
Marsh Arabs on the Tigris-Euphrates, Iraq, 1950 (ph. Wilfred Thesiger / CC BY-SA 4.0.)
https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0/
di Paola Laviola
Una civiltà d’acqua e giunchi
Già negli anni Cinquanta, quando negli uffici delle ambasciate si discuteva di confini e petrolio, numerosi rapporti tecnici, ora conservati nell’Arabian Gulf Digital Archive [1] documentavano le tensioni legate alle risorse idriche ai confini dell’Iraq, con particolare attenzione agli schemi di irrigazione e agli accordi sull’acqua. In quegli stessi anni, più a sud, le paludi mesopotamiche continuavano a raccontare un’altra storia: una storia fatta di navigazione e architetture di giunchi.
Qui, nell’Ahwar, vasta zona umida situata tra i fiumi Tigri ed Eufrate, si è sviluppata una delle società più antiche e radicate del Vicino Oriente, profondamente legata a un ecosistema unico e fragile. Questo articolo ripercorre la storia di quella sopravvivenza ostinata, tra memoria, potere e fango.
Le Paludi Mesopotamiche, un tempo il più vasto ecosistema umido dell’Eurasia occidentale, si estendono nel sud dell’Iraq. Le acque del Tigri e dell’Eufrate, dopo aver attraversato deserti e altipiani, rallentavano qui per spargersi in una fitta rete di anse, canneti e lagune. Ed è qui che hanno abitato, per secoli, gli Arabi delle Paludi – chiamati Maʿdān o Ahwaris.
Le fonti scritte dicono poco sulle origini di questi popoli. Non esistono documenti anteriori al IX secolo che ne attestino l’esistenza, e la memoria sumera era già un’eco lontana. Alcuni tratti della cultura Ahwari ricordano quelli delle tribù beduine del deserto, arrivate dopo la caduta del califfato abbaside, a cui si accostano per i legami e norme sociali. Ma ciò che li ha sempre distinti è la lunga convivenza con questo paesaggio acquatico cha ha dato vita a una civiltà capace di adattarsi all’acqua in tutte le sue forme. Pur offrendo un ambiente ricco e fertile, le paludi erano esposte a malattie endemiche come la schistosomiasi e la malaria, oltre a frequenti siccità e inondazioni che da sempre hanno segnato la vita di chi le abitava.
La loro cultura si è radicata dentro questo paesaggio, nei suoi silenzi e nelle sue minacce, con la sua capacità di galleggiare – letteralmente – sulla precarietà. In quell’acqua stagnante che i sedentari disprezzavano, gli Ahwaris hanno trovato vita.

Unidentified Marsh Arab woman with two children. Courtesy of University of St Andrews Library, ID 2015-8-278.
Hanno allevato bufali, coltivato riso e miglio perlato, pescato con le lance e col veleno della datura. Hanno intrecciato giunchi per farne tetti, pareti, barche. Le mashaf, canoe leggere manovrate con agilità anche in acque poco profonde, sono essenziali per la mobilità e il commercio, mentre i canali servivano sia da vie di trasporto sia da sistema di irrigazione. Le loro abitazioni e i mudhif – case cerimoniali più grandi – erano costruiti interamente in canna, venivano eretti senza chiodi, legno o vetro, e poggiavano su isole artificiali di fango e giunchi compattati. Alcuni gruppi conducevano una vita nomade, spostando le mandrie secondo l’andamento stagionale delle acque.
In quei villaggi che sembravano fluttuare, la casa dello sceicco era anche tribunale e centro politico, e la fede, quasi sempre sciita, era vissuta nel privato: le paludi non avevano moschee, solo riti tramandati. Eppure, intorno a loro, il mondo parlava un’altra lingua. I villaggi palustri venivano visti come luoghi di ignoranza e arretratezza e il termine Maʿdān era usato con disprezzo dai beduini del deserto e dai contadini delle pianure. Le paludi erano una risorsa, ma anche una condanna.

