Non sono un letterato. Né nel senso classico del termine né in un senso diverso, purtroppo. Non passo le giornate tra edizioni critiche e varianti d’autore, né misuro versi con la pazienza di un filologo, anche se lo vorrei. Nello specifico, non sono neanche, temo, un vero comparatista, benché appassionato. Le parentele tra testi mi piacciono da pazzi, certo, ma mi succede che, un po’ come quando si guarda un album di famiglia trovato in soffitta, un po’ come quando si disegna un albero genealogico, inizio a fare voli pindarici con un misto di amore, curiosità e voglia di scoprire, e così spesso mi trovo a deviare verso altro. Mary Shelley aveva saputo della dialettica signore-servo di Hegel che così bene incarnano Victor Frankenstein e la sua Creatura? In Calvino, che con De Martino condivise Einaudi, si possono ravvisare echi crepuscolari di antropologiche fini del mondo? Cervantes creò il primo romanzo moderno o, con Teresa d’Ávila e Giovanni della Croce, fu il cantore delle crepe di un’epoca stanca che ripeteva sé stessa?
La verità è che da un po’ di tempo – e senza che nessuno me l’abbia chiesto, quindi ammetto la mia colpa – mi ritrovo a praticare un mestiere ibrido: studio letteratura comparata, sì, ma con l’occhio rivolto altrove. Alla filosofia, alla sociologia, a volte persino all’economia o all’antropologia, quando mi capita di inciampare in qualcosa che somiglia a un racconto e trovo amici accademici – loro sì, accademici veri – che stranamente mi danno retta. Uso la letteratura per pensare mentre immagino, e le scienze sociali per immaginare mentre penso. E rifletto che questo modo incrociato, in fondo, sia già un modo di raccontare. Raccontare idee, modelli, strutture sociali, piccoli cortocircuiti del senso comune. Con la letteratura cerco di entrare in altre discipline. E con le altre discipline, provo a tornare alla letteratura con uno sguardo un po’ diverso. Non è un sistema, non ce l’ho, probabilmente esiste ma non lo possiedo io: il mio è più un sentiero tracciato tra corridoi disciplinari diversi, passando obliquamente per le porte aperte e ogni tanto anche per quelle socchiuse, nonché per quelle diabolicamente chiuse a metà.
Certo, questo comporta più di un disagio. In quali riviste pubblicare? In che settore concorsuale rientrare? A chi rivolgersi quando si cerca una parola di conforto (o almeno una bibliografia sensata)? Sono quesiti che restano sospesi finché trovano risposte non meno complesse, come quei quesiti che si fanno a fine conferenza quando il pubblico è incuriosito ma anche timoroso di chi sarà il primo a scoperchiare il vaso di Pandora delle domande.
A ben pensarci, però, è la stessa letteratura comparata che mi incoraggia: oggi, in un orizzonte accademico sempre più permeabile e interdisciplinare, la letteratura comparata si configura sempre più come un dispositivo critico che attraversa e dialoga con la sociologia e le altre scienze sociali, e con la filosofia e le altre discipline umanistiche. Da appassionato che si muove tra questi campi, purtroppo devo ammettere di non rivestire né l’abito del letterato puro né il ruolo dello studioso accademico, ma condivido un approccio dinamico, benché rigoroso, che cerca nella narrazione un ponte tra mondi disciplinari diversi.
È infatti la comparatistica contemporanea che evidenzia come la letteratura si apra a una dimensione sovranazionale e transculturale, in cui il confronto non riguarda solo testi o autori, ma le condizioni storico-sociali e i modelli di pensiero che li attraversano. La narrazione diventa così un dispositivo che consente di attraversare confini linguistici, culturali e disciplinari fino a offrire chiavi di lettura che, abbracciando filosofia, sociologia, antropologia e altri campi, permettono di cogliere la complessità del mondo contemporaneo.
La letteratura, in questa prospettiva, non è solo oggetto di indagine che cerca sé stesso, ma anche uno strumento per esplorare e decifrare fenomeni sociali, filosofici e culturali più ampi. Attraverso la narrazione letteraria si possono leggere le dinamiche di potere, le costruzioni identitarie, le tensioni etiche e le trasformazioni sociali, in un dialogo costante con le teorie filosofiche e gli studi sociologici. Questo approccio supera la pur necessaria e doverosa compartimentazione disciplinare, e valorizza la letteratura come pratica che produce senso e conoscenza in relazione con altri saperi.
Dunque, io non mi trovo né a erigere barricate in nome di un’indisciplina ribelle né al contrario a sventolare bandiere di purezza disciplinare, nient’affatto. Anzi, direi che il mio approccio è più simile a quello di un giardiniere che si diverte a incrociare specie diverse, osservando con un sorriso quali inaspettate fioriture ne derivano, e risalire così alle peculiarità delle “pure” specie originarie.
