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Tra pandemia e “climate change”, educare all’umano

Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2021 @ 01:45 In Cultura,Migrazioni | No Comments

Exodus (ph. Salgado)

Rwanda (ph. Salgado)

di Alessandra Morelli e Fabio Sebastiani

Si può insegnare l’arte dell’umano? O meglio, in un periodo così oscurantista e conservativo, nonostante il grande predominio della scienza, che valore ha tornare prepotentemente all’umano? Perché è così importante?

Per rispondere a queste domande cercheremo di rimettere al centro dell’attenzione l’esperienza di chi, da operatore umanitario, ha passato gli ultimi decenni “sotto la crosta terrestre”, ovvero in quel mondo caratterizzato dalla mancanza del necessario, dalla rapina e dall’espropriazione e quindi dalle guerre, per lo più senza soluzione di continuità.

Verso questo mondo l‘Occidente ha operato, e continua ancora oggi, una assurda e insensata opera di rimozione. Sotto la crosta terrestre è come dire l’intestino del mondo, il luogo dove avviene la digestione, ovvero quel ritorno all’ancestrale che non vorremmo né vedere né sentire per paura di perdere le certezze della cosiddetta civiltà moderna. Oggi, quello che avviene sotto la crosta terrestre sta mettendo in discussione la civiltà moderna. Nei “topoi” occultati e occultanti si prepara il futuro di tutto il pianeta.

Nonostante l’entità del fenomeno migratorio i “buoni” continuano seraficamente a negare di esserne in gran parte i responsabili rifugiandosi dietro il paravento della difesa degli interessi nazionali, e non ponendosi quindi un dilemma di giustizia. Il punto è che questo, al di là e al di sopra del giudizio etico e morale, è uno degli elementi che di fatto sta creando le premesse per un bivio netto nella storia umana: da una parte i disperati cronici, dall’altra i “salvati” dalla scienza e dalla tecnologia, dalle armi, dal potere. Quanto appaiono piccole le nazioni inquadrate da questo punto di vista? Detta in poche parole, il divario tra “mondo di sopra” e mondo infernale si allarga sempre di più. E nel mezzo c’è il vecchio arnese putrescente delle nazioni. E sempre di più vengono a galla contraddizioni non facilmente gestibili attraverso la retorica e la propaganda dell’identità. È l’ampiezza del divario a rappresentare il vero problema per il futuro della cosiddetta umanità.

C’è quindi bisogno di una nuova coscienza che non può non partire dal riconoscimento dell’altro. Di fronte alla debolezza degli uomini, che si sta piano piano trasformando in realtà in netta riluttanza, a riconoscere la necessità di invertire la direzione, provvidenzialmente la natura ci dà una mano: da una parte il virus e, dall’altra, il climate change ci stanno indicando che il “game over” è alle porte. Non c’è più alcuna funzionalità dei confini, anzi. La nazionalità diventa disfunzionale e nociva. Il progresso non ha più niente da dire e il modo in cui chiuderemo la partita farà appunto da spartiacque da adesso in poi. Il divario aumenterà: il mondo di sopra progetterà di forzare la natura attraverso la scienza, ma così facendo si costituirà in casta transnazionale. Il mondo sotto la crosta terrestre si dividerà in disperati che camminano nella notte e altri disperati che tenteranno, invano, di bussare alle porte della “luce” oppure, essendo costretti a vivere una nuova condizione di schiavitù non dichiarata, in qualche caso riusciranno ad omologarsi. E noi che, nel mondo di sopra figuriamo come semplici comparse cosa sceglieremo di fare? Vogliamo un mondo con una specie umana che intraprende due strade evolutive completamente diverse, oppure pensiamo che l’umano possa ancora sostenerci? L’umano, con tutta la sua storia, pur contraddittoria, ma che possiamo sintetizzare nella capacità della compassione e dell’incontro e, sulla base di ciò, far derivare la gestione della comunità umana.

Dentro quella comunità esistevano i buoni e i cattivi: due pulsioni che in qualche modo agitavano la dialettica morale comunque basata su una misura di giustizia proprio perché alla fine tutto doveva rientrare in un ciclo politico ed economico pur nei limiti della dialettica politica delle nazioni o degli imperi.

