di Amelio Pezzetta
Introduzione
Il presente lavoro documenta le tradizioni connesse al Carnevale, le sue trasformazioni e innovazioni nel tempo Quanto riportato in questa sede è l’esito d’interviste, la consultazione di materiale bibliografico e l’approfondimento sul Carnevale di Lama dei Peligni di un lavoro già pubblicato in precedenza (Pezzetta 2014). La località in considerazione è un Comune abruzzese della Provincia di Chieti situata nella valle del fiume Aventino e alle pendici sud-orientali del massiccio della Maiella. La sua popolazione dopo aver raggiunto il valore massimo di 3958 individui nel 1921 si è progressivamente ridotta e al termine del 2024 ha superato di poco 1000 unità.
Per quanto riguarda l’economia, la maggioranza della forza-lavoro sino agli inizi degli anni 60 del secolo scorso era occupata nell’agricoltura, generalmente praticata su terreni frammentati e spesso molto distanti tra loro. Ora tale attività è esercitata solo da alcuni pensionati e altri lavoratori durante il tempo libero. La forza lavoro locale, invece, trova occupazione nell’industria, nei servizi, nella pubblica amministrazione, nel commercio e nell’artigianato. Al decremento demografico, ai cambiamenti dei modelli occupazionali e all’influenza dei mezzi di comunicazione di massa si sono accompagnate varie trasformazioni culturali che hanno investito il modo di festeggiare il Carnevale ed esse saranno oggetto di trattazione nel prosieguo di questo lavoro.
Il Carnevale è una festa mobile che precede la Quaresima, cade tra febbraio a marzo e in generale prevede varie manifestazioni popolari tra cui sfilate di carri allegorici, giochi di strada, mascheramenti, scherzi e altri intrattenimenti popolari. Il periodo è compreso tra l’Epifania e la Quaresima, ma sviluppa la sua massima espressività nei giorni compresi tra giovedì e martedì grasso. In alcune località peninsulari la festa continua anche nella giornata successiva con il funerale di Re Carnevale.
Su tale festa e le sue origini esistono innumerevoli studi e pubblicazioni. In questa sede si prenderanno in considerazione alcuni che hanno sostenuto tesi utili per l’analisi e la comprensione delle vicende che saranno analizzate.
Il Carnevale deriverebbe da “carnem levare”, ossia togliere la carne; tale termine si utilizzava per indicare l’abbondante pranzo di martedì grasso a cui seguivano l’astinenza e il digiuno quaresimale. Nella festa carnevalesca sarebbero state trasferite varie consuetudini e tradizioni tipiche dell’epoca classica tra cui quelle dei Saturnali, Baccanali, Lupercali, Floralia e Parentalia.
Nel Medioevo e l’Età Moderna, durante questo periodo si accettavano e rendevano leciti alcuni disordini giovanili, stravaganze varie, baldorie e altre manifestazioni che contrastavano con la morale pubblica e l’ordine dominante. Nel Regno delle due Sicilie, durante la Restaurazione, tali manifestazioni furono oggetto di vigilanza da parte delle autorità civili e di polizia affinché non alimentassero il disordine pubblico e le aspirazioni a trasformazioni politico-rivoluzionarie.
Dalla consultazione di varie pubblicazioni è emerso che gli studiosi hanno attribuito diversi significati al Carnevale, alle sue origini e alle sue funzioni socio-culturali. Stoppa ha scritto: «Dal punto di vista antropologico il Carnevale è un rituale di transizione, trasformazione, rovesciamento delle parti e successivo ripristino dell’ordine naturale» [1]. Brugnoli osserva che «il carnevale è definibile come la stratificazione di rituali extra-liturgici e di manifestazioni popolari a latere di tipo processionale, nel vacuum liturgico che va dal termine del Tempo dell’Avvento all’inizio del Tempo di Quaresima. Questa stratificazione ebbe inizio, probabilmente, già nelle comunità cristiane del Tardo-antico e recupera all’origine, inevitabilmente, alcuni caratteri di manifestazioni pagane analoghe» [2]. Nicoloso Ciceri a sua volta ha fatto presente che: «Nel Carnevale sono riunite feste anticamente separate: in esso si riassorbono e i miti primordiali e il millenarismo, si richiamano i tempi delle origini e si anticipa il tempo-fine in cui non occorrerà conservare provviste, razionare il cibo, sottostare a norme, rispettare gerarchie» [3]. E in un altro saggio, ha aggiunto che il Carnevale è: «una pausa sospensiva in corrispondenza del solstizio che crea un non tempo-non luogo, un periodo sabbatico (mangiare senza lavorare!) che poiché antieconomico, contesta ogni norma del quotidiano e riconferma le spinte della natura contro gli equilibri della cultura, con conseguente scatto contro tabù sociali, sessuali e alimentari» [4]. Sanga annota: «Il Carnevale svolge la funzione di riscatto periodico proprio di riti primordiali che ripetono simbolicamente un atto primordiale: la trasformazione del caos in cosmo mediante l’atto di creazione» [5]. E secondo Lia Giancristofaro: «La festa di Carnevale, con i suoi riti di rappresentazione, mascherata, di allegria forsennata e di espulsione della stagione invernale, evoca il passaggio dal caos all’ordine naturale della bella stagione di cui, dopo la Quaresima, la Pasqua rappresenta il compimento» [6].
Altri studiosi, rilevano che nel Carnevale sono confluiti diversi riti propiziatori d’origine pagana ispirati al bisogno di rinnovarsi mediante l’espulsione del male ed elementi derivati dagli influssi culturali dei periodi storici successivi.
In generale si tende a sottolineare che nelle antiche comunità agro-pastorali il Carnevale rappresentava: 1) un periodo di rinnovamento simbolico dell’ordine costituito che riemergeva sino alla ricorrenza dell’anno successivo; 2) un regno utopico di breve durata caratterizzato dal rovesciamento dei valori, la libertà, l’uguaglianza e l’abbondanza.
I detti, i proverbi, i piatti tipici e il mascheramento nelle tradizioni carnevalesche di Lama dei Peligni
A Lama dei Peligni sono stati raccolti diversi detti e proverbi riguardanti il Carnevale. Uno di essi molto generalizzato e comune in tutta l’Italia afferma: “Carnevale ogni scherzo vale”. Questo detto riflette lo spirito di libera spensieratezza tipica di questa ricorrenza festiva e dimostra che durante la sua ricorrenza festiva sono accettabili comportamenti e atteggiamenti licenziosi che non sono esprimibili nel resto dell’anno purché rispettino i limiti posti dalle norme di legge.
Il secondo detto è tipico del luogo, è espresso in dialetto ed afferma: “Abballe abballe cumbare ca massere è Carnevale. Dumane è le cenere e ne n’ ze po jie cchiù abballà!” [7]. In questo caso con tale espressione s’invita a divertirsi e spassarsela durante il martedì grasso poiché non era concesso di farlo nel giorno successivo. Un altro detto afferma: “A Carnevale a da magnà nove volte”, a voler dire che nel giorno di Carnevale bisogna mangiare molto, poiché a tale ricorrenza segue il periodo di digiuno quaresimale.
Un altro importante elemento del carnevale non solo lamese è il mascheramento che consiste nel coprirsi il viso con una maschera oppure nel travestirsi indossando capi d’abbigliamento completamente diversi da quelli della quotidianità. Il modo di mascherarsi a Lama dei Peligni, nel corso del tempo è notevolmente cambiato. Al mascheramento carnevalesco sono associabili vari significati e simbolismi. Il nascondersi il viso con una maschera, il travestimento e l’assunzione di altri ruoli sono in tutta evidenza segni manifesti della volontà di evadere, di uscire da sé stessi, lasciarsi trascinare da aspirazioni irrealizzabili ed essere parte di un mondo effimero, astorico e alla rovescia ove vige l’assenza di regole, la spensieratezza, l’allegria, la maggiore disponibilità di beni e la possibilità di vivere sensazioni ed emozioni diverse dalla quotidianità.
Attraverso il mascheramento carnevalesco, si annullano le differenze di status, sesso ed età e si realizza un’uguaglianza effimera e momentanea poiché non si distinguono i maschi dalle femmine e i ricchi dai poveri. Le maschere rimandano anche ad antichi rituali religiosi e culti pagani; simboleggiano gli spiriti che nelle comunità agro-pastorali bisognava allontanare poiché potevano compromettere il ciclo agrario ed il raccolto.