Mudhif – Traditional ceremonial hall of the Maʿdān. Foto di US Embassy Baghdad / CC BY 2.0 via Wikimedia Commons.
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Mudhif_
Il disegno del prosciugamento
Già a metà Novecento, i primi progetti di bonifica iniziarono a intaccare questo equilibrio. Ma fu negli anni Novanta, sotto il regime di Saddam Hussein, che il disegno divenne sistematico. In pochi anni le paludi furono prosciugate con una violenza deliberata. I motivi erano molteplici, ma nessuno fu mai dichiarato apertamente. I documenti suggeriscono che il regime volesse punire e frammentare una società che non controllava, abitata in gran parte da sciiti e da tribù considerate potenzialmente ostili. Le paludi offrivano rifugio a dissidenti, comunisti, militanti religiosi, disertori. Quel mondo indipendente, ostile alla modernizzazione e ai piani petroliferi del potere centrale, doveva essere smantellato.
Non si trattò di un’improvvisazione. Saddam riprese un vecchio piano britannico degli anni Cinquanta, che prevedeva il drenaggio dell’area, e lo attuò tra il 1991 e il 1993, subito dopo l’invasione del Kuwait. Le acque furono deviate, furono costruiti canali artificiali, le riserve alimentari tagliate, i villaggi bruciati e l’acqua avvelenata. In meno di due anni, vaste porzioni delle paludi scomparvero. La popolazione fu decimata. Da mezzo milione di persone si passò a meno di 20.000. Molti si rifugiarono a Bassora o oltre il confine iraniano. Nel 2003, solo 1.600 persone vivevano ancora nelle tradizionali abitazioni in canna. Le paludi centrali e occidentali erano completamente asciutte. Quelle orientali, drasticamente ridotte [2]. L’ecosistema era stato compromesso.
Dopo la caduta del regime, l’acqua tornò lentamente a scorrere, ma il paesaggio era profondamente cambiato. Gran parte delle zone umide era stata riconvertita in terreni agricoli o destinata all’estrazione petrolifera. Dove l’acqua c’era, era salmastra e contaminata. La cultura dei Maʿdān, un tempo fondata sulla resilienza, sembrava ormai sull’orlo della scomparsa.

Area delle paludi nel sud dell’Iraq. Foto di Salamaldrajee / CC BY-SA 4.0 via Wikimedia Commons.
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:اهوار_الجبايش.jpg
Ritorno dell’acqua, ma non della vita
Oggi, nuove minacce gravano su un ecosistema già compromesso: alla salinità e alla scarsità d’acqua si aggiunge il rischio di nuove trivellazioni, denunciate da alcuni abitanti preoccupati per un possibile danno irreversibile [3].
«La nostra vita qui dipende dall’acqua» – ha detto Sheikh Lebnan Abdul Al-Khayoun, leader locale degli Ahwaris. «Se le paludi si prosciugano, per noi sarà un disastro esistenziale» [4].
Dopo la caduta del regime nel 2003, sono stati avviati diversi progetti di rifluidificazione con il supporto di Paesi come Italia, Giappone, Stati Uniti e Canada. L’iniziale rifluidificazione ha suscitato entusiasmo e ha permesso a alcune famiglie di tornare nelle aree ora nuovamente bagnate dalle acque. Il riconoscimento dell”Ahwar come sito UNESCO [5] ha inoltre attirato l’attenzione internazionale. Le paludi sono tornate a coprire più del 50% dell’estensione degli anni ’70, con una buona rigenerazione delle paludi Hawizeh e Hammar [6]. Tuttavia, il recupero completo richiederà ancora molto tempo.
Solo poche migliaia di Ahwaris sono rientrati, mentre molti altri vivono altrove in Iraq o in Iran, e spesso non intendono tornare a causa delle condizioni difficili e della povertà. Chi è rimasto affronta ogni giorno la scarsità di servizi essenziali. Inoltre, l’estrazione continua di acqua dai fiumi Tigri ed Eufrate rende il futuro delle paludi incerto.
