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Un museo tra memoria, scrittura e tessitura

9791280385086di Costantino Cossu 

Sono due i piani lungo i quali si muove L’eredità delle donne di casa Lussu, il libro di Claudia Crabuzza pubblicato da Edizioni Archivi del Sud. Il primo è la storia del museo diffuso dedicato alla cultura materiale della società contadina e insieme alla memoria di Emilio Lussu intorno al quale un’intera comunità si raccoglie e si riconosce; il secondo sono le donne che questo progetto hanno riempito di idee, di passione, di progetti, di speranze e di delusioni. I due piani si intrecciano sullo sfondo di una comunità in cui da una parte la presenza di Lussu e dall’altra il protagonismo femminile sono stati decisivi fattori propulsivi.

Partiamo dalla storia del museo. Comincia tutto nel 1982, quando Linetta Serri, storica sindaca comunista, promuove una prima esposizione di oggetti che quasi subito diventa il museo etnografico “Sa Domu di Is Ainas” (la casa degli attrezzi), tuttora ospitato dall’edificio ottocentesco sede del municipio. Ma già a fine anni Ottanta un gruppo di studiosi cominciano a lavorare  a un progetto più ampio e articolato. A coordinarli è l’antropologa Maria Gabriella Da Re. Intorno a lei, Felice Tiragallo per l’archivio delle immagini e dei suoni, Gian Giacomo Ortu per la storia del territorio, Giovanni Dore per la sezione dedicata alla lavorazione del ferro, Giuseppe Caboni e Luisa Maria Plaisant per la parte fotografica e multimediale. Un primo risultato è l’inaugurazione, nell’autunno del 2000, dei nuovi spazi e della nuova collezione di “Sa Domu di Is Ainas” che, sempre nel palazzo del municipio, raccoglie testimonianze della società contadina insieme a oggetti legati alla pratica artigianale della lavorazione del ferro e alla memoria lussiana, in gran parte raccolta nelle stanze di Casa Lussu.

Casa

Sa Donu di Is Ainas

Nel 2009 la parte relativa a Lussu viene spostata in un altro edificio, la “Casa del segretario”, dimora del XIX secolo appartenuta alla famiglia Dessì, vicino alla chiesa dell’Immacolata. Nello stesso anno a completare il progetto di museo diffuso ci sono “La bottega del fabbro” e il Nuraghe Armungia. La prima occupa, nel centro storico, un edificio in pietra risalente alla prima metà dell’Ottocento e raccoglie gli strumenti di lavoro degli artigiani del ferro del Gerrei. Il Nuraghe di Armungia, invece, collocabile temporalmente nell’età del Bronzo Medio, è una struttura di dieci metri di altezza che domina,  da un rilievo al margine est del paese, l’intero abitato. Nella sede del municipio resta, oggi, solo il museo etnografico, l’originaria “Sa Domu de Is Ainas”.

61epmb9-bgl-_ac_uf10001000_ql80_La genesi di tutto questo è stata tutt’altro che facile. Il progetto veniva realizzato in un momento in cui il dibattito sui musei etnografici era intenso e, a tratti, aspro. Nel corso del tempo e negli anni più recenti, poi, ai termini iniziali del confronto tra studiosi e operatori culturali nei territori si è aggiunto un elemento ulteriore di complessità, legato specificamente alla questione di genere. «La connotazione del materiale raccolto inizialmente ad Armungia – rileva Claudia Crabuzza  – era per lo più attinente al mondo femminile» e le donne hanno un ruolo decisivo nella realizzazione del museo diffuso. Ma questo non basta a risolvere il problema.  Crabuzza richiama lo studio Femminism ad museum (2018), in cui la ricercatrice Jenna C. Ashton, docente di Art History and Cultural Practices,  esplora le sfide affrontate dalle donne, a livello globale, nel mondo dei musei e dell’arte. «Ashton – scrive Crabuzza – ha raccolto oltre trecento contributi incentrati sull’attività curatoriale nel mondo dell’arte, mettendo in evidenza il malcontento del mondo femminile, alle prese con bassa retribuzione, rare occasioni di crescita, scarsità di contenuti incentrati sulla storia delle donne o realizzati da donne».

Per andare alle radici della questione, Crabuzza si rifà poi a un testo del 2021 pubblicato da Elke Krasny, Sophie Lingg e Lena Fritsh con il titolo Radicalizing Care, Femminist e and Queer Activism in Curating. «Con la globalizzazione e il neoliberismo – argomentano le tre autrici –  nel campo dell’arte il curatore è stato promosso a eroe mobile e flessibile che incarna il nuovo spirito del capitalismo». Un modello che promuove paradigmi in cui il dislivello di potere prodotto in origine dai valori patriarcali appare evidente e ancora largamente discriminante nei confronti delle donne. E ciò che vale per il lavoro curatoriale, vale anche per la gestione dei musei.

