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Sul sistema valoriale del nostro tempo, da un’esortazione di Massimo Cacciari e su alcune opere di Piero della Francesca

978880624085higdi Francesco Azzarello 

[] les capacités propres à nostre espèce et les richesses qu’elle a pu déployer depuis ses origines, le développement de la conscience dans toute sa potentialité, c’est-à-dire la connaissance précise de la distance qui sépare sa propre existence de tout ce qui l’entoure.

(Marcel Otte, L’âge d’or de l’Europe, Paris 2024, a proposito di un pensiero di A. Damasio) 

Premessa contestuale (prendendola alla lontana ma non troppo) 

Il filosofo Massimo Cacciari, da una decina d’anni almeno, si è fatto promotore, insieme ad altri validi studiosi, di un rilancio dell’Umanesimo italiano [1]. Al grande movimento di rinnovamento culturale non solo spetterebbero – così, lodevolmente, insiste il filosofo veneziano (allegando ragioni che condivido e rinuncio a presentare in questa sede, potendo chi legge facilmente ricostruirle con l’aiuto della bibliografia) – maggiori attenzioni all’interno della storia della filosofia, ma anche, circa il suo intero portato filosofico e storico-culturale, valutazioni più pertinenti della vulgata tradizionale, che lo riduce a un recupero della classicità in senso antiquario (privandolo di qualunque incisività a livello pratico e civile) ed a una sorta di ingenua glorificazione trionfalistica e astratta dell’umano (giudizio che ne azzera il pur evidente realismo).

978880625495higCacciari sottolinea in particolare l’aspetto tragico dell’Umanesimo, ovvero di quel gruppo di umanisti che hanno dimostrato non solo attenzione per la dimensione civile e per la coscienza del proprio tempo (caduta di Costantinopoli, crisi della Chiesa e del sistema culturale cristiano), ma anche una sorta di disincantata lucidità rispetto al coacervo di compossibili che fa l’umano, che può essere in una sola persona e nello stesso tempo bestia ed angelo  [2].

 Così piuttosto che nell’usuale “che cosa è l’uomo?” Cacciari riformula arendtianamente la questione centrale di Pico e di tutto l’Umanesimo in “chi sei tu dunque uomo“?  [3] E va da sé che riporto la domanda, oggi, come rivolta a tutto il genere umano, donne comprese e oltre il circolo intellettuale all’interno del quale e per il quale la formulò Pico, posto che la crisi ecologica e culturale che stiamo vivendo e la diffusa sensazione di trovarsi, per così dire, alla fine sono soltanto due delle tante caratteristiche quattrocentesche assimilabili al nostro tempo [4]. 

locandina-mostra-piero-della-francescaDi che si tratta 

In ogni caso (e, credo, oltre e più che per ragioni tecnico-scientifiche, nello spirito di riflettere sul passato per sopravvivere al presente) oltre le traduzioni platoniche del Ficino, la vena di sobria empiria scientifica dell’Alberti e l’incredibile avventura intellettuale di Pico della Mirandola, Cacciari annovera, fra le glorie del movimento, anche la capacità dello spirito umanista di farsi figura nelle opere dei grandi artisti italiani del Quattrocento e quindi di figurare, attraverso quel modo di essere e quel modo di fare, una risposta alla crisi del proprio tempo [5], tanto da corredare di un ricco e ragionato apparato iconografico la monografia del 2019 già indicata e dedicare un intero saggio all’umanesimo tragico di Piero della Francesca [6].

In una lectio magistralis del 2024, tenuta al museo Poldi Pezzoli in occasione della mostra Piero della Francesca. Il polittico agostiniano riunito, intitolata I volti di Piero [7], il filosofo (riecheggiando Aby Warburg), dopo aver fondamentalmente esposto il contenuto del saggio, chiudeva il suo intervento con una domanda provocatoria [8]: 

«Siamo in grado ancora di comprendere ciò che queste opere possono valere per noi? […] Se non le avvertiamo come parte essenziale della nostra civiltà oggi, […] diventano semplicemente oggetto di erudizione […] sono inutili […]. Possiamo dire: stanno. Sono loro, certo, inamovibili, eterne, quelle figure lì. Sono figure che stanno. […] Loro stanno. […] Ma se non ci invitano a riflettere sulla domanda: ma noi stiamo? Come stiamo noi rispetto a loro? Almeno porsi la domanda […] Solo Piero ci pone questa domanda in modo cosi inflessibile, come lo sguardo del Cristo risorto [quello della Resurrezione di Sansepolcro di Piero della Francesca, n. mia]. […] Dobbiamo rispondere a questa domanda. […] Abbiamo ancora qualcosa a che fare con questa civiltà? Oppure semplicemente andiamo a vederci le opere di Piero perché ci piacciono? Io vorrei che questa domanda ce la ponessimo». 