Le condizioni di vita restano dure: acqua potabile, scuole e ospedali sono carenti, e le dighe a monte, soprattutto in Turchia e Iran, riducono sensibilmente il flusso d’acqua. L’economia locale è fragile e spinge molti giovani a migrare in cerca di opportunità migliori. Il cambiamento climatico aggrava la situazione. Con la siccità, le temperature che superano i 50 gradi e i corsi d’acqua in ritirata, terreni aridi e crepati sono sempre più visibili. Le case si svuotano, i bufali scompaiono, il fango si asciuga. Le immagini della memoria si spengono una a una, e la vita si ritira insieme all’acqua.
Gli esperti vedono in questo scenario un segnale di crisi ambientali che potrebbero colpire altre regioni. A Bassora, la crisi idrica è evidente. Secondo il rapporto di Human Rights Watch del 2019, l’acqua disponibile in molte aree del sud dell’Iraq, come Bassora, è contaminata e inquinata da rifiuti industriali e scarichi fognari, e rappresenta un pericolo per la salute pubblica.
Il fiume Shatt al-Arab è sempre più salato per la risalita dell’acqua del Golfo Persico, dovuta alla scarsità d’acqua dolce a monte. Anche le paludi soffrono di contaminazione salina, mettendo a rischio le ultime riserve d’acqua potabile. Nel cuore delle zone umide, a Chibayish, l’acqua è scarsa e salmastra, causando malattie e morte tra i bufali, una risorsa fondamentale [7]. Molti allevatori devono percorrere lunghe distanze per trovare acqua pulita.
Dal 2005, più di 170.000 persone sono state costrette ad abbandonare le proprie terre a causa della crisi idrica, diventando sfollati ambientali. Le previsioni indicano che entro il 2025 i livelli d’acqua potrebbero ridursi di un’ulteriore metà.
Un recente reportage fotografico di Al Jazeera (dicembre 2023) mostra il declino progressivo delle paludi irachene e le difficoltà della comunità Maʿdān. Le immagini documentano la diminuzione dei corsi d’acqua, la siccità delle terre e le sfide quotidiane di chi resta. Le testimonianze locali evidenziano come la perdita d’acqua sia non solo una catastrofe ambientale, ma anche un colpo durissimo a una civiltà millenaria. Questo reportage si affianca alle ricostruzioni storiche, sottolineando l’urgenza di sostegno internazionale e politiche sostenibili per proteggere l’Ahwar e la sua gente [8].

Poling a way through reedy marshes of lower Tigris and Euphrates plain, Iraq, fine XIX secolo.
Stereografia, Biblioteca del Congresso, Washington, DC.
ID digitale: LC-DIG-stereo-1s27169.
Fonte: Library of Congress Prints and Photographs Division, https://www.loc.gov/resource/stereo.1s27169
Difendere la memoria: il sapere dei mudhif e la speranza che resiste
Nonostante le difficoltà, ci sono segnali di speranza. Alcune aree sono state rifluidificate e organizzazioni internazionali collaborano con le comunità locali per promuovere pratiche sostenibili. L’Ahwar resta un santuario di biodiversità, con migliaia di uccelli migratori che nidificano nei canneti, incluso il raro canapino di Bassora e una varietà di pesci endemici nei canali [9]. I bufali d’acqua, seppur minacciati, rimangono un simbolo forte di queste terre.
Le paludi irachene rappresentano un legame vivo con un passato millenario. Le rovine sumere e i canti tradizionali dei Maʿdān raccontano una storia lunga di adattamento, conoscenza e resistenza. Il futuro dell’Ahwar resta incerto, ma è chiaro che servono politiche ambientali concrete, cooperazione internazionale, energie rinnovabili e un turismo responsabile per preservare questo patrimonio unico.