«Quella delle donne – scrive ancora Crabuzza – è una storia da sempre segnata da invisibilità e che invece ha molto da restituire alle comunità e si adatterebbe perfettamente alla necessità di trasformazione dei musei, specie di quelli etnografici, in direzione di una maggiore partecipazione e costruzione di reti». In particolare, andrebbe verificata la possibilità di  un approccio “correttivo” che consenta di «aggiungere alla rappresentazione del patrimonio culturale esperienze e visioni femminili».  «Sebbene siano una forma di intervento non radicale – nota Crabuzza – la storiografia femminista dimostra quanto atti di questo tipo siano capaci di mettere in discussione i parametri di scelta che determinano inclusioni ed esclusioni». È. allora lecito chiedersi se nelle strutture create ad Armungia possano essere rese manifeste anche le rappresentazioni delle esperienze delle tante donne che hanno contribuito alla creazione del museo diffuso: la sindaca Serri, la storica maestra Usala e le sue alunne, la coordinatrice del progetto museale Gabriela Da Re, le numerose donatrici di oggetti da catalogare e da esporre. «Potrebbero oggi, a distanza di quasi quarant’anni dall’inizio della storia museale di Armungia, diventare esse stesse –  si chiede Crabuzza – patrimonio da raccontare all’interno degli stessi musei?».

Casa Lussu, al telaio

Casa Lussu, Barbara al telaio

L’autrice cerca risposta sollecitando valutazioni di diversi studiosi. Sandra Ferracuti (Università Roma La Sapienza) sostiene che la richiesta di riequilibrio è giusta «perché nei musei, dietro le quinte, le donne sono sempre state fondamentali, come nel caso di Armungia», aggiungendo però che per lei si tratta più di un problema politico che di rappresentazione. Pietro Clemente (Università di Siena) dubita che un approccio solo correttivo possa essere sufficiente. Per avere effetti la questione dovrebbe essere posta come centrale nel discorso comunicativo. «Per Clemente – scrive Crabuzza –  funzionerebbe se fosse un’azione eclatante, esito di una radicale trasformazione nei contenuti e nella comunicazione: Armungia come campione di una nuova dimensione femminile nei musei, dai nuraghi al mondo contadino alle guerre». «Non credo che succederà – dice Clemente – ma mi piacerebbe». Certo, se ci fosse ancora Joyce Lussu si potrebbe provare: lei saprebbe scacciare i maschi dal tempio. «Il suo approccio prima emancipazionista e poi femminista sui generis – specifica Clemente – era poderoso».

Nella seconda parte del libro dalla ricostruzione delle vicende del polo museale Crabuzza passa alla ricostruzione del rapporto tra due donne che hanno avuto un ruolo fondamentale nella storia recente di Casa Lussu: Joyce Lussu, la signora delle antiche mura, e Giovanna Serri, la custode della memoria. Crabuzza  riannoda i fili di un rapporto che è stato molto intenso. Armungia e la dimora dei Lussu non sono stati per Joyce luoghi qualsiasi. Nel Gerrei del secondo dopoguerra la giovane donna marchigiana di estrazione borghese compie un’esperienza formativa importante. «Avevo ricevuto – scrive Joyce nel memoir L’olivastro e l’innesto – una formazione eurocentrica e sottilmente colonialista, che misi in questione quando conobbi la Sardegna e dalla Sardegna allargai i miei interessi a tutto il mondo, alle sue rivoluzioni». E se per seguire i nuovi interessi Joyce lascia il Gerrei, la casa di Armungia resta una sorta di baricentro sentimentale. A custodire oggetti e memorie resta per decenni un’altra donna, Giovanna Serri. A lei, morta nel 2021, e a suo marito (che però, malato, poco potrà fare) viene affidato il compito di gestire ogni cosa. Nel 1946 Giovanna si trasferisce a Casa Lussu. Un contratto di mezzadria affida a lei e al marito il governo della dimora, degli animali e delle piccole proprietà terriere che Lussu recupera dopo i sequestri fascisti.

Sono tanti i nodi che hanno tenuto legate due donne come Joyce e Giovanna per tanti aspetti diverse, nota Crabuzza. «Per trovare una prima connessione si può partire dal tema dell’incontro tra scrittura e tessitura, arte quest’ultima alla quale Giovanna si dedica restaurando l’antico telaio dei Lussu, introducendo nelle tecniche tradizionali importanti innovazioni e dando vita a una vera e propria scuola che coinvolge le donne di Armungia». A sottolineare la pregnanza del rapporto tra scrittura e tessitura Crabuzza chiama Pietro Clemente, che da antropologo ricorda all’autrice del libro come ci sia tra le due dimensioni un rapporto forte: «Basta dire che il romanzo ha una trama e che ordire è una delle principali attività della mente. Ordito e trama erano per Alberto Mario Cirese, e lo sono certo ancora, le basi storiche remote del passaggio ai macchinismi elementari fino alla scrittura digitale». «A unire Joyce e Giovanna  – rileva  opportunamente Crabuzza – era poi anche una sensibilità profonda sui temi della natura e della spiritualità.  Joyce era immersa in una spiritualità pagana che aveva approfondito indagando la storia più remota delle Marche e che aveva poi ritrovato, forse ancora più evidente, in Sardegna». «Per Joyce e per Giovanna natura e vita umana – evidenzia ancora Crabuzza – procedono sullo stesso piano, fanno parte dello stesso universo divino, senza distinzioni».

