Non solo tra i fiorentini e i veneziani vi è una larga fascia di contestatori delle orde di turisti che a ogni stagione festiva sarebbero occupati a invadere il sacro suolo della nostra patria stravolgendo il volto delle città, alterando le culture locali, seviziando l’ambiente, ecc. ecc., ma comunico che anche dove vivo io, in Sardegna, nonostante il mito di terra ospitale che molti le hanno attribuito, esiste un filone di residenti discretamente ostile agli arrivi dei cosiddetti vacanzieri accusati anche nel nostro caso di distruggere il paesaggio e inquinare i tratti più profondi dell’identità culturale isolana.
Probabilmente ci troviamo davanti a un sentimento che tende a divenire sempre più diffuso e universale. Occorre ammetterlo. Naturalmente, per le cose che mi stanno più vicine, ci sarebbe molto da ridire in fatto di responsabilità incominciando a depurare da un eccessivo orgoglio sardista e isolazionista, quello che in altre parti della Penisola si manifesta in forme nazionaliste o provinciali, che in modo più o meno accentuato sottende genere di polemiche come questa.
Infatti, soprattutto circa le preoccupazioni naturalistiche, dalle mie parti vi è scarsa coscienza nel riconoscere, per esempio, che chi ha deturpato le coste non è il Brambilla arricchito ma il capomastro sardo; chi tutte le estati manda in fumo centinaia di ettari di foreste non è il turista che butta la cicca nell’erba secca ma il paesano che, come in Sardegna, in Sicilia e in Calabria, possiede la necessaria cultura agropastorale, che gli consente di preparare e mettere a frutto le esche e, poi, sparire senza che nessuno sia in grado di collegarlo a quel fuoco, salvo il chiacchiericcio paesano. Il gatto, poi, continua a mordersi la coda quando a queste querimonie segue la consueta lamentela che si sottrarrebbe al godimento dei residenti l’ambiente con le sue bellezze, ma le ragioni che sottende questa polemica oltre che ai cambiamenti naturali, a mio avviso, sono pure altre. Certo, anche il vostro articolista da tempo ha rinunciato a godere di quelle spiagge lunghe e desertiche che in passato vantava la sua isola, ora che l’affollamento estivo di turisti e residenti le rende più simili a Fontana di Trevi in una domenica di settembre e la loro organizzazione è tale che se non sei un consumatore stile Rimini che cerca nella spiaggia e dintorni soprattutto svago non puoi godere delle suggestioni impagabili che l’ambiente marino sardo offre come tipica specialità. Si è sicuramente dimezzata la dimensione dei litorali un po’ per l’erosione dell’arenile dovuto all’innalzamento delle acque e un altro po’ per l’occupazione degli stabilimenti balneari con la situazione paradossale che l’Italia avrebbe denunciato alle UE ben 11.000 chilometri di coste, a fronte degli 8.000 effettivi che realmente avrebbe tolto gli scogli e le rocce, dicono i maligni per consentire la concessione di un maggior numero di licenze (ma a chi votano così in blocco i titolari di stabilimenti per ottenere una simile tutela politica che da anni tiene testa alle disposizioni europee anche più degli agricoltori?).
Credo comunque che vi sia un fil rouge che lega le varie polemiche dei cittadini italiani contro l’invasione turistica che nella mia isola costituisce una polemica antica riguardo la “Sardegna colonia”, di cui erano accusati gli “stranieri” che arrivavano dal mare e con essi tutti gli altri presunti profittatori, sfruttatori di volta in volta responsabili della cementificazione delle coste, delle installazioni militari, delle fabbriche di bombe o, fenomeno più recente, degli impianti per le energie rinnovabili; il balzo nel livello di istruzione poi, qui e altrove, ha consentito di rafforzare l’armamentario culturale della contestazione della società borghese, con le armi, oggi assai meno appuntite, dello sfruttamento capitalistico e del più deteriore consumismo, della globalizzazione, ecc. abbellito da un linguaggio metaforico e poetico misto a una razionalità tecnica per far sembrare più fondate scientificamente le tesi dell’anima. Tante volte mi viene il dubbio che l’astio nei confronti del turista altro non sia che quello più generale nel quale sembra più impegnato il Paese nei confronti dello straniero che emigra per mille ragioni (e molti dei quali si fermano appunto sfruttando il visto turistico). Ma allontano subito questo pensiero per mancanza di prove e non andare troppo fuori tema.
Dopo che mi sono presentato, anche io con la mia lista di riserve nei confronti di chi trascorre un periodo di vacanze nella mia terra limitando il mio godimento, ma anche conscio che, rappresentando il turismo la principale risorsa economica, se non si affronta nella maniera giusta il problema, tutto ciò rischia di tradursi in un gridare nel deserto; da qui, secondo me, la necessità di levare lo sguardo oltre la siepe. Farò seguire quindi una serie di considerazioni pratiche, anche perché in realtà mi trovo davanti a obiezioni che, a parte il linguaggio forbito e tecnico di altre materie che poco c’entrano col turismo, fronteggio argomentazioni che mancano di numeri, cifre e dimostrazioni statistiche. In tutti i casi devo chiamare a questa tavola il convitato di pietra, ossia il Commendatore Turismo, che ha da dire per primo la sua.
