo-animale hanno agito anche fattori come l’emozione e l’empatia, che hanno influenzato il nostro comportamento e quello degli animali, e sono stati per tanto tempo il modo attraverso il quale l’altro ci ha fatto sentire la sua voce ed è divenuto parte di noi stessi [10]. La cura e la reciprocità hanno come mezzo elettivo di espressione la comunicazione attraverso il suono e quindi la voce. Alcuni informatori ne riconoscono la somiglianza con la manifestazione dei sentimenti umani nei confronti dei bambini piccoli:
«Gli fai “Te, te, te” e [la mucca] si avvicina; gli urli e si allontana. Sono un po’ come i bambini» [11]. Si tratta di reazioni spontanee, comuni forse a tutti gli animali, certamente a quelli più vicini a noi in termini evolutivi, come gli uccelli e i mammiferi. Ogni creatura incarna un’individualità irripetibile, e ciò che ne sottolinea la soggettività è in primo luogo l’imposizione del nome. Tutte le mucche di Carmelina Colantuono hanno un nome, e a testimonianza del rapporto empatico che si stabilisce fra uomo e mucca, e di quanto sia importante il nome, e dunque la voce e il suo riconoscimento da parte dell’animale, Carmelina racconta una bellissima storia [12]:
Carmelina commenta la storia dicendo che effettivamente c’è un forte rapporto di simbiosi fra uomo e animale. Le mucche sono animali molto sensibili e il vitello viene chiamato col nome della mamma per farli incontrare la mattina, quando i piccoli devono prendere il latte: basta chiamare il nome della mamma e anche il cucciolo arriva.
La dimensione sonora è la prima ad essere avvertita nell’incontro con la mandria, ed è quella che più fa riflettere sull’importanza della relazione umana con gli animali. A che serve il campanaccio? Questa è stata la prima domanda rivolta a più persone durante questo percorso di transumanza. Riporto di seguito una sintesi delle risposte più frequenti:
Alle sei-sette mucche dominanti, quelle più anziane che guidano la transumanza, viene appeso al collo un campanaccio grande, di trenta centimetri di diametro, usato solo per il tratturo. Sul collare di cuoio (collera in dialetto molisano) ci sono incise due lettere, C F, le iniziali di Felice Colantuono, il leggendario nonno di Carmelina.
Ci sono pastori e vaccari che raccontano di quando i campanacci si facevano su ordinazione, con suoni diversi per i maschi e per le femmine. Alcuni dicono che fosse anche possibile riconoscere ogni singolo animale dal tipo di scampanìo. Per gli animali che vivono allo stato brado è opinione comune che il campanaccio sia un importante sistema di controllo territoriale all’interno della stessa mandria, che rimane unita proprio grazie al suono [13]. Un tempo serviva anche ad impedire che mandrie diverse si mescolassero, poiché il suono diverso degli altri campani avrebbe allontanato gli animali finiti in gruppi estranei. Oggi, questo problema non esiste più, poiché la mandria della famiglia Colantuono è la sola rimasta a fare la transumanza orizzontale.
A orientare le mucche, ci sono una ventina di cavalli, guidati dai relativi cavalieri, che svolgono la stessa funzione dei cani da pecora nelle greggi di ovini. Alcuni si dispongono davanti alla mandria, altri la controllano ai lati, altri ancora chiudono tutto l’insieme. Anche i cavalli, come le mucche, hanno tutti il nome. Tintoretto e Blu, che deve il suo nome a un occhio azzurro, brucano placidi durante la sosta, allo stesso modo di Barok, Paint e Artù. Alcuni cavalieri sono accanto ai loro cavalli. Così, Maurizio di Arsoli, si occupa di Cassandra, una cavalla di dodici anni, mentre Luciano, dello stesso paese laziale, accudisce Stella: «In viaggio, prima vengono loro e poi noi. Solo dopo che hai sistemato l’animale puoi fare quello che ti pare», ci tiene a sottolineare Luciano.