A mia volta e con le debite proporzioni cercherò in questo articolo non tanto di rispondere alla domanda di Cacciari quanto di sottoporla a meditazione, accostando il concetto di prospettiva come forma simbolica (cardine, insieme alla filosofia di Cusano, dell’argomentazione di Cacciari) al portato — a mio modo di vedere anche questo tragico nel senso di Cacciari — dei primi testi biblici sapienziali. La capacità umana di vedere e far vedere i rapporti fra le cose costituisce infatti anche in questi testi, com’è noto, un metodo per trovare il giusto modo di gestire questi rapporti [9]: tuttavia, mentre attraverso la prospettiva di Piero è possibile percepirli nella bellezza e pensarli come esatti e razionali (insufficientemente, anche se non del tutto inutilmente, come ha giustamente osservato Cacciari rimandando a Cusano), nei testi sapienziali essi appaiono chiaramente come del tutto contraddittori e, in ultima analisi, più o meno amaramente enigmatici, sfuggenti, se non (questione di interpretazione) vani [10].

71x3wikcsml-_uf10001000_ql80_Questo articolo nasce dal fascino paradossale che esercita questa sorta di (mi si passi l’espressione semiseria) “assonanza quasi dialettica con doppio salto temporale” fra le opere di Piero e i testi sapienziali, ispiratami dal pensiero di Cacciari e cerca di risolverne l’ambiguità. Quest’assonanza presenta infatti sia una vena divergente che una convergente. La prima, quella epistemico-etica, si potrebbe riassumere così: la scienza, indipendentemente da progetti e aspirazioni umane, serve solo a sapere come funziona qualcosa, mentre la saggezza, più modestamente e in modo del tutto cieco e sordo alle voci della propria supposta antagonista, a cosa farne. Ritenendo che né in epoca umanista né in nessun’altra questo modo di vedere le cose corrisponda alla realtà delle vicende umane preferisco in questa riflessione seguire l’altra vena di questa assonanza, quella che converge nell’attenzione al visibile come presupposto a una vita attiva a tutti i livelli. Vorrei inquadrare la questione posta da Cacciari dunque – per riprendere i suoi  termini – come un problema di civiltà: quando ci figuriamo il mondo e chi lo abita, siamo ancora personalmente e collettivamente interessati a vedere con chiarezza ed esattezza?

Come procedere? Con un gioco di specchi. La domanda di Cacciari, prima di metterne in dubbio la vitalità, sembra in effetti dirigersi a un proprio destinatario ideale [11], i cui tratti specifici dovranno essere cercati non solo nella lettera delle sue parole ma anche e soprattutto nella ricontestualizzazione sia delle opere di Piero che del modo di Cacciari di argomentarvi sopra (e di lì comincerò a riflettere, presentando la sua argomentazione non come teoria in sé ma come invito a pensare, rinunciando cioè a criticarla) [12]. Grazie a questa ricontestualizzazione sarà possibile discernere, con una certa approssimazione, il volto del destinatario quattrocentesco delle opere di Piero, per forza di cose alter-ego del destinatario della domanda di Cacciari, più giovane (e smaliziato) del suo antenato quattrocentesco e le cui peculiarità relative alla questione cercherò dunque di mettere a fuoco in un secondo passo dell’analisi, soprattutto (visto che si parla di visione ed iconologia) attraverso immagini. A questo punto si tratterà di saggiare brevemente l’incidenza, la consistenza e il valore delle qualità del destinatario di Cacciari nel nostro tempo, sia nel contesto della fruizione delle opere d’arte in generale e di quelle di Piero in particolare, che al di là dello stesso.  