Exodus (ph. Salgado)

Kuwait (ph. Salgado)

Pandemia e climate change ci dicono, paradossalmente, che i cattivi non esisteranno più. I cattivi non hanno più spazio per oggettivare le loro pulsioni perché il mondo si è improvvisamente curvato. E nemmeno il potere, anche il più razionale e illuminato può credere realisticamente di continuare a “comprare futuro” posticipando le decisioni nel tentativo di conservare il consenso. Chi pensa di continuare su queste strade non lo farà più pensando di dispiegare comunque “la cosa giusta” ma ponendosi fuori dal consesso umano. Quindi, o si torna “indietro” verso uno stadio superiore di eticità oppure si dovrà osare l’inosabile. Hitler, per dirla in due parole, potrebbe figurare al confronto, tutto sommato, un bravo ragazzo. Pandemia e climate change hanno messo in soffitta l’etica proprio perché costringono l’umanità a guardare in faccia a un’unica realtà. Tutte le culture umane non hanno più un “credo” ma un “devo”. Lo spazio determinato da pandemia, climate change e relativi movimenti migratori, è l’unico spazio in cui trovare le soluzioni “etiche”. Non ci sono più due opzioni ma una soltanto, quella che ci viene dettata dal ciclo universale.

È per questo che l’umano in quanto tale può svolgere un nuovo ruolo nel guidarci verso una maggiore consapevolezza. Un umano che dovrà imparare passo dopo passo a trovare tessiture di libertà non a prescindere dall’altro, sia fratello che senziente. Il ritorno entro una collocazione biologica proprio nel momento in cui l’uomo mostra di voler superare il “bios” attraverso la violazione del codice genetico ci restituisce un’idea di libertà che sta nel paradigma dell’armonia e del ciclo della rigenerazione. Da cosa può discendere questa armonia universale visto che l’uomo da solo non ne è capace ma è nello stesso tempo l’anello forte che di fatto ha disconnesso il paradigma di cui la natura ci ha dotato? Non certo dalla cosiddetta “mano invisibile” del mercato, seppure corretto dalla politica, ammesso che ce ne sia una in grado di correggerlo.

Insomma, gli spiriti animali messi in primo piano dal cosiddetto progresso non sono per nulla spiriti e per niente animali. Di fronte alla grandezza delle sfide che si stanno profilando sono, molto più banalmente, maldestri e approssimativi attrezzi per fini egoici non in grado più di disegnare, nemmeno probabilisticamente, un futuro unitario alla specie umana. Lo schema politico della “nazione” racchiude sinteticamente il profilo in cui si trova in questo momento il mondo.

L’uomo non è portatore quindi di mente universale, di progetto. Meno che mai lo è attraverso la composizione della dialettica politica mondiale attraverso il soggetto della nazione. Lo abbiamo appurato sul campo. E già questo dovrebbe tornare a farci interrogare sull’effettivo valore della scienza. Dobbiamo tornare indietro da quella linea “evolutiva” che molto superficialmente ci ha condotto verso il progresso prima che sia troppo tardi e prima che si biforchi dando il via alla moltiplicazione esponenziale delle aberrazioni. Ovviamente, non negando il progresso consolidato ma finalmente facendoci la domanda che la scienza non si è mai fatta: a cosa serve tutto quello che abbiamo scoperto nella collocazione universale o, se volete, più modestamente, per mantenere il futuro in questa terra?

Ovviamente non avanziamo qui un’idea né romantica né religiosa dell’umano. Anzi, crediamo che sia proprio quell’umano cristallizzato nelle esperienze storiche, banalmente nella cultura e nel linguaggio, a poter svolgere un ruolo di primo piano per tenere unita la specie e valorizzare la biodiversità culturale di per sé garanzia di pace, prosperità e rigenerazione. Se c’è un ruolo positivo che hanno avuto le nazioni è stato proprio quello di cullare la biodiversità dell’umanità attraverso le culture. Oggi questa biodiversità va messa al servizio del mondo. Non serve quindi uniformarsi a principi etici magari sottolineati dall’intangibilità del verbo religioso. Il punto è rimettere in campo la diversità e quindi l’accettazione dei propri limiti. In una parola, la biodiversità umana come una risorsa, ma non più agita nella forma dell’identità nazionale.

Exodus (ph. Salgado)

Sahel (ph. Salgado)

Il potere, comunque coniugato, ci ha imposto un’idea del futuro sempre da compiere, e questo soprattutto perché l’esigenza è di nascondere il proprio senso di auto-fondazione. È stato così per il potere monarchico, come per quello cosiddetto democratico ma in realtà basato sulla soggettività imperialistica. Qualsiasi potere ha alla base questo nascondimento che parte dalla appropriazione del tempo. È qualcosa che non esiste in natura l’appropriazione del tempo. In natura il compiuto è l’essere. L’essere non ha bisogno del tempo perché il suo ruolo è proprio battere la necrosi della trasformazione insita nell’universo attraverso un progressivo adattamento della spinta vitale.
L’uomo ha creato un “compiuto” disastroso che è sotto gli occhi di tutti. La natura ora presenta il conto, e il “contro”. Sta all’uomo rispondere quindi: o la divaricazione delle diversità intraspecifiche cavalcando la scienza, oppure, sempre usando anche la scienza la riscoperta di un umano dentro la biodiversità umana e quindi elevando l’esperienza dei popoli e delle nazioni a qualcosa di superiore.