Oltre al mascheramento, un altro importante aspetto delle tradizioni lamesi (e non solo) è costituito dal regime alimentare. Durante tale ricorrenza vige la trasgressione e l’abbandono di regole limitative dei consumi. A Lama dei Peligni è consuetudine consumare molta carne di maiale e dei suoi derivati tra cui salsicce e salami poiché simboli di abbondanza e di trasgressione. Un detto locale afferma: “A carnevale se magne le maccarune nghe l’ove e la frittate”, ovvero una tipica pietanza del periodo considerato [8]. Un altro tipico pasto del Carnevale di Lama dei Peligni è il cosiddetto pranzo delle nove cose che un tempo si consumava nella giornata di martedì grasso e non tutti potevano permettersi a causa delle ristrettezze economiche, oppure era interpretato a modo proprio. Era un atto di grande libagione prima del periodo di digiuno quaresimale e di solito comprendeva le seguenti pietanze: pasta all’uovo fatta in casa, frittata con salsiccia, carne di capretto, vitello arrosto, la cicerchiata, frutta e vino spesso oltre i limiti.
Il pranzo delle nove cose simboleggiava l’abbondanza, esorcizzava il negativo e si contrapponeva alle ristrettezze alimentari quaresimali ma anche alla routine quotidiana dei tempi passati. Comprendeva la cicerchiata, un tradizionale dolce carnevalizio abruzzese che si ottiene preparando prima una sfoglia con farina, uova, zucchero, olio e acqua. In seguito dalla lavorazione della sfoglia si ottengono piccole sferette di circa un cm di diametro che si mettono a friggere in una padella. Quando le palline hanno assunto un colore rosato, si tolgono dalla padella, si compongono in un piatto a forma di ciambellone e sopra di esse si versa miele preriscaldato e molto fluido. Quando il miele si raffredda, tiene unite le sferette e il dolce può essere consumato.
A questa prelibatezza regionale si associano i seguenti significati simbolici: 1) le sferette si assimilano ai semi delle piante e alla loro capacità di generare una nuova vita; 2) alla forma circolare si associa il principio-fine del ciclo temporale che scorre e si rinnova. Alla luce di questi particolari significati simbolici, si può dire che il consumo della cicerchiata ha finalità propiziatorie di rinnovamento e lunga vita.
Il Carnevale lamese durante il XVIII e il XIX secolo
Sul Carnevale lamese di tale periodo storico si dispongono solo di poche e scarne notizie che saranno integrate con altre di carattere generale. Durante il XVIII secolo, nel Regno di Napoli la celebrazione del Carnevale ebbe un notevole impulso al fine di: contrapporlo con la sua immagine di abbondanza alimentare e libertà all’austerità quaresimale; affermare l’indipendenza dello Stato rispetto alla Chiesa e al papato; dare visibilità al processo di accentramento statale in corso [9]. Alla luce di questa tesi è da supporre che anche nella località in esame, nel corso del secolo le celebrazioni carnevalesche crebbero d’intensità.
Le ricerche effettuate hanno portato ad accertare che a Lama dei Peligni, nell’epoca in considerazione, la ricorrenza carnevalesca segnava la scadenza di particolari consuetudini contrattuali e alimentari. Infatti, da alcuni contratti d’affitto del macello comunale di fine XVIII e inizio XIX secolo è emerso quanto segue: 1) dal 13 novembre 1788 alla festa di Carnevale s’imponeva la vendita di carne di maiale e baccalà; 2) nel 1789 il giorno di martedì grasso rappresentò il termine di scadenza del contratto d’affitto; 3) nel 1809 l’affittuario nelle tre giornate che precedevano il Carnevale poteva aumentare i prezzi di vendita della carne [10].
Questi fatti dimostrano che nell’epoca in considerazione, ufficialmente la ricorrenza carnevalesca regolava il regime alimentare e segnava dei limiti per alcuni consumi. Inoltre il fatto che era consentito di aumentare i prezzi durante gli ultimi tre giorni di Carnevale potrebbe dimostrare che l’avvenimento si festeggiava abbandonandosi a maggiori libagioni e, di conseguenza le autorità locali imposero dei calmieri ai prezzi praticabili dai venditori di carne.
Nel 1831 l’Intendente Provinciale emanò un’ordinanza in cui prescrisse che durante le festività carnevalesche nella città di Chieti nessuno poteva portare armi e mascherarsi in modo da non essere riconoscibile. È ipotizzabile che a causa della particolare situazione politica dell’epoca caratterizzata dalla Restaurazione e la repressione dei movimenti carbonari antiborbonici, nel resto della Provincia valessero disposizioni simili e quindi il mascheramento era soggetto a limiti di legge.
Il Carnevale del XX secolo sino agli inizi del Secondo conflitto mondiale
Nel corso del XX secolo il Carnevale era un’importante ricorrenza del calendario festivo annuale che la comunità lamese aveva adottato e di conseguenza si celebrava con una certa magnificenza.
Nell’epoca in considerazione, a Lama dei Peligni il giorno più importante del periodo carnevalesco era il martedì grasso in cui dalle prime ore di luce sino allo scadere della mezzanotte era un susseguirsi di giochi, divertimenti e mascherate che coinvolgevano in un modo o nell’altro l’intera collettività. In queste manifestazioni, generalmente la partecipazione attiva delle donne era molto limitata. Vi assistevano passivamente e talvolta assumevano qualche ruolo pubblico di partner dei loro compagni. La loro partecipazione attiva agli eventi proposti si svolgeva soprattutto tra le mura domestiche ove preparavano i cibi tradizionali, le maschere e aiutavano i loro uomini nell’organizzazione delle mascherate allegoriche.
Circa 90-100 anni fa, durante la mattina del martedì grasso, i rappresentanti locali della nobiltà e della borghesia agraria, insieme ad alcuni artigiani e contadini più benestanti, s’impegnarono in allegorici combattimenti in cui si lanciavano piccole monete, confetti, caramelle, torroni e agrumi. Il tutto per la gioia dei bambini che correvano da una parte all’altra per raccogliere ciò che restava. Non è dato di saper quante volte fu rispettato questo rituale né quando ebbe termine.
Queste finte battaglie avevano finalità propiziatorie di buoni auspici. Infatti, durante la loro esecuzione si celebravano l’abbondanza e lo spreco e, simbolicamente, si espelleva il male, ovvero i disagi esistenziali causati dalle malattie, le ristrettezze economiche, la carestia e la fame, fatti che all’epoca erano abbastanza frequenti. Questo rituale ha i suoi antecedenti storici nei carri della Cuccagna, una manifestazione che nel Regno di Napoli fu inventata durante il XVII secolo. In questo caso i carri si caricavano con prodotti alimentari e la popolazione li assaliva al fine di appropriarsene.
Tornando a Lama, durante le prime ore di pomeriggio degli anni 30, i ragazzi si vestivano a maschera e giravano per le vie del paese abbandonandosi a canti, scherzi e giochi vari. Gli adulti, invece, indossavano abiti tradizionali e partecipavano alle mascherate, allegre manifestazioni organizzate in paese sino agli inizi degli anni 50 con cui la comunità rappresentava sé stessa in chiave allegorica e umoristica. Di solito erano costituite da vari carri allegorici che partivano da un piazzale situato presso un monastero francescano e raggiungevano la Piazza del Municipio situata al centro del paese. Alcuni temi delle mascherate organizzate dagli anni 30 ai 50 furono: le quattro stagioni, i dodici mesi, la guerra di Tripoli, Bacco in Abruzzo, gli allegri mestieranti, l’Ospedale dei Rovinati, la banda, Il re del Portogallo e la sposa. Purtroppo alcune di esse (la guerra di Tripoli e la banda) non si sa come e quando furono organizzate poiché i loro testi si sono persi e ora non ci sono persone viventi che li ricordano.
In ogni mascherata si allestivano fantasiosi carri allegorici trascinati da buoi, asini o cavalli, spesso accompagnati da un’allegra banda organizzata alla buona con qualche tromba, fisarmonica, chitarre, mandolini, tamburi e altri strumenti musicali. Di solito su ogni carro c’era sempre un uomo che intonava un canto che descriveva alcune peculiarità del particolare soggetto che personificava. Tali manifestazioni iniziavano il pomeriggio attorno alle quindici ed erano annunciate da una persona accompagnata da un suonatore di tromba e uno di tamburo che girava per le vie del paese. In una sua poesia, Antonio del Pizzo scrisse che esse erano annunciate da “Pajacce e pulginelle… seguite da ‘na trombe e nu tamurre… Dope nu rulle de lu tamurrare lu trumbettiere, n’gime nu banchitte deve l’attende e cumejeve a dire: Fate attinzione, ca la mascarate ‘nghe bande deste de ferzore e coppe, sulenne culturate e fracassose, già cale abballe pè la Basulate” [11].
La prima mascherata allegorica di cui si è a conoscenza si svolse nel 1934 ed era denominata “Le quattro stagioni”. Probabilmente l’anno successivo si svolse quella dei mesi dell’anno. Le due rappresentazioni, ancora oggi si continuano ad organizzare in vari Comuni abruzzesi, molisani, campani e di altre regioni centro-meridionali. Si possono considerare riti propiziatori in cui si rappresentano e personificano le stagioni e i mesi dell’anno, evidenziando le caratteristiche legate alla cultura e all’economia locale per quel che riguarda le condizioni climatiche, il lavoro, i prodotti agricoli e l’attività domestica.