Piero della Francesca, Madonna del parto (1455-65)

Piero della Francesca, Madonna del parto (1455-65)

1. Chi è il destinatario delle opere di Piero? 

L’argomentazione di Cacciari in breve 

Iniziando dunque dalla lettera della domanda di Cacciari su esposta, immagino che qualcuno, riflettendovi, potrebbe legittimamente pensare che il filosofo, parlando di civiltà, alludesse in modo generico alle cosiddette (e giornalisticamente rinomate) radici giudaico-cristiane dell’Europa, sempre più (teoricamente) in via di pensionamento o estinzione. In realtà Cacciari stava alludendo a qualcosa di più tecnico: la rilevanza nel sistema valoriale della cultura globale contemporanea di cui gode (o non gode) un mandato interpretativo che le opere di Piero pro- e impongono a chi vuole fruirne, ovvero la divina proporzione, la capacità cioè di esprimere simbolicamente con veneranda razionalità la perfetta distinzione delle parti (così il filosofo) nell’unità dell’essere. La straordinarietà delle opere di Piero starebbe, secondo il filosofo, nella sua capacità di imporre a chi guarda le sue immagini di muoversi ermeneuticamente sia nella dimensione della filosofia che in quella della mistica, in forza della razionalità estrema, ma per nulla priva di pathos, insita nelle sue figurazioni. Le sue opere renderebbero (con Cusano, specialmente il suo De visione Dei) visibile la sostanza del mistero [13]. Il che non vuol dire – prosegue Cacciari – certo esaurirlo ma farvi segno approssimandovisi il più possibile: come nella Madonna del parto (1455-65) il dodecaedro iscritto nella tenda (aperta dagli angeli a svelare il mistero della donna che precede e contiene, oltre lo squarcio sulla veste, il verbo) indica la sfera senza coincidervi. 

Piero della Francesca, Resurrezione di Sansepolcro (1450-63)

Piero della Francesca, Resurrezione di Sansepolcro (1450-63)

Nella Resurrezione di Sansepolcro (1450-63) il volto, tristissimo, del Cristo manifesterebbe poi sia la razionalità della disposizione delle figure dipinte che il pathos (tutto concettuale e, invero, tanto sobrio da sfiorare l’astrattismo) di chi, risorto, sa benissimo di non trovare fede sulla terra eppure continua invano, e quindi del tutto gratuitamente, a darsi. Il suo volto, come quello dell’immagine di Van der Weyden che tanto aveva impressionato Cusano, come in una icona odigitria (cioè capace di far segno all’immagine vera del divino e mettere chi la osservi sulla sua via [14]), riguarda ogni spettatore o spettatrice personalmente, con tutto il pathos che una visione del genere comporta.

Albrecht Dürer, I quattro cavalieri dell’Apocalisse, 1497

Albrecht Dürer, I quattro cavalieri dell’Apocalisse, 1497

È anche questo del destinatario, come quello della figura del risorto, un pathos concettuale? Sì, ma per il pubblico quattrocentesco l’esperienza, seppur espressa minimalisticamente, non aveva nulla di irreale: in primo luogo perché, a differenza che nel nostro mondo, le immagini che chiamiamo artistiche avevano il potere di essere contemplate (laddove oggi sono ‘solo” immagini “gratuite” ovvero “inutili” e quindi perfettamente ignorabili) e poi perché il destinatario vi accedeva richiamando alla mente sia dei contenuti che conosceva perfettamente che il modo di intenderli a lui contemporaneo.

Nella fattispecie la sensazione socialmente diffusa di trovarsi nell’imminenza dell’anticristo – questione legata alla crisi della Chiesa, testimone ne sia il celebre affresco sulla sua (dell’anticristo) predicazione di Luca Signorelli nel duomo di Orvieto – e di essere, di conseguenza, vicinissimi al Giudizio, cioè sulla via della salvezza o della perdizione eterna [15], contribuivano certamente a rendere le immagini di Piero più “eloquenti” di quanto oggi ci appaiano nella loro sobrietà relativa. 

2) Luca Signorelli, La predicazione dell’anticristo, Orvieto 1504 ca. (particolare)

Luca Signorelli, La predicazione dell’Anticristo, Orvieto 1504 ca.  

Masaccio, La caciata dei progenitori dall'Eden

Masaccio, La cacciata dei progenitori dall’Eden 1424

Il punto di Cacciari, tuttavia, è che in Piero il pathos può essere trasmesso a chi guarda le sue immagini con intelligenza e conoscenza del proprio tempo senza bisogno di essere esposto con il realismo del mimetismo emozionale tradizionale, riscontrabile anche in altre opere a lui coeve, p.e., nella Crocifissione della predella della Pala di San Zeno di Andrea Mantegna del 1456-9, o ne La cacciata dei progenitori dall’Eden di Masaccio del 1424/5. 