Mentre scrivo, oltre alla buona partenza dell’anno in corso, arrivano i dati positivi della stagione 2023 che mostrano come l’industria turistica nel pianeta vale 3,3 trilioni di dollari, ossia il 3% del Pil mondiale, viceversa in Italia, Paese guida di questo fenomeno, gli introiti superano i 35 miliardi di euro costituendo quasi il 15% del Pil nazionale. Una grande boccata di ossigeno per un’economia asfittica come la nostra e festa grande per le casse vuote dello Stato, tenendo conto che il cinquanta per cento di questi introiti se ne va in tasse, imposte, balzelli comunali, ecc. Si tratta di risultati che, oltretutto, incentivano l’occupazione, che nel comparto italiano avrebbe 2,7 milioni di addetti, pari all’11% della forza lavoro complessiva del Paese. Quindi, occhio a non sputare nel piatto in cui si mangia, avverte il Commendatore.
Impegnandomi in questa operazione non posso fare a meno di notare a margine che, comunque, il fenomeno turistico presenta quasi per sua natura momenti di autoregolazione interne ed esterne che in qualche modo ne attenuano gli impatti negativi. Il primo proviene dagli stessi interessati, i turisti, che non è detto amino ammassarsi nelle mete turistiche come pecore; il secondo è dato dagli amministratori pubblici della località più ricercate che hanno mille strumenti per renderle meno accessibili se solo si volesse, anche se occorre osservare che in questo campo prevalgono comportamenti contrastanti: da un lato, grandi investimenti pubblicitari da parte degli amministratori locali per incentivare il mondo a vedere la regione o la città reclamizzata, dall’altro le susseguenti proteste di cui ci occupiamo se per caso lo sforzo promozionale si rivelasse produttivo. Poi vi è l’incidenza delle stesse modalità con cui si attuano gli spostamenti. A parte la scelta individuale di chi cerca di evitare le partenze e i ritorni nelle autostrade intasate programmando diversamente le proprie vacanze, vi è il caso di regioni turistiche come la Sardegna, e in parte anche la Sicilia, in cui il numero chiuso è assicurato dai prezzi alle stelle delle compagnie aeree e di navigazione marittima (qualche giorno fa è stato dimostrato come il volo Milano-Cagliari, per esempio, per i non residenti nell’isola fosse più caro del Milano-New York).
Lo spunto per trattare questi problemi mi è dato dall’interessante articolo su Venezia di Elena Niccolai sul numero 68 di questa rivista. Come ho detto, per certi versi queste analisi mi ricordano quelle non meno preoccupate degli antropologi della mia regione che vedono pezzi di cultura originaria e di spirito comunitario andare a pezzi dietro l’incalzare di questo fenomeno. Non vi è dubbio che lo scienziato sociale sviluppa una particolare sensibilità che lo rende più attento dell’uomo comune a cogliere il senso profondo delle cose, perciò i due ambiti di analisi, quella della reazione del residente e l’altra del turista nella stessa persona divergono spesso come quella del dr Jekyll e di Mr Hide, quando in casa uno invoca protezione dall’invasione turistica e fuori si comporta non diversamente da quelli che critica.
L’articolo da cui parto quindi riguarda Venezia, città che ho avuto l’opportunità di frequentare alcuni decenni fa per ragioni professionali, tanto che poi la città lagunare mi è mancata quando ho dovuto cambiare questa abitudine. Perciò di recente, approfittando di un impegno concomitante a Mestre, sono tornato incuriosito a controllare lo stato di quella che un tempo era la mia meta preferita di viaggio in Italia. Giungo in treno alla Stazione di Piazzale Roma, mi immergo sia nei percorsi del turismo convenzionale (Rialto, Canal Grande, Piazza San Marco, Accademia, Ghetto, ecc.) sia negli angoli meno conosciuti al grande pubblico trovando anch’io come tutto fosse diventato insostenibilmente cambiato e comprendendo anche perché tanti miei conoscenti veneziani avevano abbandonato la città, cosa che a me sulle prime mi risultava incomprensibile. Effettivamente la città mi è apparsa una via di mezzo tra un gigantesco bazar e la copia realizzata a Las Vegas; tutto molto diverso da quella che era rimasta impressa nella mia memoria e nelle mie vecchie foto con il visitatore che la percorreva avvinto e rispettoso.