Luciano è un personaggio che sembra appartenere a tempi lontani, esprime un pensiero arcaico, che vede l’animale come un essere da prendere a modello, un punto di riferimento per gli umani, talvolta perfino un maestro dal quale trarre insegnamenti oggi perduti. A conferma del suo pensiero, Luciano racconta un episodio straordinario.
La giornata termina a Quercigliole, dove il sole è ormai calato e il fuoco è già acceso per la notte. Cavalieri e mandriani riposano attorno al fuoco, poco distanti i cavalli; ancor più in là, fra gli alberi, le mucche, e il suono dei campanacci che si va facendo più lieve.
All’alba del giorno seguente, mucche e cavalli sono già in viaggio. La via passa per una zona di brigantaggio. È un tratto della Via di Francesco, detta anche Con le ali ai piedi. In lontananza si intravede la Morgia dei Briganti. Siamo in una zona di cinghiali, apprendo sulla via da un transumante.
I cinghiali sono visti molto male da queste parti, poiché fanno razzie: di mais, di patate, di uva, di meloni. Sono i nemici del contadino, che lamenta la regolamentazione della caccia, che impedisce l’uccisione degli animali nel corso di tutto l’anno. Il cinghiale di queste zone, inoltre, è un incrocio fra il cinghiale maremmano, meno prolifico (partorisce uno-due figli) e quello ungherese, che ne partorisce undici-dodici e si riproduce due o tre volte all’anno. Fatto che lo rende ancor più odiato. Lo stesso destino di animale nemico dell’uomo è toccato al lupo, particolarmente odiato dai pastori di Torella del Sannio.
Guadato il Biferno, si risale verso Castropignano, dove avviene l’incontro con Pasquale, il veterinario del posto. Pasquale si sofferma a parlare del pastore abruzzese, cane selezionato fin dai tempi antichi, e ricorda come già Marco Terenzio Varrone (I sec. a. C.) lo descriva come cane della transumanza, dal colore rigorosamente bianco, che lo rende ben visibile di notte. Il veterinario lo definisce un’arma biologica, che si interpone fra pecore e lupo o orso, e critica la ripresa del maremmano negli anni Cinquanta, che considera una moda. «Ci stiamo riprendendo gli animali della transumanza», sottolinea, e fa riferimento, per delineare i veri tratti storici di un sistema da rimettere in piedi, a una “gerarchia della transumanza”, che vedeva al vertice il massaro (proprietario delle pecore), cui seguivano i pastori e i fanciulli più giovani. La gerarchia inquadrava anche gli animali, con il montone-guida (manziero), tirato dal pastore e seguito da tutte le pecore.
Conclusioni
Dall’esperienza di transumanza sopra riportata, emerge che la relazione umana con gli animali, in particolar modo con la mucca, rivela anche una dimensione non utilitaria, che però è così strettamente unita a quella economica da risultarne quasi occultata. Dare il nome, avere un rapporto empatico con qualche creatura, viaggiare con gli animali appaiono come aspetti secondari inseriti all’interno di un grande discorso economico, in cui il ruolo primario è occupato da fattori quali la valorizzazione del territorio, la produzione dei formaggi pregiati, l’inserimento nella lista Unesco. È questa seconda dimensione ad essere privilegiata dai media, a dominare nei progetti istituzionali, perfino nella visione dell’antropologia che, come scienza dell’alterità, con la sua vocazione critica, dovrebbe avere più attenzione per gli aspetti meno evidenti ma rivelatori di necessità e bisogni non meramente utilitari ed economici.