Se si considera il ruolo pre-estetico e utile delle immagini religiose dell’epoca –  utile p.e. a ricordare contenuti espressi in altri codici, ovvero a disporre l’animo alla giusta devozione [16], e utile, ancora, in quanto segno dotato di un potere reale [17] – si vede bene che le opere di Piero non cercano di costruire un destinatario correttamente contemplante-se-emotivamente-carico-e-funzionante ma correttamente contemplante-se-intellettualmente-attivo-e-quindi-cosciente-dell’emozione-che-proverà. Per dirla con una formula (brutale più che) bruta: Piero non mirava alla pancia, ma alla testa del destinatario, il (o la) quale, nella contemplazione delle immagini, ragionava sulla propria fine e su quella del proprio mondo (in senso escatologico, cosmologico, politico o culturale).

Mantegna, Crocifissione della predella della Pala di San Zeno, 1456-9

Mantegna, Crocifissione della predella della Pala di San Zeno, 1456-9

Che non potesse restare nel proprio intimo del tutto indifferente a quanto vedeva così chiaramente, così esattamente e geometricamente espresso nella sua inesorabilità va da sé ma non è il modus delle immagini di Piero, se non nella misura in cui l’immagine prospettica gli/le permetteva di vedere con chiarezza e precisione matematica, prodromi e senso di quel che l’aria dei tempi presagiva, cioè l’imminenza di una fine che, nelle immagini di Piero, non era affare di tutti-e-di-nessuno ma di tutti-,lui-(o lei)-per primo(a). Era qualcosa che toccava tutta la specie ma lo/la riguardava personalmente. 

La prospettiva come forma simbolica in Piero della Francesca consisterebbe dunque nell’usare – continua Cacciari (sempre pensando a Cusano) – tutta la forza della mente per rendere l’universo perfettamente, esattamente visibile, calcolabile ma, allo stesso tempo (e sobrietà espressiva non ostante), tragicamente manifestare insieme al proprio limite il mistero che la sovrasta. Distinzione senza separazione, unità senza confusione tenuta insieme (parafraso quasi letteralmente Cacciari) per grazia e per fortuna (concede Cacciari), dall’Amore capace di infrangere anche il “duro giudicio” (Inferno II, 96, il rimando è sempre di Cacciari), logos/verbum iscritto per ogni contemplante nel ventre della donna e tuttavia anch’esso sottoposto alla legge implacabile di un tempo sul punto di esaurirsi. Parte dunque della dotta ignoranza cusaniana, la divina prospettiva di Piero è in fin dei conti una congettura dolorosa e Cacciari ha ragione di sottolinearne nella sua domanda l’inflessibilità, la dura resistenza ermeneutica (oltre che semantica) che queste opere offrono a chi vi si approssimi “realisticamente”. 

Lo si capisce molto bene se si tiene presente l’elaborazione della prospettiva, meno mistica e più orientata alla conoscenza della natura, di Leonardo [18]. Com’è noto [19], nelle opere di quest’ultimo la prospettiva piuttosto che divina è aerea. L’aggettivo è dello stesso artista, che allude alla densità dell’aria in cui si trovano gli oggetti da rappresentare e alle sue conseguenze ottiche. Sfumando i contorni delle figure e le gradazioni di luce e colore, la forma simbolica leonardesca della prospettiva aerea restituisce il visibile naturale ma, lungi dal darlo a conoscere, lo ripresenta in tutta la sua inafferrabilità. 

Leonardo da Vinci, Monna Lisa

Leonardo da Vinci, Monna Lisa

Intendendo la prospettiva aerea leonardesca proprio come una vanificazione di quella  divina di Piero, lo storico dell‘arte Rafael Argullol (1982/2025: 75-84) ha sottolineato l’aspetto contraddittorio del Quattrocento. Come osserva lo studioso, l’epoca si sforza di trovare un equilibrio fra l’armonia dello spazio pittorico-matematico e lo spazio naturale ma finisce per sussumerla nell’incertezza ontologica provocata dall’infinitamente distante, dall’illimitato, dallo sconosciuto. Incertezza che si manifesta come enigma visivo. Certo: neppure la chiarezza assoluta, l’esattezza, la nitidezza un po’ algida delle immagini di Piero riescono a dare conoscenza della natura (come ognun sa, i corpi reali non possono essere ridotti a meri punti, in uno spazio vuoto e inerte), men che meno a svelare radicalmente il mistero cui si richiamano.