È vero, anch’io ho i miei sfizi e le mie idiosincrasie anche in fatto di conservazione delle bellezze artistiche, che a molti sicuramente sembreranno un po’ stravaganti. Proprio su queste colonne qualche numero fa, parlando di maltrattamento dei prodotti artistici, esprimevo il mio disgusto sulle folle di turisti che sciamano nei musei osservando superficialmente le opere esposte, saltandone la gran parte per soffermarsi solo su qualcuna più famosa e pubblicizzata (in qualche museo del Nord Europa ho visto che gli stessi responsabili della struttura facendosi carico degli orientamenti prevalenti dei visitatori, provvedono a segnalare i quadri cui questi dovrebbero dare la preferenza); così pure negli ambienti più vasti che ospitano le opere liriche l’attenzione degli spettatori oltre che andare alle sempre più improbabili produzioni di registi famosi in altri ambiti dello spettacolo, si esprime in applausi prima che il cantante finisca l’aria oppure nell’esultanza all’emissione di qualsiasi acuto mostrando così la medesima preparazione circa lo spettacolo che si va godere nel giudicare un quadro negli Uffizi (secondo me la formazione culturale è imprescindibile dalla preparazione di ciò che si accinge godere in fatto di arte e non solo visione estasiata sul momento del prodotto artistico). Inconsciamente omettevo ciò che ora invece mi serve mettere in rilievo, ossia che sono proprio quelle masse di improvvisati intenditori di quadri e di sculture che consentono ai curatori dei musei di farli sopravvivere e fruttare, mentre i veri intenditori, professori artisti e studiosi, come pure le scolaresche che giustamente li affollano, sono di scarso aiuto perché magari non pagano il biglietto di ingresso, al massimo consumano i prodotti della caffetteria ma trascurano i gadget e le pubblicazioni dello shop all’uscita che il turista affamato di ricordi acquista più volentieri.
Altrettando dicasi di quegli sciocchi (musicalmente parlando) tedeschi e svizzeri che a Verona contribuiscono a mantenere in piedi la costosa macchina organizzativa dell’Arena, incluso l’indotto turistico che ne sta alle spalle. Partendo da questo punto di vista premetto che non intendo infilarmi negli affari dei veneziani, ma solo fare qualche riflessione più allargata sui problemi che pone il turismo di massa alla società contemporanea, e italiana in particolare. E rispetto ai quali vorrei farmi carico, questa volta sì, della necessità di conciliare diverse e spesso opposte esigenze con i vantaggi che indubbiamente discendono da un fenomeno che, come tanti altri, in ultima analisi sono legati alla società di massa, pur cercando di non disturbare tante belle anime come quella di chi scrive.
Che su questi temi, per prima cosa, vi sia un’esigenza di governance non vi è dubbio giacché non basta l’autoregolazione, giacché il disagio lamentato non riguarda solo i residenti ma anche gli stessi turisti che non godono certo di affollamenti e code infinite per gustare le bellezze di una località o di un edificio. Che quest’esigenza sia già in atto lo si vede dagli stessi provvedimenti che prendono le amministrazioni locali di tassare le mete eccessivamente frequentate sia pure col risultato, come fa notare l’Economist, che se fai pagare nelle spiagge della Thailandia il bagnante si sposta subito in quelle del Vietnam oppure hai il paradosso che l’ammontare della tassa di ingresso sia talmente risibile, come capita a Venezia dove è fissata in 5 euro, da corrispondere appena al caffè che vai a pagare in Piazza San Marco. È ovvio che questo tipo di gravame non scoraggia l’ingresso di masse che si vorrebbe selezionare [1]. A questo proposito mi viene in mente di proporre agli amministratori locali, così oculati custodi delle bellezze artistiche e paesaggistiche loro affidate, di elevare più sensibilmente i biglietti di ingresso. Per esempio si potrebbe portare a 50 euro quello di Venezia, includendo magari nella tariffa gli ingressi gratuiti ai musei statali in modo che una coppia con 100 euro possa visitare senza troppi costi la città lagunare e, magari anche con la prole, grazie ai consueti sconti per minorenni o seniores che li accompagnano.
Ma è bene sempre fare attenzione quando si spara sul mucchio. È vero che, in un’ipotesi abbastanza percorribile e indolore per le tasche come questa, si avrebbe una selezione dei visitatori, ma è anche vero che verrebbe esclusa quella gran massa persone, soprattutto giovani, che oggi, grazie a Ryanair e Airbnb, riesce a farsi una settimana di vacanze all’anno per così dire low cost; si tratta degli stessi soggetti che oggi bivaccano dentro e fuori i Mac Donalds, sporcano la pubblica via e la piazza, schiamazzano e vociferano turbando i sonni dei residenti, ma è anche vero che si tratta il più delle volte del nuovo proletariato, costituito dai corrieri di Amazon e dai telefonisti dei Call Center (spesso con titolo di studio superiori alle loro qualifiche), che sognano una volta nella vita di poter visitare Venezia o Firenze. Ossia quella classe operaia di nuovo conio che, in ultima analisi, con i provvedimenti che propongo la si escluderebbe a favore dei veri “capitalisti” che si possono permettere di entrare a Venezia o a Pompei costi quel che costi, non disturbano le elucubrazioni dell’intellettuale locale col rumore dei trolley giacché arrivano in taxi o in gondola negli hotel senza sacco a pelo dove si spende 500 euro a notte, non bivaccano con panini e gelati nei bivi perché prenotano ristoranti a 80/100 euro a pasto ed egualmente non intasano gli ingressi dei musei o dei teatri perché hanno già acquistato i biglietti “salta coda” o se hanno la passione del mare scendono negli hotel con spiagge private, o addirittura, come capita nelle località più a la page della Sardegna, arrivano dal mare con i loro panfili. Come ho detto non alterano l’esistenza dei residenti e più di questi hanno la fobia di mescolarsi con le orde di turisti “economici”. Questo è l’effetto che può avere una certa alleanza portata alle estreme conseguenze tra il residente che chiede di non essere disturbato e il visitatore che cerca esclusività.