Le testimonianze degli abitanti, come quella di Jassim Al-Asadi [10], ingegnere e attivista iracheno, nato a Chibayish nel cuore delle paludi, raccontano una storia fatta di lotta e dedizione per la sopravvivenza di questo ecosistema. Jassim è nato in una barca, nel cuore delle paludi mesopotamiche. Quasi settanta anni dopo, la sua vita ruota ancora attorno a quell’ambiente: oggi come attivista e ingegnere idrico, lotta per salvarle dalla scomparsa.
Sopravvissuto alle persecuzioni durante il regime di Saddam Hussein, ha dedicato la vita a difendere le paludi, contribuendo in modo decisivo al loro riconoscimento come Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. La sua esperienza personale e professionale riflette il legame profondo tra le comunità locali e questo territorio fragile, sottolineando l’importanza storica, culturale ed ecologica delle paludi.
Le paludi non sono solo un ecosistema, ma la casa di un popolo indigeno con una cultura millenaria. Parlano un dialetto unico, ricco di termini antichi, e la loro vita è da sempre intrecciata con le acque del Tigri e dell’Eufrate. La speranza per l’Ahwar risiede nella consapevolezza della sua importanza globale e nella capacità di agire insieme per proteggerlo.

Sumerian Mudhif guesthouse in the Southern Eastern Marshes of Iraq. Fonte Wikimedia Commons. Link to original page:https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Sumerian
A pochi chilometri da città devastate dalla guerra, ancora oggi c’è chi rischia la vita per salvare le paludi e la comunità ecosostenibile che le abita.
Negli ultimi decenni, il patrimonio del mudhif ha rischiato di scomparire, insieme al sapere antico che lo rendeva possibile. Esempio di straordinaria architettura vernacolare, questi manufatti rappresentano una continuità architettonica lunga almeno 5.000 anni e i reperti incisi del 3.300 a.C. a Uruk lo attestano. Montati con archi parabolici in canne, coperti da stuoie intrecciate e orientati sempre verso La Mecca, richiedono una demolizione e ricostruzione completa circa ogni 15 anni.

. The Arab boatman brings the sailors ashore, Iraq, 1958. Foto di Buonasera / CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons.
https://commons.wikimedia.org/wiki/
Oggi, solo pochi artigiani continuano a costruire i mudhif, come Meeri Najim, che porta avanti questa tradizione con il supporto di alcune ONG attive nella zona, tra cui i Tigris River Protectors e Nature Iraq. Queste organizzazioni non si limitano alla tutela ambientale, ma promuovono anche iniziative culturali e sociali, offrendo corsi pratici e piccoli prestiti destinati ai giovani per incoraggiarli a riscoprire e tramandare quest’arte antica [11].
La sapienza costruttiva alla base del mudhif è riconosciuta come patrimonio immateriale dell’umanità dall’UNESCO [12], e la sua importanza viene riscoperta a livello internazionale. Di recente, la cultura delle paludi ha ispirato riflessioni contemporanee nel campo del design e negli studi di conservazione, come dimostrano alcuni eventi dedicati all’architettura vernacolare e alle tecniche costruttive tradizionali. Questo riconoscimento evidenzia come il mudhif non sia solo un’eredità culturale da preservare, ma anche un modello utile per affrontare sfide ambientali attuali.
Tuttavia, dietro a questi riconoscimenti ufficiali ci sono le storie di chi vive quotidianamente e faticosamente le paludi. In uno degli ultimi reportage di Al Jazeera sul loro destino, l’attivista Jassim Al-Asadi viene interrotto da un anziano del posto, Abu Abbas, che dice: «Non abbiate paura per le paludi. Sopravvivranno, anche se l’acqua sarà salata, finché ci saranno persone come voi a difenderle» [13]. Non si tratta di una dichiarazione scientifica o di una previsione ottimista, ma di un atto di fede profondo. Per chi abita questi luoghi, resistere è appartenenza, memoria e orgoglio.
Le paludi stanno cambiando, ma chi le abita continua a parlare quella lingua fatta d’acqua e giunchi, e a credere che non tutto sia perduto. Rimane una certezza: le paludi sono ancora lì, e con loro una parte del mondo che rifiuta di scomparire in silenzio.