Leonardo da Vinci, La Vergine, il Bambino e S. Anna

Leonardo da Vinci, La Vergine, il Bambino e S. Anna

Gli enigmi di Leonardo tuttavia, costituendo un’esperienza di ineffabilità del visibile, possono inquietare ma non angosciare il destinatario, mentre l’invisibilità del fondamentale, del bene che tutto tiene insieme e inesorabilmente sfugge – vanno qui riportate alla mente la caduta di Costantinopoli, la lunga crisi della Chiesa, che non si risolverà nemmeno con le Riforme, e quella vitale dell’intero sistema culturale cristiano-medievale – questa invisibilità, unita alla chiarezza e alla precisione estreme delle figure disposte a significarla, nelle tele di Piero inchioda chi vi è esposto o esposta a vedersi già quasi e personalmente (per tornare alle espressioni di Cacciari) sub specie aeternitatis. 

Con Piero e Leonardo, prosegue Argullol, il Quattrocento esperisce una sorta di sintesi e di autocoscienza. Fra gioco (ma gioco serio: ne andava della conoscenza del mondo e della stessa sopravvivenza di chi lo esperisce) e crisi, il tentativo di avere una vera comprensione del mondo e dei rapporti fra chi lo abita, significato dalla forma simbolica prospettica (forma oggettiva della visione soggettiva) pone gli esseri umani, interpreti intellettualmente attivi delle immagini che contemplano, nei panni di una nuova soggettività. 

Lezione di anatomia del dottor Nicolas Tulp

Rembrandt, Lezione di anatomia del dottor Nicolas Tulp

2 Verso il destinatario della domanda di Cacciari 

Di questo nuovo soggetto quattrocentesco, individuo cosciente, emozionalmente vivo e ragionante, tanto contemplativo quanto calcolante, bisogna adesso cercare l’alter-ego storicamente posteriore che Cacciari, sospetto, presuppone prima di metterlo in dubbio nella sua domanda. Sarebbe facile ridurre la questione alla Entzauberung der Welt (disincanto del mondo, tr. mia) di weberiana memoria, alla rottura dell’unità confessionale cristiana in Europa e al relativismo (su questo punto insiste molto Argullol), anche politico, che ne segue, o alla nascita del soggetto (più o meno cartesiano) e del cittadino [20], alla guerra industriale, nucleare e digitale, ai totalitarismi o alla dialettica (negativa) della ragione. Tutte cose vere e da tenere in conto.

Geografo

Veermer, Geografo

Ma i tratti del destinatario di Cacciari vanno ricercati, a mio modo di vedere, principalmente sul piano delle forme simboliche. Come osserva Damisch [21], glossando Panofsky, con la prospettiva l’arte ha saputo essere tanto luogo che strumento della messa in discussione dell’opposizione aristotelica fra immaginazione e pensiero concettuale. Dopo il Quattrocento la consegna dell’immagine allo spettatore –  secondo la bella formula di Belting, il cui pensiero qui parafraso e sviluppo, spero, senza tradirlo troppo [22] – percepibile nella pratica di collezionare opere d’arte (pratica permessa persino dall’altrimenti iconoclasta Calvino) non solo costituisce uno degli aspetti centrali della nascita dell’opera d’arte moderna ma soprattutto indica un nuovo tipo di rapporto con le immagini. Esse divengono non solo (o non più nel mondo riformato) oggetto di contemplazione ma (e la cosa vale per tutta Europa) anche strumento di meditazione, di nuova valutazione del visibile ovvero di conoscenza. Il destinatario della domanda di Cacciari mi sembra insomma qualcuno che si riconosce nel Geografo di Vermeer (1668-9) o in una qualunque delle figure che compaiono nella Lezione di anatomia del dottor Nicolas Tulp di Rembrandt (1632), forse anche nel Filosofo della celebre tela di Salomon Koninck (1625 ca.) o nella Lettrice di Jean-Honoré Fragonard (1770 ca.), figure che per trovare la verità invisibile, fanno il vuoto attorno a sé e interrogano i libri, perché i (buoni) libri aiutano uomini e donne a pensare e a vedere con esattezza e razionalità. 