In una prospettiva ancora antropocentrica, va da sé che il benessere animale sia in funzione umana, e che si esalti la valorizzazione del territorio a beneficio esclusivamente economico. Si evidenzia, e a ragione, che le mucche vivono allo stato brado, relativamente libere. Pascolano all’aperto e la loro vita non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella della loro compagne degli allevamenti intensivi. Il contrasto fra gli usi rurali tradizionali, quando l’animale aveva una sua identità [14], e la grave situazione in cui vivono i bovini degli allevamenti industriali [15] è conosciuto da tempo. Da una parte, creature che vivono all’aperto, mangiano erba fresca, vedono la luce del sole, si muovono all’interno di un ciclo naturale giornaliero e stagionale, hanno un nome che le rende individui, a volte perfino protagoniste di racconti leggendari. Dall’altra, creature anonime, che trascorrono la loro breve esistenza al chiuso, in un tempo sempre uguale a se stesso, senza luce, senza aria, senza erba. Due mondi, fra i quali, apparentemente, non vediamo legami.
Nel caso degli animali domestici, come la mucca, possiamo risalire, attraverso la loro storia di relazione con gli umani, a un anello intermedio fra i due modi di vita. La domesticazione costituisce il passaggio intermedio fra la vita libera allo stato di natura e la schiavitù delle masse prigioniere nascoste negli allevamenti industriali. La sua essenza sta nel carattere che assume la relazione uomo-animale. Nelle società del mondo antico ove vigeva anche la schiavitù umana, il parallelismo fra schiavo e animale domestico si impone in tutta la sua evidenza. I Romani classificavano schiavi e bestiame, rispettivamente, come instrumentum genus vocale e instrumentum genus semi-vocale; i testi vedici distinguevano gli schiavi fra bipedi e quadrupedi; e in Mesopotamia, nell’antica città-stato di Lagash, le schiave tessitrici, allo stesso modo del bestiame da latte, dovevano assicurare la discendenza, mentre gli schiavi maschi erano castrati e messi al lavoro, a tirar le barche gli umani, a spingere l’aratro i buoi [16].
Caratteri fortemente gerarchici li riscontriamo normalmente fra le comunità agropastorali tradizionali, e molte di queste praticano anche la transumanza, che è facilmente rappresentabile come un sistema piramidale. In cima alla piramide si colloca l’uomo che, pur all’interno dei cicli stagionali, determinati dalle necessità della natura, decide i tempi esatti della partenza, la durata del viaggio, il percorso e le tappe del tragitto. Decide anche quali individui possano mettersi in cammino. Divide i maschi dalle femmine, i lattanti dagli svezzati, i forti dai deboli. Le mucche partirebbero ugualmente, “sono come le rondini”, si potrebbe obiettare. Ma partirebbero forse un po’ prima o un po’ dopo, marcerebbero al loro ritmo, vagherebbero liberamente, senza essere orientate da nessuno. Invece ci sono i mandriani, a dare l’orientamento. Con i cavalli o senza cavalli.
Le mucche sono animali che occupano una posizione subalterna rispetto al cavallo. È molto più frequente che col cavallo si sviluppi una relazione affettiva. Con la mucca è decisamente più raro. Quando il cavallo si fa vecchio è difficile che il proprietario lo mangi. Nel 99% dei cavalieri, in Molise, non c’è la cultura del mangiare carne di cavallo: o muore come una persona o viene venduto in Puglia o in Sicilia, dove invece questa cultura esiste [17].
Il mondo agropastorale non è scevro di conoscenze sul comportamento animale. I campanacci che vengono posti al collo delle mucche riaffermano la gerarchia naturale osservata fra gli animali. Quelli da viaggio, più grandi e sonori, vengono messi alle bovine più anziane, campani più piccoli da pascolo vengono apposti a vacche che hanno una posizione intermedia nella gerarchia, i vitelli ne sono tutti sprovvisti.
Il dominio umano sugli animali si esercita attraverso una logica dualistica e gerarchica che coinvolge la visione del mondo agropastorale. Nel sistema della transumanza, il mondo umano, con la sua egemonia, si oppone al non umano, con la sua subalternità, la cultura precisa del calendario alla natura approssimativa dei cicli stagionali, la ragione del domatore o del mandriano all’istinto dell’animale.