Dialoghi Mediterranei, n. 74, luglio 2025
Note
[1] Arabian Gulf Digital Archive, sezione Rapporti Tecnici, anni ’50. https://www.agda.ae
[2] OHCHR, Climate change and pollution threaten Iraq’s ancient marshes, novembre 2023, https://www.ohchr.org/en/stories/2023/11/climate-change-pollution-threaten-iraqs-ancient-marshes
[3] France24, “Leave our marshes alone: Iraqis fear oil drilling would destroy fabled wetlands”, 19 maggio 2025.
[4] OHCHR, Climate change and pollution threaten Iraq’s ancient marshes, novembre 2023, https://www.ohchr.org/en/stories/2023/11/climate-change-pollution-threaten-iraqs-ancient-marshes
[5] “The Ahwar of Southern Iraq: Refuge of Biodiversity and the Relict Landscape of the Mesopotamian Cities,” UNESCO World Heritage Centre, 2016, https://whc.unesco.org/en/list/1481
[6] NASA Earth Observatory, Reshaping the Marshes of Iraq, 2005, PDF disponibile online: https://eoimages.gsfc.nasa.gov/images/imagerecords/1000/1716/mesopotamia.pdf
[7] Human Rights Watch, Basra is Thirsty: Iraq’s Failure to Manage the Water Crisis, 22 luglio 2019, https://www.hrw.org/report/2019/07/22/basra-thirsty/iraqs-failure-manage-water-crisis
[8] Al Jazeera, “Photos: Iraq’s Marshes Are Dying — and So Is a Civilization,” 11 dicembre 2023, https://www.aljazeera.com/gallery/2023/12/11/photos-iraqs-marshes-are-dying-and-so-is-a-civilization
[9] BirdLife International, “Ahwar Wetlands: Biodiversity and Conservation Status,” (2019).
[10] Steve Lonergan, Jassim Al-Asadi e Keith Holmes, The Ghosts of Iraq’s Marshes: A History of Conflict, Tragedy, and Restoration (American University in Cairo Press, 2022).
[11] “The ancient reed houses linking Iraqis to the past”, The National, 4 marzo 2022, disponibile su: https://www.thenationalnews.com/weekend/2022/03/04/the-ancient-reed-houses-linking-iraqis-to-the-past/
[12] Traditional craft skills and arts of Al-Mudhif building, UNESCO, Intangible Cultural Heritage, 2023. Disponibile su: https://ich.unesco.org/en/RL/traditional-craft-skills-and-arts-of-al-mudhif-building-01950
[13] Al Jazeera, Don’t be afraid for the marshes: The battle to save Iraq’s waterways, 4 maggio 2024, https://www.aljazeera.com/features/longform/2024/5/4/dont-be-afraid-for-the-marshes-the-battle-to-save-iraqs-waterways
Riferimenti bibliografici
Steve Lonergan, Jassim Al-Asadi e Keith Holmes, The Ghosts of Iraq’s Marshes: A History of Conflict, Tragedy, and Restoration, American University in Cairo Press, 2022;
Gavin Maxwell, A Reed Shaken by the Wind: Travels among the Marsh Arabs of Iraq, Eland, 2004.
Wilfred Thesiger, Quando gli Arabi vivevano sull’acqua, BEAT, 2022
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Paola Laviola, originaria di Lucera, in provincia di Foggia, si è laureata in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Macerata. In seguito, ha conseguito un master in Scienze Storiche presso l’Università Cattolica di Milano e si è laureata cum Laude con la tesi “Donne e Giustizia Penale nella Capitanata dell’Ottocento” basata sull’analisi di documenti giudiziari dell’Archivio di Stato di Lucera. Studiosa di storia e antropologia, ha vissuto in diversi Paesi e ha viaggiato a lungo in Asia, approfondendo la storia e le religioni. Attualmente vive negli Emirati Arabi Uniti.
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