Certo i problemi rimangono tutti sul tappeto, anzi sono stati allargati e le sue ramificazioni ampliate. Come dare torto d’ambleu agli intellettuali cittadini cui appare sacrilego che i centri urbani siano strappati all’uso dei tradizionali residenti con le case di abitazione affittate masochisticamente e brevemente ai turisti e lo spettacolo conseguente dei centri storici abbandonati alle scorribande di questi nuovi barbari? Ma anche qui si inserisce un problema sociale. Del secondo problema abbiamo appena detto, circa il primo c’è da aggiungere che se non possiamo non scorgere una certa contraddizione in coloro che hanno sempre predicato che le soluzioni democratiche più autentiche sono quelle che partono dal basso, quando li vediamo poi invocare che dall’alto si prendano provvedimenti e si avviino regolazioni per stroncare questo malcostume che, per renderlo più urgente e pressante, non esitano ad agganciarlo a ogni altra problematica indirettamente collegata. Per esempio, dall’impossibilità per gli studenti universitari di trovare adeguati alloggi al centro con affittii ragionevoli e all’espulsione dei vecchi abitanti per le medesime ragioni provocando così la cancellazione del paesaggio culturale.
Problemi che, a dire il vero, sono sul tappeto da molto tempo nel mondo occidentale, da quando a San Francisco non si trovava più una casa in affitto a prezzi decenti dopo che una startup locale, la Airbnb, era riuscita a convincere i proprietari a destinare le abitazioni a più convenienti affitti brevi. il virus, poi, si è propagato a New York e a Berlino e, di seguito, ad altre capitali occidentali i cui centri storici erano stravolti dal turismo di massa, cosiddetto “mordi e fuggi”. Queste hanno incominciato a dettare qualche regola che, pur non limitando l’iniziativa privata, non permettesse che si creasse un danno al territorio e a chi lo abitava. In Italia, in cui la fantasia dei governi un tempo era arrivata perfino a tassare la prostituzione, le famose “marchette”, ha risolto il problema preferendo mettere gabelle agli affitti cosiddetti “brevi”, ossia i periodi di tempo inferiori ai trenta giorni, oltre i quali scatta l’obbligo di stipulare un contratto. I risultati non so quali saranno giacché aumentando le tasse si scoraggia l’iniziativa individuale ma si incoraggia anche il nero. Questo comunque è il contingente, ma si può partire ancora da un po’ prima per capire meglio che cosa ci sia dietro il grande fenomeno dei viaggi e dei viaggiatori? E non è che vi sa da qualche parte proprio la fobia della mobilità?
Possiamo cercare di inquadrare il problema su questo tema che oggi caratterizza la nostra esistenza e condiziona, seppure molte volte solo di riflesso, i nostri comportamenti. Alcuni fenomeni passano sopra le nostre teste e, spesso, ci vedono coinvolti direttamente e indirettamente anche quanto più siamo studiosi, intellettuali, ricercatori e conservatori delle cose che ci sembrano più belle da mantenere. Così è il tema della mobilità, vasto, collettivo ma anche molto personale, che sarebbe ingeneroso disgiungere da quello del turismo che ne costituisce solo una faccia.
La vita dell’individuo nell’era contemporanea non presenta più la fissità dell’epoca medievale, per esempio, in cui se si era nati in un determinato territorio il destino era quasi sempre di restarvi ancorato per generazioni (la famosa classificazione di Georges Duby in “contadini, guerrieri e sacerdoti”). Oggi la mobilità costituisce quasi una modalità costitutiva del nostro essere nella società contemporanea e irrinunciabile anche per chi possiede un elevato livello culturale (anzi forse di più). Di come si manifesti non solo negli strati sociali più sofferenti del pianeta ne ho trattato più diffusamente nell’ultimo numero a proposito delle migrazioni internazionali e il futuro della nostra società. Tuttavia anche a prescindere dalla mobilità internazionale costituita da uomini che perseguono il miglioramento della propria condizione o fuggono per qualche ragione dai luoghi in cui abitano, la molla del movimento agisce oggi a livello di individui e di famiglie in modo quasi ciclico: raggiunta l’età adulta i ragazzi preferiscono spostarsi nel centro città dove si studia, si stringono meglio amicizie, c’è socialità, ecc. e magari si incominciano a fare le prime prove di indipendenza sistemandosi da soli in un appartamentino in affitto. Le cose cambiano quando si mette su famiglia e arrivano i figli che richiedono una soluzione abitativa più grande e, se si può, con uno piccolo spazio verde a disposizione in cui poter allevare in modo più salubre i bambini o in alternativa disporre di qualche parco nelle vicinanze che soddisfi l’esigenza di attività all’aria aperta; quando poi i figli diventano autonomi torna il bisogno di vivere in città dove si colgono migliori opportunità lavorative…di vita sociale. Da vecchi, infine, una valida alternativa al quartiere della grande città in cui si è sempre vissuto in comunità o si è ritornati può divenire la periferia o il piccolo centro potendo vivere in uno spazio abitativo più ridotto e lì, se non ci sono intoppi per ragioni di salute e non mancano i servizi essenziali, di solito si conclude l’esistenza.