La parola educare esprime in pieno la radicalità di una comunicazione che non può limitarsi quindi a una pura trasmissione di valori ma deve appunto “tirar fuori”, “allevare”. Questa forza è difficile rintracciarla nell’uso “moderno” della parola dove nella pratica l’informazione arriva tutta da fuori e dall’alto senza curarsi minimamente di ciò che trova davanti a sé. Alla parola occorre associare l’esempio, però. O meglio, all’esempio servirà associare la parola. E per far questo è inevitabile usare un “ponte”. L’esperienza di chi in questi anni ha vissuto sotto la crosta terrestre nel “tra” di guerre e conflitti che hanno messo a nudo l’incapacità del mondo evoluto di costruire momenti reali di pace ci dice che c’è qualcosa di più potente del male, la banalità del male. Come abbiamo sottolineato sopra, siamo in un’epoca in cui il salto “etico” è palpabile. La banalità del male, come ci è stato indicato dal nazismo, può essere più potente del male stesso. La vittima più che la crudezza della violenza vive la sospensione di tutto: del tempo, dei sentimenti, delle percezioni.  l’inferno reso vivo dalla banalità del male, appunto. Agli esseri umani viene volontariamente nascosto l’essere umano.
Non a caso nel 1948 si scrissero, nero su bianco, i diritti universali. Si era capito che dal nazismo si poteva uscire solo più avanti dichiarando l’universalità della giustizia. Ora quella stessa giustizia ha bisogno di uscire dai proclami.

Ma torniamo al ragionamento sul ponte. È chiaro che ben pochi valori rimangono a disposizione per fare in modo di invertire la tendenza intraprendendo la strada dell’educare all’umano. Tra questi c’è la cura. La cura ha la doppia valenza del riconoscimento dell’altro e, contemporaneamente, della nostra fragilità. Riconoscere la nostra fragilità non è una scelta. Ed è questa la novità. È in questo spazio che ci troviamo noi popoli dell’Occidente. È da qui che dobbiamo intraprendere il nostro percorso di presa di coscienza. Di fronte al climate change e alla pandemia siamo tutti fragili. Mettere in comune la propria fragilità può essere un inizio, utile a superar la paura. Pensare che la risposta alla fragilità possa arrivare dalla sola scienza è l’inizio della fine della storia per come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi.

Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021

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Alessandra Morelli, è stata Delegata per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) dal 1992 al 2021. Si è formata professionalmente nella gestione delle emergenze e delle zone di conflitto ad alto rischio, lavorando per l’UNHCR, dialogando con diversi governi, la NATO, ONG internazionali e locali, e Organizzazioni Intergovernative. Dal 1992 ad oggi è impegnata direttamente sul campo in negoziazioni e operazioni umanitarie di risposta e di coordinamento, protezione e assistenza di rifugiati, sfollati interni e rimpatriati nelle aree più calde e fragili del mondo. Ha lavorato in ex-Jugoslavia, Ruanda, Albania, Kossovo, Guatemala, Sri Lanka, Sahara Occidentale, Afghanistan, Indonesia, Georgia, Yemen, Birmania, Somalia, ed ultimamente ha consolidato il primo intervento dell’emergenza profughi in Grecia, che ha visto transitare sul proprio territorio più di un milione di persone in fuga da guerre e violenze.
Fabio Sebastiani, giornalista e poeta, è laureato in Filosofia nel 1988 con una tesi sulle lingue artificiali. Dal ’95 e fino al 2012 fa parte della redazione di Liberazione occupandosi del settore sindacale. Ha al suo attivo diverse iniziative giornalistiche come la creazione e la conduzione di alcune web radio come Radio Rete Edicole, Radio Iafue, Radio Mir e Radio Anmil Network. Come poeta ha pubblicato un libro di aforismi e una raccolta di poesie dal titolo Molecole semplici per rivoluzioni complesse. Ha curato insieme ad altri due poeti due poemi collettivi, Gabbia no e Amicizia Virale.

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