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Una storia di ordinaria violenza e una messinscena “teatrale” nella Buccheri del XVIII secolo
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2022 @ 01:19 In Cultura,Società | No Comments
di Luigi Lombardo
La notte è una conquista della nostra civiltà, quella per intenderci delle macchine e dell’energia propulsiva a basso costo. Nella notte, oggi, c’è chi vive, lavora, si incontra, legge, studia, cena, si diverte, insomma “fa notte”. Sembra una banalità affermare questo, ma io che ho una certa età ho presente la “civiltà” del buio, rischiarata fiocamente dalla luce di un lume a petrolio; i racconti lugubri e inquietanti delle donne, per indurre al sonno i ragazzi. Era, è vero, anche quello un tempo “artificiale”, come la luce, che puntualmente si interrompeva al soffio sul mecciu del lume da parte della madre. Poi il buio. A vespri (al tramonto) le famiglie si affrettavano a riunirsi in casa per la cena e poche ore dopo il tramonto (a dui uri di notti), tutti si era sotto le coperte, al suono dell’Avemaria, per destarsi l’indomani col canto del gallo. Era raro vedere gente per strada dopo l’avemaria, circolavano solo guardie e qualche prete per l’estrema unzione.
Più indietro si va nel tempo più le norme sugli spostamenti notturni si fanno rigidi. Nel XVIII secolo, ad esempio, epoca di svolgimento dei fatti che qui si raccontano, era fatto divieto a chiunque di circolare per le strade o le piazze, presidiate dalle guardie di notte, “rondieri”, al comando di un graduato (che in genere dormiva tra due guanciali). Per il resto tutto è silenzio, buio. Ma, se la classe povera dei contadini e dei piccoli artigiani hanno intrapreso il “primo sonno”, c’è chi non si rassegna alla placida notte: sono comitive di burgisi (e qualche ecclesiastico) che tornano da festicciole o da qualche incontro galante o dal vivace “bordello” della città, sotto gli occhi tolleranti delle scorte armate: per il resto guai a circolare di notte. La noia spesso assale le compagnie dei signorotti, alla ricerca di occasioni di svago: cosa di meglio quando lo svago lo potrà dare qualche “povero Cristo” (l’espressione non è casuale) cui somministrare qualche “innocente scherzetto?
Presi da tale fregola, vinti dal vino, la notte del 20 aprile 1725, si riunirono “ai Canali” (la piazza) alcuni notabili di Buccheri, nel Siracusano, tra cui il Capitano di Giustizia (altissima carica), il capitano di notte, qualche “nobile” giurato e soprattutto un ignoto personaggio, indicato nelle carte del processo con l’acronimo “N. N”, certo personaggio potente e “innominabile”, come sarà scritto negli atti dell’istruttoria e il successivo processo, intentato contro questi “buontemponi” (in verità autentici delinquenti) contro il solito “povero Cristo”, attraverso una messinscena burlesca che si sarebbe rivelata dalle conseguenze tragiche.
Lo scherzo venne attuato da una “bella” comitiva composta dal capitano di notte Sebastiano Fontana e dai “provisionati” o guardie del magistrato Francesco Roccuzzo, Giuseppe Pappalardo, Vito Ramondetta, Domenico Russo, Antonio Galia, Giuseppe Amodio, già certamente abbondantemente avvinazzati, i quali con estrema “serietà professionale” bussano alla porta del contadino Ambrosio Tavano, che, come si usava da chi l’indomani deve alzarsi con le stelle ancora brillanti in cielo per recarsi al lavoro, è già a letto con la giovane moglie. Il gruppo invita i due coniugi a seguirli, perché li vuole il capitano di giustizia Giambattista Santoro. I poveretti sono costretti ad alzarsi, vestirsi in fretta e uscire, in balia della bella compagnia. E inizia il teatro: la donna viene spogliata e costretta a indossare abiti maschili col nome di zu’ Paulu, e il povero marito i panni del “povero Cristo”, cioè un costume che lo faceva somigliare al Cristo della Via Crucis, gli impongono una croce sulle spalle, presa da un’edicola votiva, e viene trascinato per le vie del paese. In piazza era ad aspettare col capitano di notte il nostro “innominato” indicato con la sigla “N. N.”, nel verbale dell’interrogatorio. Si beve, si chiacchiera, si ride e ad un certo punto “don Paulino” viene invitato a bere un bicchiere di vino in disparte. Possiamo immaginare il seguito. Dopo qualche ora vien posto fine alla triste carnevalata in tempo di Quaresima.