Cosa vede il mandriano, il pastore o il contadino al di fuori del suo universo culturale? Quali sono i suoi rapporti con le altre sfere della vita? Come vede il mondo selvatico?
Nel mondo agropastorale, l’orizzonte della civiltà appare limitato allo spazio antropizzato, costituito da campi coltivati e pascoli. Il selvatico si identifica con il nocivo, minaccia permanente per coltivazioni e animali domestici, come è il caso del cinghiale distruttore di orti o del lupo divoratore di greggi. L’animale selvatico è il nemico dell’uomo [18]. Possiamo rappresentare la struttura mentale dualistica alla base del pensiero agropastorale attraverso una serie di termini oppositivi, dove la parte destra della lista rappresenta l’alterità o altro-da-sé: domestico/selvatico; allevamento/caccia;agricoltura/raccolta; civile/barbaro; stabile/aleatorio; abitato/selvaggio; valore/non-valore; utile/nocivo.
Tali elementi sono in coerenza con la lista aperta della filosofa australiana Val Plumwood [19], il cui pensiero si focalizza proprio sulla critica al dualismo e all’antropocentrismo occidentale. Si tratta di uno schema inconsapevole, chiaramente, entrato nel profondo della coscienza umana, difficile da sradicare. Come superare una logica dualistica e gerarchica così profondamente radicata?
L’esperienza di vita di studiosi che hanno passato decenni con creature di altre specie ha portato a riflettere sull’importanza dell’empatia per capire gli animali e sulla necessità di decentrarsi da sé per entrare nel loro mondo [20]. È solo uscendo dai propri confini che si supera la logica dualistica e gerarchica e si trova il punto d’incontro fra umano e naturale.
Per comprenderli, gli animali vanno osservati, ascoltati, nello sforzo di indovinarne emozioni e desideri. Gli animali hanno la capacità di sentire e percepire il mondo che li circonda con una profondità e una chiarezza a noi sconosciute, si pongono in allerta rispetto ai pericoli perfino quando dormono, sono forti e lottano, ma rarissimamente uccidono un loro simile, hanno velocità, spontaneità, straordinaria conoscenza dello spazio e senso acutissimo dell’orientamento da noi perduti. La loro comprensione del mondo naturale va al di là della comunicazione [21].
E se la profonda esperienza di vita con altre specie ha portato molti ricercatori a scoprire negli animali una consapevolezza a noi ignota [22], diviene allora doveroso domandarci: l’istituzionalizzazione, la patrimonializzazione, l’iscrizione in liste di salvaguardia aiutano veramente a salvare la straordinaria ricchezza della vita animale? In altre parole, la cultura umana e animale ne risultano arricchite o impoverite? E se per caso ne risultassero impoverite, come fare affinché l’alterità animale sia ascoltata e non ne vengano evidenziati solo pochi tratti fissi, esclusivamente economici? E come evitare i pericoli di reificazione e spettacolarizzazione?
Qui entra in gioco il ruolo dell’antropologo. Orientato verso l’alterità, dovrebbe sostenerne il rispetto, in coerenza con un turismo sostenibile e attento al territorio, certamente, ma dovrebbe anche adoperarsi per introdurre nel dibattito istituzionale e accademico le categorie dell’etica ambientale, proporre un nuovo modo di educare alla conservazione, che guardi non solo ciò che è economicamente conveniente ma anche ciò che è esteticamente bello ed eticamente giusto [23], adottando una relazione fondata sulla reciprocità, sulla cooperazione, sull’uguaglianza fra le comunità umane e non umane [24].
Così la mucca non sarà più soltanto utile a produrre formaggi di alta qualità, non sarà più solo fonte di ricchezza per le popolazioni locali, ma sarà anche quella creatura ispiratrice di racconti leggendari, quell’individuo unico che risponde al suo nome, che cammina sulle antiche vie d’erba insieme agli umani, nell’armonia dei campanacci ma anche dei lenti cicli della natura.
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