La mascherata lamese delle quattro stagioni era costituita da vari carri allegorici sui quali c’era sempre un uomo che intonava canti con testi che inneggiavano alle caratteristiche delle stagioni, descrivevano l’avvicendarsi del lavoro nei campi che si dovevano fare in ognuna di esse ed auspicavano la speranza di un abbondante raccolto.
La mascherata iniziava con un carro sul quale c’era un uomo che rappresentava l’anno intero, aveva un aspetto austero, era coperto da un manto celeste trapunto di stelle e cantava: “Mi presento a voi signori con riverenza / perché vedo una gentile udienza. / Il mio saluto a tutti quanti e proseguo andare avanti. / Come voi vedete l’anno io sono / ecco i miei figli che mi fanno corona. / Vien prima la primavera che è la mia stella / l’estate tutto mi ridesta / l’autunno mi tiene sempre in festa. / L’inverno accanto al fuoco mi chiama / per dimostrarmi che più di tutti mi ama. / Chi parla di freddo chi di caldo / chi di fiori, chi di frutta / e tra freddo, fiori e frutta / essi formano l’anno tutto” [12].
Il carro dell’anno intero era seguito da quello della primavera sul quale un uomo intonava il seguente canto: “Io son la primavera e son piena di rose e fiori / Al mio apparir si ridesta ogni cosa. / è già fiorito il mandorlo sotto il raggio del sole / spuntano in mezzo al prato le timide viole / a lavorar la terra ritorna il contadino / e all’opera si pone al sorger del mattino. / Ecco la primavera tanto desiderata / la dolce primavera con i fiori è ritornata. / Io son la primavera e son piena di odori e fiori / si risveglia il mondo intero, / si ridestan tutti i cuori. / Dalle mammole viole / il profumo arriva al cuor” [13].
In seguito c’era il carro dell’estate nel quale un uomo cantava: “Io son l’estate, uffa che caldo sento / conviene stare al fresco per vivere contento. / La lucertola verde striscia tra terra e terra / Anch’io son piena di fiori e frutta ancora / che il sol tiene mostra a tutte le ore / e la spiga maturata che si miete con sudor. / Tra piani, prati e monti / e di or tutt’è una trama / Rispettate questa pianta / che il pane a noi ci manda” [14].
Il carro dell’estate era seguito da quello dell’autunno sul quale c’era anche in questo caso un uomo che cantava: “Io sono l’autunno / lavoro con grande stento / prendo caldo freddo e vento / dopo tanto concimare / il raccolto va ad abbondare” [15]. Il carro successivo, quello dell’inverno, vedeva un uomo intonare il seguente canto: “Io che sono l’inverno / che dal freddo mi ribello / e la neve allarga i fiocchi / sopra tutte le contrade” [16].
Sulla mascherata dei 12 mesi sono state raccolte solo poche scarne notizie. Si può sostanzialmente dire che questa rappresentazione ricordava la produzione e il lavoro da svolgere nei campi in ogni mese dell’anno e quindi era una specie di rassegna riepilogativa espressa in forma allegorica e umoristica. In questo caso 12 persone attraverso i canti, il particolare abbigliamento indossato e gli oggetti che trasportavano, evidenziavano qualche attributo del mese che personificavano. Il mese di febbraio era per esempio rappresentato da un individuo minuto e di bassa statura che cantava: “Io sono febbraio / Sono corto …” [17].
L’anno successivo il tema della mascherata allegorica fu “Bacco in Abruzzo”. In questo caso fu simulato un atto mitologico calato nella realtà locale. Questa scelta trova le sue motivazioni nel clima culturale dell’epoca che enfatizzava la romanità con tutte le sue tradizioni. La sfilata iniziò con un carro trainato da buoi e adornato con foglie d’uva. Trasportava una grande botte che ogni tanto si apriva e faceva la sua comparsa Bacco con barba lunga, grandi baffi, un camice bianco e a fianco due bambini a mò di angioletti. Ai due lati del carro c’erano diverse persone vestite da contadini che portavano bottiglie contenenti bevande alcoliche, bicchieri, piccole botti e arnesi per produrre il vino e lavorar le vigne. Ogni tanto l’allegro gruppetto inneggiava alla divinità pagana con il seguente canto: “Oh gran Dio dell’Olimpo / discendete in mezzo a noi / per il nostro buon umore / ogni fonte d’acqua pura / in spumante tramutate”. Dopo alcune invocazioni dei presenti, la botte si apriva e usciva Bacco che a sua volta cantava: “Se tutte rigogliose le vigne volete / dovete ben zappar la terra e coltivar / Allora gran protezione avrete / se la mia legge austera saprete rispettar” [18]. In seguito le persone che circondavano il carro rispondevano in coro: Noi ringraziamo Bacco. / Con la sua compagnia / vogliamo l’allegria /che sempre durerà. / Viva Bacco e viva l’amore / con la gioia in fondo al cuore [19].
Sul carro successivo c’era un’altra botte con grossi finestroni che si aprivano e ogni tanto facevano la comparsa tre contadini che cantando chiedevano a Bacco consigli su come coltivare le vigne. A tali richieste, la divinità pagana cantando, rispondeva che bisognava zappare la terra, potare le piante e spargere il solfato di rame per combattere i parassiti.
Durante la serata fu organizzata la processione di Re Carnevale morto. A tal proposito Caprara ha scritto che si costruiva una finta bara sulla quale si trasportava un fantoccio rappresentante il fantomatico re [20]. Davanti alla bara c’erano: un uomo che aveva un cuscino dietro la nuca, il viso ricoperto di farina e, in bocca, la metà di una patata colorata di nero; un altro soggetto vestito da prete che ogni tanto con un pennello da imbianchino fingeva di impartire benedizioni alla bara e ai presenti. Altri partecipanti portavano lumi, fiaccole e gridavano: “Carnevale perché sei morto / pane e vino non ti mancava / l’insalata era nell’orto / Carnevale perché sei morto” [21].
L’anno successivo il tema della mascherata fu “Gli allegri mestieranti”. In questo caso, attraverso il lavoro quotidiano che diventava uno spettacolo ironico, si tracciò l’autoritratto della comunità. Su ogni carro allegorico c’era un soggetto mascherato che descriveva e decantava le virtù della propria professione. In particolare su un carro tirato da buoi era un uomo che rappresentava il calzolaio con tutti gli arnesi del mestiere e una donna che fingeva di essere sua moglie. Mentre il carro era tirato per le vie del paese, il calzolaio seduto su uno sgabello fingeva di battere un pezzo di cuoio e cantava: “Io di mestiere faccio il calzolaio / le scarpe che faccio son d’acciaio”. La moglie a sua volta cantava: “In verità felice mi sento / questo marito mi fa contenta” [22]. Su un altro carro c’era un finto sarto anche lui con la moglie e gli arnesi del mestiere che a sua volta cantava: “Io faccio il sarto / faccio bene la mia arte / io lavoro con poche lire / e tutti faccio comparire”. Sul terzo carro allegorico c’era un pittore che cantava: “Io faccio il pittore / e petto a tutte le ore / petto chiaro e petto scuro / per far fare buona figura / ma il rosso il bianco e il verde / sono colori che mai si perdono” [23]. Come si può notare, nel testo del canto del pittore ci sono dei riferimenti ai colori della bandiera nazionale, una piccola nota di nazionalismo che, considerati i tempi che correvano, appariva legittimo.
Durante un carnevale del 1935 o 1936 avvenne un fatto singolare. Un uomo fece preparare da sua moglie una tipica pietanza locale, la versò in un vaso da notte e la portò in giro per il paese gridando a squarciagola insieme a un amico: “Quiste è l’albere de la cuccagne a ecche se cache se pisce e se magne” [24]. Questo episodio dimostra che il Carnevale lamese dell’epoca era caratterizzato anche dallo spreco rituale di cibo che, pur contrastando con i valori comunitari, era accettato e non condannato. A tal proposito Lanternari ha scritto: «Lo spreco organizzato nelle feste popolari ha una prima funzione immediata: di produrre un bene sociale in termini di coesione ritualizzata. […] L’altra funzione è quella di annullare e rovesciare, secondo una periodicità ciclica e in termini simbolico-rituali, la negatività e precarietà dell’esistenza ordinaria» [25].
Un’altra importante mascherata fu organizzata nel 1938 in un’aia pubblica della frazione lamese di Corpi Santi che all’epoca contava circa 300 abitanti, mentre ora non supera 50 unità. Essa era intitolata “Gli sposi novelli” e in questo caso i partecipanti (tutti uomini) rappresentavano le vicende di una donna benestante che per trovare un buon marito era disposta a cedere parte dei suoi beni. La manifestazione a cui parteciparono circa 40 persone iniziava con un canto di presentazione intonato dagli uomini vestiti da donna e si concludeva con la celebrazione del rito nuziale [26].