A volte, lo confesso, mi sento un po’ come il cugino timido che, per giustificare la propria presenza, porta il dessert al raduno di famiglia. La verità è che, come tanti accademici che mi rincuorano con la loro curiosità irrequieta, trovo tanto piacevole quanto prezioso saltellare da un campo all’altro, convinto che la ricchezza stia proprio nelle reti e nelle interconnessioni, senza però perdere di vista il valore e l’unicità degli elementi originari.
La mia convinzione, un po’ come una fede, è che la narrazione si trovi un po’ ovunque: negli eleganti schemi della filosofia, nelle raffinate dinamiche della sociologia. Per me, è un po’ come trovare dei tesori inaspettati nei cortili dei tuoi splendidi vicini che, così gentilmente, ti accolgono per mostrarti le loro case.
E la letteratura, in tutto questo, non è solo la mia amica del cuore, ma anche una complice preziosa. Come ho detto, non è solo oggetto di indagine che cerca sé stesso, ma un attrezzo raffinato per esplorare gli altri mondi. Immaginate di usare la sensibilità di un Victor Hugo per decifrare un saggio di Durkheim, o la struttura narrativa di un Euripide per illuminare un testo di Platone. È un modo per intra-legere, per afferrare sfumature e armonie che altrimenti resterebbero celate. È un po’ come forgiarsi un paio di occhiali speciali che rivelano, poco a poco, dettagli invisibili a occhio nudo.
In definitiva, il mio lavoro si situa in una sorta di “grande crocevia”: la letteratura comparata come pratica rigorosa ma pure snodo di infinite possibili deviazioni, una disciplina indisciplinata se volete, e che perciò consente a chi vuole di saltare da un campo all’altro, cercando nelle storie non solo un valore estetico, ma un potenziale conoscitivo e critico per comprendere le società e le sue dinamiche. Così ritengo che la letteratura possa venir vista quale effettivamente è: un laboratorio di pensiero, un luogo di incontro tra discipline, un modo per raccontare e interpretare il mondo in tutta la sua molteplicità e immensità.
Dunque, allora è strano che, più in generale, saltare da un campo all’altro non sia sempre ben visto né sembri ragionevole. Sembra disordinato, indisciplinato. E forse lo è. Ma anche la realtà, temo, tende a mescolarsi senza chiedere permesso. Perché le storie non stanno mai dove dovrebbero stare: spuntano nei saggi di filosofia morale, nelle statistiche dell’ISTAT, nelle lettere ai giornali, nei trattati teologici, nei contratti sociali.
Questo discorso non è un manifesto, né voglio che lo sia. Non ho mai avuto il temperamento dell’eretico accademico. La mia è più una timida constatazione di sé stessi. L’idea che, a volte, per capire un romanzo, serva un saggio di sociologia, o che per leggere Kierkegaard sia utile passare da un racconto di Kafka, è un modo di cercare la narrazione là dove sembra non esserci, e la teoria là dove si racconta.
Non so se ho ragione, anche se, in effetti, presumere di avere ragione dà un certo piacere. Né pretendo che questo approccio trovi spazio nei regolamenti concorsuali o nelle logiche editoriali, che è giusto che ci siano e devono esserci, altrimenti saremmo disorganizzati; però mi conforta sapere che non sono solo. Mi conforta che, anche al di fuori della comparatistica, ci sono altri studiosi che – con più grazia, con più preparazione – si muovono tra i margini, tra le note a piè pagina, tra le categorie scritte con penna rossa.
Forse un giorno ci sarà un’etichetta anche per gli irregolari come me: “simpatici narratori di idee”, “timidi lettori trasversali”, “curiosi praticanti di passaggi laterali” o cose così. O forse no, e andrà comunque bene. Intanto continuiamo a camminare, curiosi e un po’ fuori asse, lungo i bordi della mappa accademica. Dove le discipline si guardano, si sfiorano e, ogni tanto, si scoprono.
In definitiva il mio è un tentativo leggero ma non troppo di fare una scusatio non petita per come considero le discipline a partire dalla letteratura comparata, ossia non come fortezze inespugnabili, ma come un arcipelago di isole collegate da ponti invisibili. E se, come metodo, non è il più disciplinato per apprendere da esse, può comunque rendere il viaggio del sapere più avvincente e, oserei dire, più imprevedibile e meno afferrabile. E in questo, ho la fortuna e il privilegio di trovare spazio e accoglienza nei “Dialoghi Mediterranei” che come il Mediterraneo è luogo di confluenze e di ibridazioni, di tessiture e di intrecci, di attraversamenti e di sconfinamenti.
Dialoghi Mediterranei, n. 74, luglio 2025
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Claudio Gnoffo, dottorando in “Scienze Umanistiche” presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi di Roma e cultore di “Storia dell’Arte Medievale” presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo, è stato coordinatore nel 2022 del convegno internazionale “Realtà mediali. Sociologia, semiotica e arte negli immaginari e nelle rappresentazioni” e co-curatore del 1° volume tratto da esso, Realtà mediali. Medialità, arte e narrazioni, per UniPa Press; è inoltre autore di diversi articoli scientifici, fra cui, con regolarità dal 2019, per “Le nuove frontiere della scuola” de La Medusa Editrice.
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