Pensiamo un attimo cosa dovette provare quel poveruomo di Ambrosio trascinato nel cuore della notte, burlato e deriso, costretto a vedere la propria moglie travestita da uomo, essere palpeggiata a destra e manca e in seguito, molto probabilmente, stuprata! La mattina dopo, riferisce il verbale, il pover’uomo «si assincupò» (svenne e in seguito morì). La morte lo coglie mentre sta raccogliendo erbe in campagna, per sfamarsi: oggi diremmo fu colto da infarto a seguito delle “conseguenze da stress psicofisico” subìto nella notte. Per il poveretto il suo stato si riassumeva sotto un nome: disonore!
La morte di Ambrosio non passa inosservata. La moglie parla con qualcuno dei fatti occorsi durante la notte e in un piccolo paese giungono rapidamente alle orecchie dei governanti: non si può fare a meno di intervenire, anche per la pressione del parroco, ma con la “dovuta prudenza”. Per prima la curia della Terra (sorta di magistratura cittadina) il 21 luglio del 1725 interroga la vedova (vd. Doc. Appendice), la quale racconta come «sotto li 20 del p.p. aprile la sera circa ad hora tre di notte [fra le dieci e le undici di sera] do mentre essa teste giaceva in letto con suo marito intese picchiare la porta ed ella chiese «Cu è ddocu? […]».
Segue l’interrogatorio di una testimone e il procedimento si avvia. Non sappiamo come andò a finire, poiché il procedimento fu avocato dalla corte baronale del principe Alliata di Villafranca, presso le cui carceri di Trecastagni furono tradotti alcuni dei protagonisti della bravata (possiamo supporre pesci piccoli). Come rileviamo da una lettera del vice carceriere su ordine del sostituto capitano di giustizia (era implicato nella vicenda), ogni cosa passò sotto la giurisdizione superiore. Perché? Sicuramente tra i protagonisti quel “N. N.” doveva essere persona di tutto rispetto, uno che non bisognava neanche nominare: l’innominato dunque, che diviene innominabile. Possiamo immaginare che tutto venne insabbiato dopo i primi provvedimenti repressivi contro i pesci piccoli: il classico polverone. Gli imputati hanno l’ardire di affermare che tutto si è svolto col consenso delle vittime e che la morte del poveretto non ha relazione con “l’ingenuo scherzetto”. Fatto sta che il 14 agosto 1725 vengono posti in libertà due dei tre arrestati: «Si son posti in libertà Santoro Lombardo e Sebastiano Fontana, atteso l’ordine di codesta corte capitaniale, restando carcerato Giuseppe Pappalardo».
A partire da questa data del fatto non si parla più, poiché interviene la “giustizia superiore”, quella del principe Alliata di Villafranca, signore di Buccheri. Così nulla sappiamo, ad esempio, del personaggio clou della vicenda: l’innominato, né della linea difensiva degli imputati. C’è da chiedersi se i protagonisti furono sottoposti a regolare procedimento, ovvero tutto si sia limitato alla stesura dell’istruttoria, informationes receptae, rapida, che pose fine allo scandalo, magari scaricando tutto sul pesce più piccolo.
Lo stato della giustizia a Buccheri in quell’anno (1725) doveva essere davvero pietoso: giudici che delinquono, con la complicità di militari e di compiacenti amministratori, disposti a chiudere un occhio, violenze notturne ai danni di indifesi e inermi “terrazzani”, procedimenti a decine aperti per concubinato e stupro, molestie e violenze contro donne. I protagonisti sono sempre gli stessi: quei soldati “provisionali”, che abbiamo incontrato, con la complicità di superiori e la tolleranza di magistrati e giurati locali, e di tanti potenti che restano nell’ombra. Mesi prima proprio quelle guardie di notte si erano rese protagoniste di gravi reati. La più clamorosa la fuga dal carcere del “provisionato” Giuseppe Pappalardo, aiutato dal suo “compare” Vito Ramondetta di cui si è detto prima: per entrambi l’accusa era di “sidomia” (sodomia), contro una donna.
La notte si prestava alle bravate, sempre a sfondo sessuale, delle guardie contro donne indifese e spesso sole in casa. Antonia Messina, una delle vittime, sotto interrogatorio, accusa il “provisionato” Ramondetta di violenza sessuale, culminata con la sodomia, come leggiamo nel verbale steso dal giudice: «il prefato Vito la prese sforzandola, ed havendo finito d’usare naturalmente si diede poscia alla sidomia, ma con tanta violenza che col sforzamento che fece alla dichiarante gli scommosse tutte due le braccia e le gambe».