I fatti fin qui riportati dimostrano che la ricorrenza carnevalesca a Lama dei Peligni era caratterizzata da un’ampia partecipazione comunitaria. L’insieme dei riti del Martedì grasso a loro volta rivelano che era di rigore la trasgressione, il rovesciamento dei valori e l’allegra spensieratezza. I temi delle mascherate riproponevano in forma allegorica e ironica, diverse consuetudini accettate e ritenute valide, a dimostrazione che il Carnevale aveva anche una funzione omeostatica. Attraverso le mascherate la comunità lamese rappresentava sé stessa, rafforzava la coesione sociale, rendeva più salde le proprie radici, favoriva i processi di appartenenza e riaffermava la propria identità culturale. Anche Bacco, la divinità del vino, del piacere, del divertimento e della trasgressione, anziché invitare all’evasione, sentenziava che il benessere si raggiungeva con il lavoro e la fatica. In definitiva, a Lama dei Peligni il Carnevale con le mascherate: 1) si legava alla vita quotidiana mettendo in scena il lavoro, lo scorrere del tempo, la precarietà esistenziale e la sofferenza; 2) favoriva il ricompattamento comunitario; 3) valorizzava alcuni modelli culturali locali; 4) alimentava la speranza di un futuro più prospero.
Il Carnevale negli anni del dopoguerra
Nel dopoguerra la popolazione lamese iniziò a ridursi con una certa consistenza a causa dell’emigrazione. Nello stesso tempo le mascherate continuarono ad essere organizzate dai rappresentanti del sesso maschile per alcuni anni, dopodiché‚ insieme con altri riti tipici del Carnevale lamese furono abbandonate completamente.
Nel 1945, l’anno di conclusione della guerra in cui molte famiglie che avevano avuto l’abitazione distrutta erano ospitate temporaneamente in vecchi casolari di campagna, in un monastero, o nel palazzo di un nobile locale, fu organizzata una mascherata che ebbe per titolo “L’Ospedale dei Rovinati”. In forma allegorica si rappresentarono i gravi problemi che la popolazione locale visse durante l’occupazione tedesca del 1943-44 e nell’immediato dopoguerra. Il paese era un ospedale, ossia un luogo lugubre a causa degli edifici distrutti e ospitava i “rovinati”, ovvero gli abitanti locali che al rientro dallo sfollamento trovarono le case rase al suolo dalle mine tedesche e avevano perso tutto quello che possedevano.
Durante la mascherata varie persone indossavano camici bianchi, simulando medici e infermieri intenti a curare i malanni causati dalla guerra. Qualcuno per esprimere la grande fatica necessaria per la ricostruzione utilizzò la seguente metafora espressa in canto: “La barba di Noè / pesa un chilo e trentatré” [27]. Questa mascherata invitava all’allegria nonostante i gravi problemi che ognuno accusava e faceva sperare in un futuro più prospero.
Un’altra mascherata dell’immediato dopoguerra fu organizzata dagli abitanti di alcune frazioni e aveva come titolo “La sposa”, un tema che è stato oggetto di rappresentazioni simili anche in altre regioni tra cui il Friuli-Venezia Giulia. Come è facile intuire la sposa è colei che dà la luce a nuove generazioni e quindi è un simbolo di fertilità e rinnovamento. Anche questa manifestazione aveva pertanto finalità propiziatorie e dimostra la volontà e speranza dei lamesi dell’epoca di voler superare i problemi causati dalle vicende belliche e ritornare quanto prima alle consuetudini quotidiane. Nei vari carri allegorici approntati c’erano alcuni soggetti che attraverso i canti evidenziavano i problemi che incontravano chi si preparava a sposarsi nel contesto delle difficoltà della ricostruzione materiale del paese.
La mascherata iniziava con un carro allegorico sul quale c’era un uomo che con il seguente canto descriveva alcune caratteristiche delle contrade coinvolte nell’organizzazione dell’evento: “C’è una bella contrada / con le luci sulla strada / campi di olivi e di grano / c’è una strada che porta alla Lama / c’è uno spaccio di sali e tabacchi / nonché una radio per gli agricoltor. / Signora cittadina / se vuoi venire con me / ti porto a Fonterossi /e la vedrai com’è. / Laggiù c’è una chiesetta / con tre scalette e il porton / sul colle c’è un casino / che s’apre d’estate / l’intera stagion. / C’è una strada di sassi / che scarpe e scarpine / ti fanno rovinar. / Le nostre contadinelle / son pulite e belle. / Hanno il paltò di coperta / i capelli alla moda e tailleur. / La domenica tutte alla messa / con calze di seta / le vedi arrivar. / Signora cittadina se vuoi venire con me / ti porto alle Vaccarde / e la vedrai com’è. / C’è l’aria del mattino /che ti rinfresca il cuor. / Per chi vuol proseguire / la strada d’inverno / nessuno può passar. / Perché è tutta franata / da quanto è mancata / la manutenzion” [28].
Sul secondo carro c’era un uomo che raccontava come si erano trasformate le relazioni amorose nel paese: “Mammarosse m’accunteve / Ca l’amore a sessante / Se faceve nche le spose / Se smicceve a destanze. / Se faceve e se passeve / serenate cante e suone. / Ma le vasce gioie care / se vedeve nche l’uocchialone. / Ma mò tutte se cagnate / Mò l’amore ne è chiu chelle. / Mò l’amore è chiu belle / Mò ce stà la libertà. / Nche le vasce se cumenze / gna finisce chi lo sa. / E la sere cacche volte / jeve a fa na scappatelle / s’assetteve nche lu spose / e faceve l’untruvuarielle. / Ma tatone juste mmiezze / ogne tante arcunteve / ca na volte n’tiempe antiche / se scuntrentte nche le brigante. / Ma mò tutte se cagnate / Mò l’amore ne è chiu chelle. / Mò l’amore è chiu belle / Mò ce stà la libertà. / Nche le vasce se cumenze / gna finisce chi lo sa. / Mò la mamme l’ha capite / ca pe maretè la fijje /a da cagnà sisteme. / Ja dà allentà la brijje / Va lu spose: permettete. / E si tu si presente / duorme e fa lu pedaline. / Mò tutte se cagnate / Mò l’amore ne è chiu chelle. / Mò l’amore è chiu belle / Mò ce stà la libertà. / Nche le vasce se cumenze / Gna finisce chi lo sa” [29].
Sul terzo carro allegorico c’erano due uomini che fingevano di essere padre e figlio e litigavano poiché non erano d’accordo sul fare o meno il matrimonio. Mentre il carro era trainato per le vie del paese il figlio cantava: “Caro padre un bel pensiero / alla mente mi è venuto / sempre celibe ho vissuto / e perciò mi voglio ammogliar. / [Rit.] Caro vecchio cosa vuoi fare / il tuo Giggetto si vuole sposar. / Per mangiare ogni cosa / colazione, pranzo e cena / non è questa tutta la pena / e perciò mi voglio ammogliar. / [Rit.] Caro vecchio cosa vuoi fare /il tuo Giggetto si vuole sposar. / Per vestire la mia sposina / le fò l’abito alla moda / stretto senza casa / di tre palmi e niente più. / [Rit.] Caro vecchio cosa vuoi fare / il tuo Giggetto si vuole sposar” [30].
Sul quarto carro allegorico un giovanotto fingeva di essere innamorato di una ragazza con il padre che era contrario alle nozze. Mentre il carro era tirato lungo la strada, il giovane innamorato cantava: “Con la fune mi vuole scacciare / e io da sordo torno sempre da te / un bacio e mai più / un bacio e mai più / un altro ancora / e poi nulla più” [31].
Nel 1947 fu organizzata un’altra mascherata intitolata “Il re del Portogallo”. Nel dialetto locale con il termine “portogallo” si indica un tipo di arancio che si doveva acquistare e quindi la possibilità di poterlo comprare stava a significare il raggiungimento un certo benessere. In associazione con questo frutto e i suoi significati simbolici, il re del Portogallo governava un fantasioso e mitico luogo dell’abbondanza. Ad esso s’inneggiava dopo le ristrettezze imposte dall’immediato dopoguerra per rinforzare le speranze in un futuro migliore e dimostrare che alcuni gravi problemi posti dalle vicende belliche erano stati risolti.