Gli americani hanno in qualche modo razionalizzato queste fasi cicliche dell’esistenza soprattutto della famiglia borghese che li porta a cambiare spazio e abitazione più di quindici volte nella vita e ne hanno fatto uno stile di vita legato anche al concetto della casa di legno possibilmente in affitto che, a differenza di quella di pietra, non radica quasi fisicamente l’abitante nel territorio e non fonda successioni e dinastie familiari. È questa visione anglosassone dell’esistenza abbastanza diffusa anche in Europa, cui facciamo eccezione significativa noi italiani che puntiamo ad acquistare la casa, che poi trasmettiamo agli eredi che, essendo sempre meno numerosi e se le abitazioni non crollano prima per incuria, diventano nel passare delle generazioni pure più ricchi e da qui l’investimento destinato a produrre reddito, affittando meglio ancora a turisti per periodi brevi. Alla base vi sono anche altre ragioni. Per primo il comportamento ondivago delle istituzioni che, sia pure per comprensibili ragioni di solidarietà sociale, chiedono maggiori sforzi al proprietario, limitandone in tutti i modi i diritti con tasse o non permettendo all’inquilino poco puntuale nei pagamenti di lasciare la casa, donde il rivolgersi a utilizzi oltre che più redditizi più sicuri come quelli dell’affitto breve. In secondo luogo, questa soluzione si rivela più opportuna sotto il profilo economico generale giacché il sistema alberghiero, per limiti di posti letto e incremento di relativi costi, riesce a coprire solo al cinquanta per cento l’ospitalità per cui se non ci fossero le case vacanza non si riuscirebbe a reggere un movimento turistico che nel 2023 ha visto in Italia 134 milioni di arrivi e 451 milioni di presenze.
La vita, dunque, è movimento e cambiamento perpetuo di abitudini e di spazi fisici. Anche nella mia esperienza personale quando torno nel quartiere cagliaritano dove ho trascorso la parte più bella della mia esistenza, la giovinezza, e ripercorro le strade ormai alla stregua di un turista delle radici non trovo più volti familiari di un tempo: gli amici hanno fatto scelte analoghe alle mie, sono andati altrove, qualche volto familiare che si è trattenuto ormai è invecchiato e irriconoscibile… magari è trascinato in carrozzina dalla badante. Quelle che un tempo erano le abitazioni di piano terra sono diventati studi medici, centri di analisi o studi di commercialisti e avvocati; piccoli e grandi magazzini, supermercati hanno preso il posto dei tradizionali i negozi di quartiere dove i nuovi residenti, giunti da altre parti della città e dell’isola, visto che hanno trovato gli affitti più convenienti e più vantaggiosi servizi della città, usano con più disinvoltura di qualche vecchio proprietario che si è trattenuto colà, ma anche qui è notevole il numero delle case vacanza.
A maggior ragione a uno, come chi scrive, che ha lasciato senza rimpianti il centro città di cemento e asfalto per una periferia in cui ha potuto impiantare giardino, orto e far crescere alberi, sembrano poco comprensibili certi mugugni intellettuali. Ma poi, in fondo, mi chiedo, i turisti di passaggio che cercano case per risparmiare dove fanno gli acquisti se non nei negozi di vicinato e dove si recano a mangiare se non nei ristoranti e pizzerie vicine? Non pochi di loro sono lì proprio per vivere un’esperienza differente di comunità. Perciò ritengo che l’argomento usato da chi addebita al turista di passaggio la responsabilità, tra le varie cose, di affossare il negozio diffuso di quartiere, alla fine si riveli abbastanza frusto. Probabilmente è più il residente che il turista a salire in auto per recarsi presso il grande centro commerciale a fare acquisti e trascorrere la giornata. Voglio dire attenti alle analisi e alle conclusioni, perché non so quanto l’ “intellettuale” ami trascorrere il proprio tempo nello spazio sotto il palazzo in cui vive, a intrattenersi con la mitica comunità che tanto rimpiange e decanta, a fare il tifo con gli avventori del bar che ha uno schermo gigante per le partite. Non tutti sono dei Pasolini. Spesso vi è solo il desiderio di generalizzare qualche ridotta esperienza o impressioni fugaci fatte di transiti casuali in una zona o in quartiere periferico a generare un’osservazione superficiale o a reagire epidermicamente a qualche sensazione negativa.
Vediamo di fissare un po’ meglio le questioni che nascono dall’esperienza e dal buon senso aggiungendo altre considerazioni a quelle già fatte, ma guardando soprattutto l’altra faccia della medaglia e mettendo in primo luogo sull’avviso prima di tutto di non sbagliare eccessivamente il bersaglio. È vero che a Roma, per esempio, sono tantissime le abitazioni in affitto breve, e lo si vede anche dalle inserzioni nei siti, che costano più degli hotel a cinque stelle: si tratta di antiche case nobiliari o di attici vicino alle località più quotate della Capitale, ristrutturate e ammodernate, possedute spesso da antiche famiglie che nel tempo hanno mantenuto e accresciuto le ricchezze senza che il sudore grondasse troppo dalla fronte oppure che sono state acquistate da imprenditori o da imprese che ne reputano l’utilizzo più conveniente dal punto di vista fiscale che costruire un hotel. Dopo di questi vi è la classe media che ha preferito abbandonare le vecchie residenze per abitazioni più comode (possibilmente con gli ascensori che tante vecchie case non possiedono), ambienti più salubri, ecc. possibilmente in periferia o nei piccoli centri, anche perché i prezzi sono più vantaggiosi. A Roma ho conosciuto professori di scuola media e impiegati in pensione che riescono a sopravvivere perché grazie alla liquidazione hanno potuto acquistare una casa che ora affittano ai famigerati turisti e che un domani passerà ai figli (più al figlio, oggi). Vogliamo che questa classe media, fatta di piccoli proprietari e frutto anche dell’intraprendenza nazionale, affolli le mense della Caritas per mangiare o scenda in piazza con i sindacati per chiedere a gran voce aumenti di pensione che le esauste casse dello Stato non possono concedere se non nell’ammontare di un obolo?