Certo oggi gridiamo allo scandalo e diciamo che tutto ciò non potrebbe più accadere nella moderna civiltà: ma ne siamo proprio sicuri? Il “povero Cristo” del XVIII secolo oltraggiato e beffeggiato, vero capro espiatorio delle violenze represse di potenti senza scrupolo, la povera donna costretta al travestimento, cosa mostruosa per una donna di ieri (e di oggi), non sono in fondo i tanti deboli di oggi, su cui si esercitano le tante bugie di ipocriti uomini di potere, forti coi deboli, esercitate contro i più deboli, gli immigrati, spinti dalla fame, ma anche attratti dai nostri valori, che ci ammirano e vogliono essere come noi? Oggi fingiamo di accoglierli per poi ad ogni occasione scaricare su di loro ogni nostro basso istinto di “conservazione”. Il povero Willy perché fu ucciso? solo per il colore della pelle e per avere osato difendere dei deboli! In televisione poi appaiono, questi delinquenti, inermi, quasi innocenti, da suscitare senz’altro pena, come pena suscita il soldato russo mostrato come prigioniero di guerra, responsabile di stupri e uccisioni di inermi (a dire degli ucraini, che certamente hanno commesso un errore di comunicazione grave).
In poche parole la voglia di ridicolizzare il più debole non si attua oggi nelle forme di una “benevola” accoglienza, salvo a lasciarli soli, abbandonati al loro destino: che società è quella che crea “poveri Cristi”, per scaricare le pulsioni più abiette?
Per concludere veniamo ora alla “tecnica” usata dai “buontemponi” contro le povere vittime. Si attua nei loro gesti un doppio capovolgimento: dalla realtà al “rito” e da questo alla realtà. La messinscena “teatrale” messa in campo dai “burloni” dispone sul piano della realtà quella che è una sacra rappresentazione tante volte sperimentate nelle feste del Passiu Santu buccherese, o dei tanti Venerdì santo in ogni luogo della Sicilia. Viene da pensare al film La Ricotta del grande Pasolini: il “povero Cristo” Crocifisso che soffre davvero in croce, per aver mangiato troppa ricotta: e le sue urla e i suoi contorcimenti sono visti come un’ottima recita della comparsa, salutata dagli applausi di tutti.
Le teatralizzazioni a scapito di povere vittime, specie donne, erano frequenti: ricordiamo le umilianti punizioni cui la concubina veniva sottoposta, in una messa in scena ben studiata e di effetto; ricordiamo il “battere il culo alla balata” del debitore insolvente, gli scherzi ai danni di coppie che avevano deciso di convolare a nozze in età avanzata. Ma la più bersagliata era certo l’adultera. Nel mio recente libro Processo a Cassandra riporto una sorta di leggenda riguardante la punizione che il barone tradito infligge alla giovane e adultera sposa: farla cavalcare nuda su un cavallo bianco, facendola così girare per il paese.
Questo tipo di punizione è consueto nel diritto antico consuetudinario e fa parte delle tremende pene previste per il reato di adulterio, che applicato solo alle mogli reato scattava solamente dopo la denuncia del marito [1]. Naturalmente a una certa data questa crudele usanza fu abolita, ma rimase un alone leggendario, frammenti di memoria rielaborata che hanno dato vita ai racconti più inquietanti, come questo della baronessa Cassandra, novella lady Godiva (ma le motivazioni sono diverse), umiliata e rovinata per sempre [2]. A ripensare oggi queste pratiche narrative diffuse a livello locale e nei circuiti orali tradizionali, si tratta probabilmente di un exemplum di tipo didascalico rivolto alle donne: state calme o vi finisce come la baronessa. In una società di stampo tradizionale, come quella palazzolese, la sfida di Cassandra era un’offesa ai princìpi di maritaggio: fedeltà, silenzio, accondiscendenza. Tutto questo con le dovute eccezioni che via via nel corso dell’Ottocento, ma soprattutto del Novecento, diventeranno norme di comportamento, che però il legislatore sancirà e regolamenterà assai tardi: pensiamo al reato di delitto d’onore.
Due soli esempi “classici”: a Cuma nell’Eolia in Asia Minore le adultere venivano esposte nude su un sasso e poi fatte girare sempre nude su un asino (come narra Plutarco), e le si dava il nome di “cavalca-asino” (oνοβάτιs), il sasso e l’animale su cui ella aveva poggiato il corpo erano considerati impuri. In India più recentemente una donna fu costretta a girare nuda per il villaggio a cavallo di un asino. Era la punizione inflitta a una donna indiana dal Consiglio degli anziani (Panchayat) di una zona tribale dello Stato del Rajasthan perché accusata di aver tramato l’omicidio di suo nipote, morto suicida. Qui cambiano le motivazioni ma non la punizione della donna. E gli esempi sono innumerevoli. Infine vorrei ricordare il famoso episodio del Carnevale di Romans, titolo dell’omonimo libro di E. Le Roy Ladurie [3]: qui la teatralizzazione del rito carnevalesco sfocia nella terribile rivolta popolare contro il potere municipale. L’inversione rituale del carnevale sfocia in un ribaltamento dei fondamenti sociali della comunità: il teatro diventa vita, come ci ha insegnato Pirandello.
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