La manifestazione, per certi aspetti, era molto simile a quella di Bacco. Infatti, iniziava con un carro allegorico sul quale era posto un grande arancio con una porta che ogni tanto si apriva e faceva la sua comparsa un fantomatico re che cantava: “Come è bello il Portogallo / il bel frutto dell’amore / quando si va per coglierne uno / l’altro dietro se ne va”. Un gruppo di persone che stava vicino al carro replicava: “Viva il re del Portogallo /che scendesti in mezzo a noi / svolgi a noi gli sguardi tuoi / con dolcezza e con calore / una grazia noi vogliamo / in questa oscurità / noi vogliamo sempre quella / noi vogliamo la libertà” [32]. Durante la mascherata, da un palco allestito nella piazza principale del paese si lanciavano arance tra la folla, a dimostrazione che in occasione del Carnevale, nelle tradizioni lamesi persisteva il concetto di spreco rituale, illimitato e propiziatorio.
Nel dopoguerra, lentamente tra la popolazione locale iniziò a diffondersi l’uso della radio che all’epoca era considerato un importante e costoso bene il cui possesso simboleggiava il raggiungimento di un certo benessere. Pertanto in associazione con questa novità e i suoi significati simbolici, nel 1950, il poeta Antonio Del Pizzo organizzò una mascherata in cui attraverso un finto giornale-radio, varie sceneggiate e canti si continuarono a rappresentare in chiave umoristica, vari fatti e momenti di vita paesana.
Dopo un campanilistico discorso introduttivo del poeta posto su un palco improvvisato, iniziò l’allegra sceneggiata con un finto giornale radio che annunciava: “L’orologio del campanile di Lama è il migliore e si ferma tre volte al giorno. Per informazioni rivolgersi al banditore che l’arriffe e j’arraffe li pise ogne matine (ogni mattina gli aggiusta i pesi)”. In seguito il finto giornale radio continuò comunicando quanto segue:
«Il Gran Consiglio dei Ministri presieduto dal duce della democrazia On. le De Gaspare e assistito a debita distanza dall’On. Togliatti vice duce approva uno schema di decreto legge n° 16/69 dove autorizza tutti gli uomini maschi che da oltre tre anni sono alloggiati nel convento dei frati, a indossare la tunica e a cantare la messa. Per senso di umanità vendicativa non gli si concede di portare il cordone. Con altro schema di decreto legge n° 27/77 il Gran Consiglio dei Ministri decreta la reintroduzione totale delle tasse pagate per il celibato a tutti coloro che hanno raggiunto gli anni quaranta e che sono ancora senza moglie purché inizino subito la cura del sangue del toro, si sposino entro l’anno in corso e alla fine del 51 siano padri putativi di almeno quattro figli maschi perché occorrono uomini soldati per riprendere il tira e molla di qual qual» [33].
Questo finto giornale radio pose un velo di umorismo su due fatti locali che contrastavano con i modelli comunitari: diversi uomini maturi, all’epoca non erano ancora sposati; una parte di popolazione non aveva ricostruita la propria abitazione distrutta dai tedeschi in ritirata e continuava ad essere alloggiata nel monastero dei francescani.
Dopo altri canti e suonate, una fantomatica radio diffuse il seguente annuncio: “Attenzione! Attenzione! Parla Radio Monastero. Quel che dice è tutto vero. Radio ascoltatori al di qua e al di là dell’Aventino ascoltate. In questo momento Radio Monastero inizia per voi e per conto dei profughi monisteriali una trasmissione dal titolo in giro per il paese”. All’annuncio seguirono suonate e canti tra cui uno che diceva: “Voglio il formaggio pecorino. Il formaggio pecorino della ditta Cillitto Monastero che è il migliore perché ottimamente affumicato. Provatelo e ve ne convincerete” [34].
L’allegra rappresentazione proseguì con canti e sceneggiate in cui ironicamente si descrissero altri fatti e personaggi locali e si espressero desideri che per molti erano sogni che non si sapeva se e quando si sarebbero concretizzati. Durante l’allegra manifestazione, alla fine di tutti i finti radiogiornali e comunicazioni radio, salirono sul palco due persone tra cui una faceva domande e un’altra che rispondeva. Alcune domande che nell’occasione furono poste e le conseguenti risposte erano le seguenti:
- “Che differenza passa tra un avvocato e un calzolaio?” “Sono tutti e due bugiardi”
- “Che differenza passa tra la moglie, la politica e il caffè?” “Fanno sta nervosi tutti e tre”.
- “Che differenza passa tra uno che è stato colpito dalla miseria e un lebbroso? “Sono tutti e due contagiosi e, allontanati dal paese di solito venivano ricoverati nei conventi”.
Dopo le sfilate dei carri e le varie sceneggiate, in serata la festa continuò con la processione e morte di Re Carnevale. Costui prima di morire fece testamento e lasciò i suoi miseri beni ad amici e parenti. La lettura del testamento fu pubblica ed espressa con il seguente canto recitato da Re Carnevale e da un coro popolare che intonava i ritornelli: “Al mio caro e bel sartore / lascio i miei abiti strappati / in compenso dei viaggi / per venire per venir verso di me. / [Rit.]: Carnevale questo è tempo di tua morte / Ritorna presto da questa parte / per poterci consolar. / Al mio caro barbelotto che tante volte mi ha pelato / io lo voglio ricompensar / se la barba mi vuol far. / [Rit.]. / Mi son rimasti gli occhiali / che mi costan circa quasi / li rilascio ai ficcanasi per potersi sganassar. / [Rit.]. / Diamo l’addio a Carnevale / diamo l’addio tutti in cor. / Carnevale torna ancora / per poterci consolar” [35].
Dopo la lettura del testamento, un uomo vestito di nero e con il viso cosparso di talco e farina così da assumere un aspetto ceruleo, si distese su una bara composta con assi di legno e si portò in processione per le vie del paese. Il burlesco corteo era aperto da un suonatore di tamburo e un finto sacerdote che benediceva la bara con un pennello d’imbianchino. Dietro la bara era posta una folla schiamazzante che fingeva di piangere e chiedeva a Re Carnevale perché era morto. I presenti, tra false lacrime e sorrisi cantavano a squarciagola: “Carnevale pecchè‚ si muorte / la ‘nzalate tenive all’uorte / le salsicce tenive appise / Carnevale puozze essere accise” [36].
Al termine del burlesco corteo funebre, in piazza del Municipio, tra risate e lacrime scherzose, un fantoccio di paglia rappresentante Re Carnevale fu benedetto dal finto sacerdote e poi bruciato.
Come ha insegnato Frazer, nei costumi primaverili dei contadini europei la simulata morte di un essere divino o soprannaturale è una comune caratteristica. Il rogo è sempre un rito di passaggio che simboleggia la fine di un periodo e l’inizio di un altro. Re Carnevale era il capro espiatorio sul quale si scaricava la responsabilità delle trasgressioni alle consuetudini quotidiane e quindi doveva morire poiché la fine della sua vita simboleggiava la fine di un breve periodo di sregolatezza e l’inizio di un altro più favorevole. Nel rogo di Re Carnevale si possono ravvisare anche i residui di un antico culto solare e, in tal senso, esso simboleggerebbe la volontà degli uomini di voler alimentare con fuochi artificiali il pallido sole invernale.
Calato nella particolare realtà della comunità agro-pastorale locale dell’epoca questo rito assumeva i seguenti significati. La morte e il rogo dell’effimero sovrano significava la volontà di porre fine ai capricci della stagione invernale e propiziare un’altra più favorevole. Re Carnevale doveva morire poiché era un personaggio negativo, portatore di valori e modelli culturali antitetici al modo di vivere locale e quindi non doveva lasciar tracce nella comunità. Infatti, in base all’immaginario lamese questo personaggio era il burlesco sovrano di un regno effimero e alla rovescia che doveva essere di breve durata poiché caratterizzato dalla spensieratezza e dall’eccesso dei consumi. Egli era un uomo grasso a cui non piaceva lavorare e, come afferma il seguente canto era molto spensierato, non si preoccupava delle proprie cose e per essere sempre allegro aveva ipotecato il portone della propria abitazione, mentre la moglie per ritorsione aveva ipotecato il proprio seno: “Carnevale scialacquone / s’è ‘mpegnate lu purtuone. / E la mojje pe despiette / S’ è ‘mpegnate le sise ‘mpiette” [37]. Un’altra filastrocca locale su Re Carnevale in gergo e dal significato analogo alla precedente recita: “Carnevale pazze pazze s’ha vennute lu Matarazze e la mojje pe’ despiette s’ha vennute lu reggepette” [38].
Il Carnevale dagli anni 50 alla fine del secolo
A partire dagli anni 50 del secolo scorso, il decremento demografico; la riduzione degli occupati in agricoltura; il raggiungimento di un maggior benessere economico; i cambiamenti culturali provocati dalla maggiore scolarizzazione e i mezzi di comunicazione di massa tra cui la televisione inizialmente acquistata da alcuni locali pubblici e poi piano piano diffusa in ogni casa.
In questo periodo le mascherate cessarono di esistere poiché vennero a mancare le persone che potevano organizzarle e le motivazioni che le legavano al contesto locale. Il rito della morte di Re Carnevale, invece, continuò ad essere organizzato sino alla fine del decennio, talvolta limitato alla sola processione senza il rogo finale in piazza.