Kroninck, Il filosofo con il libro aperto

Salomon Kroninck, Il filosofo con il libro aperto

Jean-Honoré Fragonard, Lettrice,  1770 ca.

Jean-Honoré Fragonard, Lettrice, 1770 ca.

Goethe guarda dalla sua casa in via del Corso

J. H. Wilhelm Tiscbein , Goethe guarda dalla sua casa in via del Corso, 1787

Donna alla finestra

C. David Friedrich, Donna alla finestra

Qualcuno che ha capito, come Leon Battista Alberti, che lo sguardo umano mette il mondo in figura come se lo guardasse da una finestra, e che chi sa prendersi il tempo di guardare vedrà tutto il mondo passargli davanti, per il proprio piacere – come il giovane Goethe a Roma, ritratto di spalle nella propria casa di Via del Corso, da Johann Heinrich Wilhelm Tischbein nel 1787 – o per la propria voglia di avventura, come Caroline, moglie di Caspar David Friedrich (che la ritrae mentre guarda i battelli sull’Elba nel loro appartamento, una trentina d’anni dopo a Dresda), con esattezza e precisione, virtù che, al di là dell’arte che sa celebrarle, servono moltissimo anche nella vita pratica. 

Piet Mondrian, Composizione con rosso, giallo, blu e nero, 1921

Piet Mondrian, Composizione con rosso, giallo, blu e nero, 1921

Quentin Metsys, Il cambiavalute e sua moglie, 1514

Quentin Metsys, Il cambiavalute e sua moglie, 1514

Georges de La Tour, Baro con l’asso di fiori, 1630-4 oppure

Georges de La Tour, Baro con l’asso di fiori, 1630-4
oppure

Qualcuno che intende dunque, come il Geremia di Rembrandt (1630), che la buona convivenza impone che le ingiustizie siano denunciate, anche con veemenza ed eroismo, ma solo dopo averci pensato su, qualcuno che sa benissimo di essere mortale ma piuttosto che deprimersi apprezza la vita, per questo, ancor di più ed è disposto a giocarsi la partita ad armi pari, un mistero e un’arte contro l’altra. 

Ma, sembra in fondo chiederci Cacciari: noi siamo ancora questo coacervo di compossibili? 

Hieronymus Bosch, Il prestigiatore, 1502 ca.

Hieronymus Bosch, Il prestigiatore, 1502 ca.

Arnold Böcklin, Autoritratto con la Morte che suona il violino, 1872

Arnold Böcklin, Autoritratto con la Morte che suona il violino, 1872

3. Chi sei tu, dunque, destinatario reale della domanda di Cacciari? 

Checché se ne dica, io credo che il viaggiatore, cacciatore, avventuriero, sognatore, inventore, mercante, bandito, sceriffo, artista, bugiardo, filosofo, sempliciotto e scienziato (e corrispettivi femminili) che emerge dalla nostra storia, sia ancora dentro ognuno e ognuna di noi. Né (e soprattutto) ritengo, seguendo Hannah Arendt e Pico della Mirandola, che tutti questi cosa, in ogni caso, possano mai esaurire i chi umani [23]. Nessuna rivoluzione tecnica o mediale in atto potrà cancellare quei cosa fino a quando ci sarà qualche chi a resistere adattandosi e ad adattarsi resistendo. Al massimo l’incidenza di questi cosa sarà più bassa, come più basso è già il valore che attribuiamo alle capacità e alle pratiche che li hanno prodotti. 

Un articolo apparso su Science nel 2014 riferisce che, piuttosto che rimanere soli con i propri pensieri in uno spazio confinato (anche la propria casa), cioè privi di stimoli esterni, per un tempo che va da 6 a 15 minuti, alcuni esseri umani (la maggioranza dei partecipanti e delle partecipanti) hanno preferito autosomministrarsi delle scosse elettriche [24]. Piuttosto che aggiungere che né vogliamo né sappiamo più pensare, come potrebbe apparire a qualcuno, dimostra solo che siamo molto meno educati ed educate a farlo. Chi ha provato a praticare la meditazione (e, molto più tragicamente, anche le aziende che investono nell’intelligenza artificiale) lo sanno benissimo: pensare è una fatica. Uno sport estremo. Ne va, infatti, della nostra sopravvivenza.