Una professoressa di lingue straniere in pensione mi raccontava con orgoglio che grazie agli introiti del suo Bed and Breakfast nella Capitale era riuscita a far concludere gli studi al figlio a Londra dove oltretutto si era già fatto un’ottima posizione e tornava sempre a trovare i vecchi genitori. Accanto alla fuga dei giovani dall’Italia che frustra gli acquisti delle case da assegnare ai figli (questi ormai stabilitisi fuori o le vendono o le affittano), sono tanti piccoli problemi che messi insieme orientano le decisioni di allontanarsi dai centri storici in cui un tempo si è vissuti. Anche rispetto alla vivibilità dei vecchi edifici. Così un architetto mi spiegava che le case del centro storico a Roma sono strutturalmente umide fin dalle fondamenta per cui bonificarle costerebbe troppo… tanto vale affittarle quindi a chi si ferma solo per una settimana (e così non compromette la salute al pari di chi sarebbe costretto a viverci tutto l’anno), o venderle a magari qualche tycoon straniero che ha i soldi sufficienti per acquistarle e ristrutturarle dalle fondamenta solo per passarci qualche volta.
Ma se Roma piange Pisa non ride, permettetemi la licenza poetica, perché un amico pisano mi spiegava tempo fa che le abitazioni lungo l’Arno risentono degli odori che secoli fa emanavano i magazzini del vino che stavano sotto e che tuttora le rendono intollerabili…soprattutto credo per chi è astemio. Le case nel Castello della mia città Cagliari, vestigia delle antiche famiglie nobiliari, odorano di muffa al solo metterci piede: negli anni Ottanta del secolo scorso furono in larga misura acquistate e ristrutturate da artisti, intellettuali e professori delle facoltà universitarie vicine con l’intenzione anche di farne una comunità culturale vivace e produttiva circondata da negozi d’artigianato artistico; poi tutti nel tempo si sono gradualmente allontanati lasciando le case ammuffite a quei pochi residenti che non potevano permettersi altre abitazioni nella cerchia cittadina. In definitiva, dietro questa usanza degli affitti brevi non ci sono solo imprenditori che acquistano e affittano oppure, come capita nelle grandi città d’arte italiane, famiglie di antichi patrizi che le affittano a prezzi proibitivi per un normale turista ma vi è dietro tanta classe media che le usa per fare investimenti alternativi a quelli bancari. In buona sostanza, anche in questo caso, l’attacco che arriva sempre più virulento da troppi strati della società civile sui giornali e nelle trasmissioni radiofoniche dedicate, sembrano il più delle volte animati solo da invidia sociale strumentalizzando più sofisticate considerazioni sociologiche.
Ma sotto il profilo dell’analisi sociologica vi è dell’altro. Per esempio, tanta di codesta vita di quartiere, identitaria e culturale, che viene rimpianta e che sa di buon tempo antico, possiede un carattere mitico perché tante volte l’espressione delle manifestazioni culturali, come ho già accennato, sono date appena dal bar dello sport in cui non si parla certo di libri o di tele ma dei flop della Nazionale e degli errori dell’allenatore della squadra locale. Non è tutto, quindi, un fiorire di librerie dove si presentano libri, di caffè letterari dove si declamano poesie e monologhi, di atelier d’arte o sezioni di Rifondazione dove si parla di politica. In realtà oggi questa vivacità culturale si è spostata sui social o nei salotti televisivi, ampiamente utilizzati da scrittori e artisti per vendere meglio il loro prodotti, tra un’analisi e un’intervista e un’altra. Per un altro po’ la realtà è frutto dell’immaginario sociologico, come i trolley che sembrano costituire il rumore di fondo quando pestano il selciato cittadino, quasi simboli della conquista di un territorio da parte dei nuovi barbari, ma che, a meno che non si tratti di Venezia o della città murata di Como o di qualche piccolo borgo che è riuscito a tenere fuori dal circondario cittadino il traffico automobilistico, sono coperti dal suono dei clacson e dal motore delle automobili e degli scooter che infestano i centri cittadini, anche perché tutte le proposte di creare vaste aree pedonali, che le popolazioni dei diversi Paesi accettano in tutta Europa, per primi sono osteggiate dai residenti che non vogliono rinunciare ad andare in auto e parcheggiare in doppia fila o sullo spazi riservato ai mezzi pubblici per comprare il pane o le sigarette o magari solo per esibire il nuovo acquisto del mezzo.