Il poeta Antonio Del Pizzo riflettendo sui cambiamenti delle manifestazioni carnevalesche avvenute a Lama dei Peligni negli anni 50, scrisse: “E mò da cirche na vendina d’anne / sarrà pecchè la gende è cchiu ‘struite / sarrà pecchè ce sta lu brode grasse / sta bella tradizione de la Lame / s’è ardotte a ‘na cagnare de quetrele / ‘nghe nu cappucce e ‘nghe na mascherine” [39].
Negli anni 50, come ha evidenziato il poeta, a Lama dei Peligni il Carnevale iniziò la sua trasformazione da festa per gli adulti in quella per l’infanzia. In questo periodo i bambini si travestivano oppure utilizzavano semplici maschere fatte in casa con pezzi di stoffa, elastici, fili e carta. Anche i vestiti carnevaleschi erano fatti in casa utilizzando sacchi, lenzuola, indumenti riciclati, pigiami, materiali a portata di mano, abiti femminili, divise militari, etc. I vari travestimenti si completavano con i seguenti accessori: bastoni di legno, tubi metallici, strumenti musicali veri e finti, fischietti, armi finte e coriandoli che si disperdevano come i semi sui campi. In diversi anni, alcuni bambini e bambine, per travestirsi hanno utilizzato gli abiti inviati dai parenti emigrati negli Stati Uniti che contrastavano con le tradizioni locali.
Di solito in quegli anni i soggetti rappresentati erano pastori, contadini, artigiani locali, finti atleti, soldati, fate incantate, principesse, altri personaggi delle favole, etc. All’epoca si formavano gruppi di ragazzi mascherati, di solito comprendenti non più di quattro soggetti, che giravano di casa in casa e chiedevano di entrare dopo aver detto: “È permesso a Carnevale”. Se la richiesta veniva accolta, essi entravano, cantavano qualche canzone o recitavano qualche scenetta. Al momento di lasciarla i padroni di casa offrivano qualche bicchiere di vino, dolci, salsicce, altri beni alimentari o una piccola mancia. In seguito i beni ricevuti si dividevano tra i vari partecipanti. Non era raro che in questi casi alla fine delle questue, qualche ragazzo accusasse gli effetti dell’alcol. Le offerte ai gruppi in maschera avevano finalità propiziatorie e forse potrebbero essere le reminiscenze di antichi rituali svaniti nel tempo. Mannia analizzando le feste campestri della Sardegna ha fatto presente che «i questuanti rappresentano delle “figure dell’alterità”, sono agenti del sacro, e pertanto offrire loro qualcosa rappresenta un investimento utile ai fini dell’ottenimento futuro di un qualche beneficio» [40].
Negli anni 60 la popolazione locale continuò a diminuire in modo più vistoso, il benessere economico delle famiglie registrò una notevole crescita e i mezzi di comunicazione di massa accentuarono la loro influenza sul modo di vivere le tradizioni locali. In questi anni, in diversi casi per i travestimenti carnevaleschi continuarono ad essere utilizzati gli abiti americani inviati dai parenti emigrati. Con l’affermazione dei personaggi dei fumetti, dei cartoni animati e dei programmi televisivi, tra i bambini si diffusero i travestimenti da Zorro, Arlecchino, Pantalone, Pulcinella, Tex Willer, Nembo Kid, Diabolik, moschettieri, cow boy, indiani, sceriffi, etc. A loro volta le bambine generalmente indossavano abiti tradizionali del luogo o altri fatti in casa che simulavano dame, ricche signore, bambole, principesse, regine, personaggi delle favole e dolci fatine con le bacchette magiche. Le scelte che guidavano i travestimenti infantili riflettevano desideri ed aspirazioni nascoste, tra cui la volontà di trasformarsi almeno per un giorno in un supereroe dei fumetti, una principessa o fata delle favole, un personaggio dei cartoni animati e via dicendo.
Nella scuola elementare che all’epoca era a tempo pieno, il Carnevale entrò a far parte dei curricoli didattici e si organizzarono recite teatrali con gli alunni in maschera. A tal proposito, un informatore ha riferito che, durante la festa di un Carnevale, un alunno si presentò in classe indossando un semplice sacco in cui erano stati praticati i fori per la testa, le mani e le gambe. Una signora intervistata ha riferito che nella prima metà degli anni 60: «a 10-11 anni ci vestivamo da carnevale! Io, quasi sempre da campagnola, perché era più facile reperire i vestiti e i fazzoletti che all’epoca erano di moda! In quinta elementare partecipai ad una recita scolastica, travestita da regina, mentre il re lo faceva un altro alunno. Quell’anno usai il vestito anche per Carnevale. Un mio parente, invece, si travestì da Zorro».
Dagli anni 70 agli anni 90 è continuata la riduzione della popolazione locale. Lentamente è stata abbandonata la tradizione dei gruppi questuanti nel periodo carnevalesco. I bambini e le bambine in diversi casi hanno continuato a travestirsi utilizzando maschere e vestiti fatti in casa, anche se con la diffusione del maggior benessere, è iniziato l’acquisto dei vestiti e maschere carnevaleschi diffusi dai fumetti e dai mezzi di comunicazione di massa. In alcune occasioni in prossimità del Carnevale furono distribuiti arance agli alunni; il giorno di martedì grasso i ragazzi e le ragazze che venivano a scuola si travestivano o indossavano una semplice mascherina; le maestre preparavano attività didattiche sulle tradizioni carnevalesche. Tra gli adulti, invece iniziò a diffondersi l’uso di partecipare a cene e veglioni danzanti durante le serate di sabato e martedì grasso, talvolta travestendosi o indossando solo qualche maschera.
Una signora intervistata ha riferito che negli anni 80, l’epoca della sua gioventù, durante il Carnevale si travestiva utilizzando abiti riciclati e fatti in casa. In un anno, lei ed alcune amiche inscenarono un finto matrimonio. In altri anni utilizzò un lenzuolo per travestirsi da fantasma e in un altro caso indossò una gonna lunga con un cappello in testa per sembrare una donna americana benestante. Questa testimonianza dimostra che l’usanza di utilizzare abiti carnevaleschi fatti in casa continuava a persistere. In aggiunta si può dire che non è stata abbandonata neanche nei decenni successivi, nonostante la diffusione della consuetudine di acquistare abiti carnevaleschi nei negozi.
Nel 1989 furono organizzati in piazza vari giochi popolari per ragazzi mascherati: il tiro alla fune, la corsa con i sacchi ed altro. Durante gli anni 90 alcune maestre prepararono delle recite carnevalesche e in una di esse gli alunni si travestirono rappresentando Pinocchio e gli altri personaggi della favola. Alcuni anni fa alcune maestre tentarono di mantenere in vita la tradizione del processo e morte di Re Carnevale bruciando nella mattinata di martedì grasso un fantoccio nel cortile della scuola. Agli studenti che partecipavano al finto processo era affidato il compito di assumere il ruolo di giudici inquisitori che rivolgevano varie accuse all’imputato: perché hai mangiato troppe salsicce, perché ti sei ubriacato, perché hai speso tutti i tuoi soldi, etc. In questo modo i bambini sviluppavano la creatività e nello stesso s’educavano al rispetto dei modelli culturali e valori che nel luogo sono ancora accettati e ritenuti validi. Questa attività didattica ha cessato di essere organizzata per rispettare le nuove normative sulla sicurezza degli edifici scolastici.
Il Carnevale oggi
Il Comune di Lama dei Peligni in tempi recenti è stato investito da altri notevoli cambiamenti economici, sociali e culturali. La popolazione locale si è ridotta a poco più di 1000 unità, l’agricoltura è stata completamente abbandonata, non esistono più le basi dell’antica solidarietà contadina e le famiglie conducono un’esistenza più solitaria. Ora i tempi di lavoro e di riposo sono completamente diversi da quelli della comunità agro-pastorale esistente sino a circa 70 anni fa. Ai disagi esistenziali causati in passato dagli scarsi raccolti e le ristrettezze economiche, ora si sono sostituiti quelli dovuti alla mancanza dei servizi, la lontananza dei centri occupazionali e la monotonia della vita quotidiana. Il sogno mitico dei lamesi del passato di vivere in un paese ove regnava l’abbondanza e la spensierata allegria, ora si è trasformato in quello di vivere in una grande località vivace, con il posto di lavoro, tutti i servizi essenziali e le occasioni ricreative.
A questi importanti cambiamenti si sono aggiunte nuove feste e modalità di celebrarle. Anche il modo locale di festeggiare il Carnevale ha subìto un’evoluzione registrando diverse innovazioni. La prima e più importante novità l’hanno fornita le donne che, da protagoniste passive degli eventi passati, hanno preso l’iniziativa assumendo un ruolo attivo e di primo piano poiché sono diventate le principali organizzatrici di alcune manifestazioni.