Casa Lussu, Tommaso

Casa Lussu, Tommaso Lussu con Dal Molin

L’ultima parte del libro di Crabuzza è dedicata alla “nuova generazione”, cioè a chi è venuto dopo Joyce e dopo Giovanna nell’opera di cura di Casa Lussu. Ed è davvero singolare che il dopo sia nelle mani di un uomo e di una donna che con Joyce e con Giovanna hanno avuto rapporti strettissimi. Sono Tommaso Lussu e Barbara Cardia. Tommaso (nato nel 1973) è figlio di Giovanni, unico figlio di Emilio e di Joyce. Per Barbara (nata nel 1974) Giovanna Serri e stata una nonna materna sempre molto presente nell’infanzia e nell’adolescenza. Lui stava a Roma, lei a Cagliari, ma si vedevano e si frequentavano ad Armungia in estate per le vacanze. Oggi stanno insieme. Nel 2014 con alcuni amici hanno dato vita all’Associazione Casa Lussu, focalizzando la loro attività sulla tessitura e sulla cultura tessile. «La didattica di Barbara e Tommaso – scrive Crabuzza  – è basata sulla condivisione dell’intera conoscenza e non solo sulla parte operativa». «Non abbiamo – dicono Barbara e Tommaso, attività a livello esperienziale. Non ci interessa rinforzare i miti della tessitura femminile delle Janas, le fate tessitrici. Abbiamo individuato delle attività che ti fanno entrare dentro il concetto e la pratica della tessitura. Questo è l’unico modo per portare avanti la pratica artigiana: che siano allievi sardi o di qualsiasi altro luogo saranno in grado di comprare il loro piccolo telaio e di lavorarci autonomamente. Molte persone si approcciano alla tessitura in maniera terapeutica; la capacità di progettare e poi fare con le proprie mani un oggetto che prima non c’era è appagante. Niente di magico e di mistico, però, se non ciò che il fare a mano crea dentro di te».

Oggi oltre alla scuola di tessitura una parte di Casa Lussu ospita una piccola struttura ricettiva per viaggiatori e per turisti. Una scelta non facile, che  Barbara e Tommaso hanno fatto per sottrarre l’attività di cura della dimora dei Lussu a logiche puramente museali e per inserire, invece, l’opera di custodia della memoria nel tessuto vivo dell’economia di Armungia. A guidare Barbara e Tommaso sono state le indicazioni teoriche e pratiche contenute nella Convenzione di Faro, trattato del Consiglio d’Europa sottoscritto da tutti i Paesi Ue nel 2005. «La Convenzione di Faro – si legge nella presentazione del testo redatta dal Consiglio d’Europa – sottolinea gli aspetti importanti del patrimonio culturale in relazione ai diritti umani e alla democrazia. Promuove una comprensione più ampia del patrimonio culturale e della sua relazione con le comunità e la società. La Convenzione incoraggia a riconoscere che gli oggetti e i luoghi non sono, di per sé, ciò che è importante del patrimonio culturale. Essi sono importanti per i significati e gli usi che le persone attribuiscono loro e per i valori che rappresentano».

L’idea di Barbara e di Tommaso è quella di mettere in relazione l’esperienza di Casa Lussu così come loro l’hanno progettata con le strutture museali di Armungia. Lo strumento potrebbe essere una Fondazione che metta insieme il livello pubblico con quello privato. Un’operazione che potrebbe consentire di dare al passato, insieme, capacità di incidere sul presente e proiezione futura. 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
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Costantino Cossu, giornalista, ha studiato a Sassari al Liceo Azuni e a Urbino alla Scuola di giornalismo e alla facoltà di Sociologia dell’Università “Carlo Bo”. Dal 1993 al marzo del 2022 ha curato le pagine di Cultura del quotidiano La Nuova Sardegna. Dal 2004 collabora con il quotidiano Il Manifesto. Ha collaborato con il settimanale Diario diretto da Enrico Deaglio e con la rivista Lo Straniero diretta da Goffredo Fofi e collabora con le riviste Gli Asini e Doppiozero. È stato docente a contratto nel corso di laurea in Scienze della comunicazione dell’Università di Sassari. Per la casa editrice Cuec ha curato il libro Sardegna, la fine dell’innocenza; e per le Edizioni degli Asini il libro Gramsci serve ancora?

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