Quindi non mettiamo tutto a carico dei turisti e degli affittanti brevi. Già, l’esempio di tanti piccoli centri nella Mitteleuropa, immersi nel verde con servizi accurati e ottimi collegamenti, sembra la scelta ottimale per tanti cittadini europei. In fondo, come dicono i più seri analisti del problema del cambiamento climatico e della transizione ecologica, è vero che i Paesi e i governi devono fare la parte principale per affrontare i relativi problemi (per esempio forestando maggiormente le città o spostando i centri direzionali in aree meno abitate), ma è anche vero che spetta a ciascuno di noi mettere in atto gli accorgimenti e le scelte per vivere il meglio possibile e danneggiare il meno possibile l’ambiente che ci circonda. Perciò cercare ambienti dove esistono o si possono creare migliori condizioni di vita, anche andando a vivere in luoghi distanti dalle proprie origini e dai vecchi genitori oltre che il risultato di un’ascesa sociale rappresenta anche un passo in avanti in termini di responsabilità sociale. Non dimentichiamo, per esempio, che i centri storici se non hanno alberi millenari sono condannati dalle leggi urbanistiche a diventare forni in estate e ghiacciaie in inverno.
Qualcuno poi trova che, nell’intrecciarsi di questo problema con altri, un aspetto sia dato dall’assenza di stanze per gli studenti universitari. Francamente a me non sembra di scorgerlo. Piuttosto mi sembra di intravvedere l’antica strumentalizzazione di istanze di base da parte dei detentori di qualsiasi tipo di potere. Ci arrivo subito. Le più importanti università del mondo, quelle americane, stanno quasi tutte in sedi periferiche, Harvard a Cambridge vicino a Boston, Berkeley a Oakland e non a San Francisco, la Columbia più vicina a Harlem che a Manhattan, così in Inghilterra lo stesso discorso vale per le due maggiori, Oxford e Cambridge, che hanno sede nelle omonime cittadine. Certamente anche nei grandi centri ci sono le università cittadine, egualmente prestigiose, ma l’offerta formativa è molto vasta, andando dal pubblico al privato, scelta questa che consente allo studente di trovare anche la migliore soluzione logistica per frequentarla.
In Italia, il sistema universitario è quasi del tutto pesantemente ipotecato dal pubblico o dal potere pubblico controllato, da qui l’inefficienza, la corruzione e il mercimonio degli incarichi che ne deriva da parte dei mandarini che lo gestiscono. Perciò il rettore e il professore che, a differenza di quello americano che proprio nel piccolo centro può dedicarsi meglio alla didattica e alla ricerca, da noi utilizza la medaglia universitaria per ottenere incarichi, consulenze, esercitare la professione, fare il giornalista, l’uomo politico, lo scrittore delle sue e altrui materie, ecc. ecc., per cui ha bisogno di avere sedi vicine alle istituzioni, al Comune, alla Regione e, in capoluoghi come Roma, ai ministeri, alla Rai, ai giornali, luoghi che, come a Venezia si possono raggiungere a piedi e altrove in pochi minuti di auto, tra un esame e una lezione.
Non la voglio fare troppo lunga, chi legge questa rivista sicuramente ha più dimestichezza di me con questi problemi. Il risultato è che la ragazza o il ragazzo che intende frequentare questa università dovrà trovarsi un’adeguata sistemazione. Come possa disturbare la soluzione di questo problema il turista francamente mi sfugge. Le zone dove ci sono studenti universitari, intanto, rimbombano di trolley quanto quelle dove prevalgono i turisti perché la maggior parte va e viene il fine settimana da casa propria da cui trae quanto meno approvvigionamento di cibo e cambio di abbigliamento stagionale. Poi, quando sta nel quartiere non partecipa più di tanto alla vita locale con i suoi problemi e i suoi valori. Quindi, gli studenti sono i primi ad alterare il paesaggio culturale. Si creano quindi degli autentici centri universitari, in città e fuori, in cui sono disponibili case private e tutta l’economia locale finisce per girare intorno all’istituzione e ai suoi studenti che impongono. Così anche le loro preferenze culturali e i propri comportamenti. Ma tutto ciò prescinde dal turismo ed è improprio tirare in ballo per questa, come per tante altre questioni, rivendicazioni pseudo sindacali, rancori anticapitalistici, invocare interventi regolatori dall’altro col pretesto di garantire il diritto allo studio, contrastare la desertificazione dei centri storici e chi più ne ha più ne metta, come dimostra che il solo risultato è di mantenere le cose come stanno e non riuscire a farne tante altre che potrebbero risolvere problemi che poi così grandi non sono. Insomma, anche in questo caso tanti, a mio modesto avviso, usano malignamente le proprie risorse intellettuali per ideologizzare problemi che hanno una natura eminentemente pratica e la cui soluzione ha bisogno solo di buon senso.