Una piccola dimostrazione riguardante le novità sul modo di festeggiare la ricorrenza carnevalesca a Lama dei Peligni in questi primi decenni del nuovo secolo, l’attesta il seguente scritto in versi di Mario Amorosi che è originario del luogo: “Lu Carnevale! Quante allegrije e quante ere bielle. / Pe’ fa ridere ce avasteve ‘nu brutte cappielle, / ‘na chioma strane, le chepille tinte, / o ‘nu piette abbuttate pe’ finte. / Se proprie vulive fa scuppà’ da le resate / ce avasteve ‘nu poche de calze calate. / Ce avasteve ‘na vesteture a la rovescie, / come ‘nu maijone che da ‘na maijette ariescie. / Mò, care amiche, ne nde fa scuorne / ma ‘sta rrobbe se vede tutte le juorne. / Se proprie vuò fa’ ride a Carnevale / te da’ vistì’ da persona normale. / Ma penze ca te ne siì accuorte / ca va de mode ‘na feste da muorte, / nze chiame manghe feste: ma “parte” /e ‘stu “Allovuenne”* a Carnevale ha fatte le scarpe” [41].
Un altro abitante intervistato sulle novità carnevalesche, a sua volta, ha fatto presente quanto segue: «Il carnevale lamese, semplicemente, non esiste più da parecchi anni. Si vede solo qualche ragazzino girare in maschera. Al massimo, qualche mamma organizza un pomeriggio con i figli piccoli (5/10 anni) ed altri bambini in un locale: sala parrocchiale o ex mercato coperto che quest’anno è inutilizzabile per lavori di ristrutturazione. Purtroppo, il Carnevale, in qualche modo, è stato soppiantato dal celtico Halloween. Non che non ci siano eventi organizzati da grandi ma, perlomeno, in giro per il paese si vedono solo gruppi di bambini e ragazzi “orrendamente” mascherati e dediti alla popolare questua del “dolcetto o scherzetto”. La traditrice etica yankee ha preso il sopravvento!».
Come visto, nel testo poetico e nella dichiarazione del soggetto intervistato si constata il fatto che alcuni ragazzi anziché mascherarsi a Carnevale nel rispetto delle tradizioni locali, lo fanno il 31 ottobre, durante la ricorrenza di Halloween. Nella situazione attuale il Carnevale si sta dunque confondendo con una festa simile e conferma che i mezzi di comunicazione di massa hanno fortemente influenzato le tradizioni locali. Ora non si organizzano più carri allegorici in cui la comunità lamese mette in scena sé stessa e il carnevale si è evoluto in puro divertimento, evasione e gioco. Qualche ragazzo si veste in maschera e accompagnato da pochi amici anch’essi mascherati o da qualche parente passeggia lungo l’importante arteria che attraversa il paese per mostrarsi ai conoscenti. Le maschere che s’indossano sono quelle veicolate dai mezzi di comunicazione di massa, sono acquistabili nei negozi e non sono legate alla cultura e alle tradizioni locali. Alcune famiglie continuano a confezionare in casa gli abiti per i travestimenti non tanto per motivazioni economiche come nel passato, bensì per una maggiore originalità e la speranza di realizzare un abito che incontri l’approvazione sociale. Anche la parrocchia ha contribuito ad organizzare le feste carnevalesche e sembra che anche il parroco in un’occasione abbia utilizzato una maschera. Nel giorno di martedì grasso, mise a disposizione un locale posto sotto una chiesa del paese per un incontro festivo tra grandi e bambini in maschera. Nell’occasione i partecipanti ridevano, scherzavano, ascoltavano musica, consumavano dolci e altre cibarie portate da loro stessi.
Ora la scuola elementare contribuisce a mantenere in vita il Carnevale, poiché lo si ritiene un importante fatto da inserire nel processo educativo poiché coinvolge genitori e figli in età scolare. Infatti, in diversi anni, alcune maestre hanno organizzato una sfilata di maschere con gli alunni che generalmente hanno indossato maschere di personaggi dei cartoni animati, costumi e vestiti ispirati a personaggi fiabeschi realizzati dalle loro madri. Nella settimana precedente il martedì grasso, gli alunni sono impegnati in attività didattiche che hanno previsto la costruzione di cartelloni, mascherine in cartoncino e altro utilizzando materiali di recupero (fogli di carta, vecchi scatoloni, piatti e bicchieri di plastica) e in seguito con tali oggetti si è addobbata la scuola. Da diversi anni, in un edificio del Comune che è chiamato Palazzo della Cultura, nel primo pomeriggio di martedì grasso, la Pro Loco, alcune associazioni e diversi genitori (soprattutto mamme) collaborano nell’organizzazione di attività d’animazione, sfilate in maschera e giochi di gruppo scherzosi per bambini. Mentre i bambini si divertono, mangiano, si rincorrono e scherzano, nella sala si diffondono canzoni adatte alla loro età e si distribuiscono varie cibarie tra cui biscotti, bevande analcoliche, crepes e dolci abruzzesi tipici: la cicerchiata, le chiacchiere e le sfogliatelle. Durante le ore serali di sabato e martedì grasso, in diverse occasioni la Pro Loco, vari circoli culturali e il proprietario di un albergo-ristorante hanno organizzato veglioni danzanti, spesso accompagnati da cene, karaoke ed altri elementi di divertimento popolare.
Da diversi anni è stata inaugurata una nuova consuetudine. Infatti, alcune famiglie locali vanno ad osservare le spettacolari manifestazioni carnevalesche che si organizzano in altri Comuni della provincia di Chieti. L’ultimo fatto di questi primi decenni del XXI secolo è costituito dall’immissione in rete delle immagini sulle feste carnevalesche tramite vari siti privati facebook di singole persone e di pubblici gruppi con le seguenti denominazioni: Lamarcord, Sei di Lama dei Peligni se e Majella Orientale. Essi a metà marzo del 2025 hanno registrato un numero di iscritti compreso tra 1072 e 2197 individui. In questi siti generalmente si osservano discussioni aperte e si pubblicano immagini di personaggi ed eventi locali. Con l’immissione in rete delle immagini e notizie sul Carnevale, innanzitutto si ottiene la delocalizzazione di alcuni fatti legati alla vita sociale di Lama dei Peligni. Inoltre il Carnevale lamese diventa un prodotto del folklore cibernetico che non muore dopo la sua conclusione e può essere visualizzato in qualsiasi momento della giornata.
La storia del Carnevale che è stata riportata [42] in parte coincide con la storia dell’evoluzione culturale ed economica che si è registrata a Lama dei Peligni nell’arco di tempo considerato. Questo racconto ha evidenziato che tra il Carnevale attuale e quello di cica 90-75 anni fa c’è una notevole differenza. Nel Carnevale del passato la comunità lamese riproponeva il rispetto dei valori dominanti, riaffermava la propria identità culturale, il culto della socialità e la collaborazione tra concittadini; il Carnevale della contemporaneità è invece influenzato dai mezzi di comunicazione di massa, non ripropone il rispetto di modelli culturali della vita quotidiana locale, è dedito all’evasione, al consumo, all’individualismo e all’uso e possesso di beni effimeri.
La forma d’evasione promossa dal Carnevale contemporaneo è il sogno di vivere una dimensione diversa da quella di una località caratterizzata da una monotona vita quotidiana, semi-svuotata dall’emigrazione e con pochi servizi. Questo sogno ora è realizzabile poiché il mondo immaginato, non è fantasioso, esiste, si può concretizzare ed è facilmente raggiungibile. Di conseguenza non ha più senso rappresentarlo come un fantasioso regno, personificarlo con Re Carnevale e tantomeno bruciare questo soggetto per simboleggiare la fine di un ciclo che non è più vissuto come tale, di un mondo effimero e dei sogni fantasiosi per raggiungerlo.
In conclusione si può dire che a Lama dei Peligni il tipico Carnevale del luogo è completamente morto. Esso ha lasciato in eredità solo pochi ricordi e si è trasformato in una festa per l’infanzia. In questa nuova dimensione gli adulti non sono esclusi poiché partecipano ai momenti d’evasione e sono gli operatori turistici e i membri delle associazioni culturali che lì organizzano. Con il Carnevale della contemporaneità, le donne hanno acquisito nuove funzioni e ruoli comunitari a cui si lega la possibilità di manifestare pubblicamente le loro competenze, creatività e capacità organizzative.
Ora si sono allentate le norme sull’abbigliamento, i soggetti vestiti in modo strano si osservano quotidianamente, le grandi libagioni sono più frequenti, non esistono limiti ai consumi alimentari e il sogno di vivere una dimensione migliore accompagna la vita quotidiana di ogni individuo e talvolta si realizza. Tenendo conto di tali presupposti, si può dire che ora la filosofia del Carnevale appartiene alla quotidianità, mentre nel giorno di martedì grasso si celebra la sua sacralizzazione ed enfatica realizzazione.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] Stoppa F., Il Carnevale Tradizionale Abruzzese, CATA-U.d’A, 2007: 2.
[2] Brugnoli G., Il carnevale e i Saturnalia, in Clemente P. (a cura di), I frutti del Ramo d’oro. James Frazer e l’eredità dell’antropologia, “La ricerca folklorica”, n.10, 1984: 49.
[3] Nicoloso Ciceri A., Vita tradizionale in Friuli. Vol. 2. Ed. Chiandetti, Reana del Rojale (Ud), 1982: 661.
[4] Nicoloso Ciceri A., Feste tradizionali in Friuli. Vol. 1. Chiandetti Ed., Reana del Roiale (Ud), 1989: 95.
[5] Sanga G., Personata libido. Le interpretazioni del Carnevale, “La Ricerca folklorica”, n. 8, Grafo Ed., Brescia, 1982: 6.
[6] Giancristofaro L., Folklore abruzzese. Dai modelli del passato alla postmodernità, Ed. di Rivista abruzzese, Lanciano (Ch), 2005: 113.
[7] Traduzione: balla balla compare che stasera è Carnevale. Domani si festeggia Le Ceneri e non si può più ballare.
[8] Traduzione; A Carnevale si mangiano i maccheroni con l’uovo e la frittata.
[9] D’Antonio R., L’effimero necessario divertimento. Feste e scenografie della Corte Borbonica. Il Carnevale del Febbraio 1854, Wolf, 1-31 marzo 2022: 2.
[10] Pezzetta, A., L’affitto del macello comunale a Lama dei Peligni nel XVIII secolo, “Rivista abruzzese” n. 49, 1996: 420-421.
[11] Del Pizzo A., Carnevale a Lama dei Peligni, in Del Pizzo G., Antonio Del Pizzo (il poeta calzolaio). Una vita dedicata alla poesia e alla musica, Arti Grafiche Cantagallo, Penne (Pe), 2012: 214. Traduzione: Pagliacci e pulcinelle seguiti da una tromba e un tamburo. Dopo un rullo del tamburino, il trombettiere sopra un banchetto dava l’attenti e iniziava a dire:” Fate attenzione che la mascherata con una banda fatta di padelle chiassose scende verso la Basolata (un tipico luogo di ritrovo del paese).
[12] Caprara P., Origini, Tipografia Ianieri, Casoli (Ch), 1994: 53.
[13] Pezzetta A., Tradizioni di Carnevale a Lama dei Peligni, Aequa n. 56, 2014: 48.
[14] ibidem.
[15] ivi: 49.
[16] ibidem.
[17] ibidem.
[18] Caprara P., Origini, Tipografia Ianieri, Casoli (Ch), 1994: 60.
[19] ibidem.
[20] ibidem.
[21] ibidem.
[22] Pezzetta A., Tradizioni di Carnevale a Lama dei Peligni, op. cit: 50.
[23] ibidem.
[24] Cinque G. E., Cent’anni sotto la Majella, Carabba Ed, Lanciano (Ch), 2016: 59. Traduzione: Questo è l’albero della cuccagna, qui si caca si piscia e si mangia.
[25] Lanternari V., Spreco, ostentazione, competizione economica. Antropologia del comportamento festivo, in Bianco C., Del Ninno M. (a cura di), Festa. Antropologia e semiotica. Relazioni presentate al convegno di studi «Forme e pratiche della festa», Montecatini Terme, 27-29 ottobre 1978, Nuova Guaraldi Editrice, Firenze, 1981: 143.
[26] D’Eramo G., Mentre la Majella resta a guardare. Storia della Valle dell’Aventino, Grafiche Odorisio, Pescara, 2022: 18.
[27] Pezzetta A., Tradizioni di Carnevale a Lama dei Peligni, op. cit: 50.
[28] ivi: 51. Fonterossi e Vaccarde sono i nomi di due frazioni lamesi.
[29] Pezzetta A., Tradizioni di Carnevale a Lama dei Peligni, op. cit: 51. Traduzione: Mia nonna mi raccontava / Che l’amore sessant’anni fa / si faceva con i fidanzati / si comunicava a distanza / Si faceva e si passava / serenate canti e suoni / Ma i baci gioia cara / si vedevano con il cannocchiale / Ora tutto è cambiato / Ora l’amore non è più quello / Ora l’amore è più bello / Ora c’è la libertà / s’inizia con i baci / Come finisce chi lo sa. / E la sera qualche volta / si faceva una scappatella / si sedeva con il fidanzato / e si scambiavano effusioni / Ma mio nonno che stava in mezzo / Ogni tanto raccontava / che una volta in tempi passati / si scontrò con i briganti. / Ora tutto è cambiato / Ora l’amore non è più quello / Ora l’amore è più bello / Ora c’è la libertà / s’inizia con i baci / Come finisce chi lo sa. / Ora la madre l’ha capito / che per sposar la figlia / deve cambiare metodo / Deve allentare la briglia / Arriva il fidanzato: permettete / e se tu sei presente / dormi e fai la calza. / Ora tutto è cambiato / Ora l’amore non è più quello / Ora l’amore è più bello / Ora c’è la libertà / s’inizia con i baci / Come finisce chi lo sa.
[30] Pezzetta A., Tradizioni di Carnevale a Lama dei Peligni, op. cit: 52.
[31] ibidem.
[32] ibidem.
[33] ibidem.
[34] ivi: 53. Il termine “Cillitto” riportato nel finto giornale radio indicava una famiglia locale di pastori.
[35] ibidem.
[36] Traduzione: Carnevale perché sei morto / l’insalata avevi nell’orto / le salsicce tenevi appese / Carnevale tu possa essere ammazzato.
[37] Pezzetta A., Tradizioni di Carnevale a Lama dei Peligni, op. cit: 54. Traduzione: Carnevale sciupone / si è impegnato il portone / e la moglie per dispetto / si è impegnata il proprio seno.
[38] Traduzione: Carnevale pazzo pazzo / ha venduto il materazzo / e la moglie per dispetto / ha venduto il reggiseno.
[39] Del Pizzo A., Carnevale a Lama dei Peligni. Op. cit: 216. Traduzione: E ora da circa vent’anni fa / forse perché le persone sono più istruite / forse perché c’è il brodo grasso (c’è abbondanza) / questa bella tradizione di Lama / si è ridotta a ragazzi chiassosi / con un cappuccio e una mascherina.
[40] Mannia S., Questua, sacrificio e banchetto rituale nelle feste campestri della Sardegna, Archivio Antropologico Mediterraneo n. 20, fasc. 1, 2018: 7.
[41] Pezzetta A., Tradizioni di Carnevale a Lama dei Peligni, op. cit: 55-56. Traduzione: Il Carnevale / Quanta allegria e quanto era bello / Per far ridere bastava un brutto cappello / una chioma strana, i capelli dipinti e un seno finto / Se proprio volevi far scoppiare dalle risate / bastava un po’ di pantaloni calati / Bastava un abito alla rovescia / come un maglione ricavato da una maglietta / Ora cari amici / queste cose si vedono ogni giorno / Se vuoi far ridere a Carnevale ti devi vestire con abiti normali / Ma pensa non ti sei accorto che va di moda la festa da morti / Non si chiama neanche festa ma “parte” / e Halloween a Carnevale ha fatto le scarpe.
[42] Per aver fornito informazioni si ringraziano: Amorosi Mario, Ardente Concetta Antonietta, Cappella Amedeo, Di Fabrizio Elisa, Laudadio Romina, Laudadio Teresa e Rosato Gianna. Un particolare ringraziamento al sig. Del Pizzo Giuseppe che nel precedente saggio aveva messo a disposizione il quaderno manoscritto del nonno Antonio con gli appunti sul Carnevale del 1950.
Riferimenti bibliografici
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D’Antonio R., L’effimero necessario divertimento. Feste e scenografie della Corte Borbonica. Il Carnevale del Febbraio 1854, Wolf, n. 5-6, 2021: 1-3. https://www.clementinagily.it/wolf/wp-content/uploads/2021/03/W-DAntonio-Borboni-15.pdf.
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Amelio Pezzetta, laureato in filosofia all’Università di Trieste, è insegnante di scuola media in quiescenza. I suoi interessi principali sono la storia locale e le tradizioni popolari dei Comuni della Valle dell’Aventino (Prov. di Chieti, Abruzzo). Ha collaborato e collabora tuttora con varie riviste storiche ed etnografiche tra cui: Abruzzo Contemporaneo, Aequa, Dada, L’Universo, Palaver, Rassegna storica dei Comuni, Rivista Abruzzese, Rivista di Etnografia, Utriculus e Valle del Sagittario.
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