E non mostriamoci tanto schizzinosi neanche davanti al problema economico. Non abbiamo materie prime, mi viene da rispondere all’antropologo schifato: la nostra economia, e la nostra posizione economica nel mondo, è affidata quasi esclusivamente alla nostra ben conosciuta – e apprezzata – genialità; ciò solo per dire, con un luogo comune abusato che il turismo è il nostro vero petrolio. Abbiamo anche visto che, grazie a questa risorsa, si arricchiscono non solo i grandi gruppi imprenditoriali turistici, ma anche il cittadino medio. Infatti, tutto ciò accade perché, in una piccola porzione di pianeta come il nostro Paese si concentra non del tutto casualmente, ma per una fortunata coincidenza di civiltà superiori, la maggiore produzione artistica e architettonica del pianeta, fenomeno che ne fa una lingua di terra che, per condizioni climatiche e geografiche, va da una delle catene montuose tra le più superbe e incantevoli al mondo alle spiagge bianchissime nelle migliaia di chilometri di coste che la circondano. La nostra caratteristica non sta nel possedere grandiose porzioni di territorio naturale, come altri con il Grand Canyon tra due Stati americani, la Foresta di Yellostone che occupa il territorio altri tre Stati Usa, le cascate del Niagara o di Iguazù che segnano il confine fra le nazioni più estese del mondo, le Torres del Paine in Cile con la vasta Patagonia argentina e cilena, gli spettacolari paesaggi geyser della Nuova Zelanda, la grande muraglia cinese, ecc. ecc. Da noi si concentra una quantità infinita di spicchi di montagne, spiagge, colline, laghi, fiumi, cascate, pianure che rendono il nostro Paese più attraente di ogni altra parte del mondo.
Pertanto, in un’epoca in cui l’uomo si rivela più mobile di altri periodi della storia, avido di conoscenze e il riposo dalle fatiche lavorative è stato sancito dalle leggi e dagli usi, chiunque può e deve, nell’ambito delle sue possibilità, cercare svago e ristoro dalla routine quotidiana, ma anche pace interiore, permettendosi di visitare luoghi decantati, pubblicizzati, ma anche meno conosciuti e attraenti per la loro singolarità come possono essere per esempio molti nostri piccoli borghi. Certo, non siamo i soli al mondo, anzi ci troviamo in un Continente, come quello europeo, che abbonda di arte, cultura e angoli di paradiso non inferiori al nostro e che ne fanno la meta più attrattiva al mondo di immigranti e turisti, in altri Paesi e continenti che molte volte per singola unità ci superano in numero di visitatori: pensiamo a città come Parigi e New York che, per numero di visitatori, sono superiori alle nostre. Però se da certi luoghi importanti vuoi raggiungere altre meraviglie artistiche o naturalistiche devi salire sugli aerei e impiegare un gran numero di giorni. Se da New York vuoi recarti a visitare i bellissimi parchi americani devi disporre di giorni, se da città come Venezia o Firenze vuoi raggiungere mete montane o marine devi fare solo qualche ora di macchina. Non a caso viaggiatori frenetici come i nordamericani riescono a visitare l’Italia, dalle Alpi all’estremità dello Stivale in una settimana.
Orbene, la domanda è: ci possiamo davvero permettere di buttare all’aria una simile ricchezza solo per idiosincrasie nazionali o paesane in cui viene messo in ballo un turista che il più delle volte non c’entra nulla o è inconsapevole? Non dimentichiamo, ripeto, che la materia turistica è quasi tutta di competenza locale e le amministrazioni comunali e regionali se vogliono possono già provvedere in autonomia e regolare flussi e disfunzioni. Ho premesso che è un problema di governance in un campo in cui tutto si può fare, compreso vietare tutto e rinunciare agli introiti. Per esempio, nella Sardegna dove vivo io, si è intervenuti a proteggere gli ecosistemi più fragili stabilendo un numero chiuso di visitatori nelle spiagge più frequentate attraverso un’apposita app; a Venezia, come sappiamo, si paga l’ingresso. Nessuno degli ospiti sembra protestare per queste iniziative, ancor meno lo sarebbe se da parte dei residenti ci si limitasse a far notare che i relativi introiti dovrebbero andare a migliorare le strutture turistiche e non in altre direzioni o ad arricchire indebitamente gli amministratori. Gli introiti del turismo a Venezia, per esempio, città collocata nel Nord Est del Paese dove si registra il maggiore introito turistico e numero di visitatori, secondo stime del Venice Projet Center, ci dice che nel solo 2023 la città lagunare ha avuto entrate di 397,4 milioni a fronte di costi totali di 74,3 milioni (raccolta rifiuti, pulizia cittadine, addetti ai servizi, ecc.). perché non utilizzare queste risorse per migliorare l’offerta e l’ambiente? E, comunque siano andate o vadano le cose (senza parlare di inchieste giudiziarie) sembra proprio che la maggior parte di queste risorse sia andata a vantaggio della collettività locale. Perché lagnarsi allora?
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Note
[1] How to make tourism work for locals and visitors alike in “The Economist” Newsletter August 7yh 2024.
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Aldo Aledda, ha rivestito importanti cariche istituzionali nella regione Sardegna e nel Coordinamento interregionale italiano, è autore di I sardi nel2q mondo. Chi sono, come vivono, che cosa pensano (Cagliari, Dattena 1991), Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche. (Milano, FrancoAngeli 2018), Sardi in fuga in Italia e dall’Italia. Politica, amministrazione e società in Sardegna nell’era delle grandi migrazioni. La politica italiana nei confronti dell’emigrazione e delle sue forme di volontariato all’estero (Milano, FrancoAngeli 2023).
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