Rembrandt, Geremia lamenta la distruzione di Gerusalemme, 1630)

Rembrandt, Geremia lamenta la distruzione di Gerusalemme, 1630)

La nostra mente aristotelica non riposa mai ed è fatta per ingaggiare un corpo a corpo serrato e continuo con il mondo. Il che, come tutte le discipline sportive, pretende oltre al talento naturale molto allenamento, se si vogliono raggiungere risultati eccellenti piuttosto che limitarsi a partecipare. Ma (ed è lì che fa leva chi opera sulla nostra cognizione) le cose del mondo che fanno parte della nostra vita non parlano sempre chiaro. Con l’aria che tira, al momento, per il globo e chi lo abita, è quasi lapalissiano dirlo. Ma la massima vale, mi spingerei a dire, per tutti i tempi, passati e futuri. Il mondo insiste a sottrarsi alla nostra mente almeno quanto facilmente le si presta. Neppure la bellezza artistica riesce a colpirci sempre con immediatezza, matematica certezza o intensità costante. Nondimeno i supermercati sono pieni di merce disegnata apposta per incuriosirci, le biblioteche traboccano di libri con cui poter saziare la nostra fame di senso e i musei pullulano di gente alla caccia incessante di qualcosa di difficilmente raggiungibile e, tuttavia, irrinunciabile. 

Per comodità di chi legge ripropongo qui di seguito la domanda di Cacciari all’origine di questo articolo: 

«Siamo in grado ancora di comprendere ciò che queste opere possono valere per noi? […] Se non le avvertiamo come parte essenziale della nostra civiltà oggi, […] diventano semplicemente oggetto di erudizione […] sono inutili […]. Possiamo dire: stanno: sono loro, certo, inamovibili, eterne, quelle figure lì. Sono figure che stanno. […] Loro stanno. […] Ma se non ci invitano a riflettere sulla domanda: ma noi stiamo? Come stiamo noi rispetto a loro? Almeno porsi la domanda […] Solo Piero ci pone questa domanda in modo cosi inflessibile, come lo sguardo del Cristo risorto [quello della Resurrezione di Sansepolcro di Piero della Francesca, n.d.a.]. […] Dobbiamo rispondere a questa domanda. […] Abbiamo ancora qualcosa a che fare con questa civiltà? Oppure semplicemente andiamo a vederci le opere di Piero perché ci piacciono? Io vorrei che questa domanda ce la ponessimo». 

Fra i tanti punti interrogativi posti dal filosofo quel che resta vero, fermo e reale (ed è in fondo il punto da cui parte e acquista senso il suo discorso) è il fatto che andiamo ancora a vederci le opere di Piero. Non so per quanto tempo ancora lo faremo, ma al momento è così. Per dirla come Cacciari, Arendt e Pico: questo “cosa” sta. Detto questo è ovvio che non tutti, contemplando quelle opere, si chiederanno se abbiamo ancora qualcosa a che fare con questa civiltà della bellezza, dell’esattezza, della lucidità razionale di fronte al pathos. Non credo, però, di essere troppo lontano dal vero affermando che se le opere di Piero ci piacciono, o meglio se andiamo a cercarle (e nel migliore dei casi ci lasciamo anche cercare da loro), lo facciamo perché della bellezza, dell’esattezza e della lucidità razionale di fronte al pathos del mondo in cui viviamo, sentiamo una grandissima mancanza. E non perché individualmente riteniamo queste caratteristiche ormai prive di valore o di efficacia, tutt’altro: “chi” di noi si affannerebbe per, che so, comprare dei brutti pantaloni, due taglie troppo grandi e indossarli dalla testa? È collettivamente, globalmente, che smettono di tornarci: la bellezza, l’esattezza e la lucidità razionale, che mantengono la perfetta distinzione delle parti nell’unità dell’essere, non sono parte essenziale della nostra civiltà oggi. Sono tutti valori fatalmente sacrificabili e sacrificati di fronte alle necessità economiche, a un’efficienza che non si ferma neanche davanti al cinismo o all’indifferenza, più egoisti e violenti. 

copertina_mosaici-di-saggezzeE allora: come stiamo noi rispetto alle opere che ci indicano quel gruppo di valori? Nel migliore dei casi come chi si guarda allo specchio e non si dispiace del tutto, ma se gira lo sguardo intorno, finisce per abbassare gli occhi fra lo sconforto e la vergogna: pantaloni a parte è infatti evidente che se la nostra pratica individuale di quei valori solo a volte resta un puro ideale, la nostra civiltà (che siamo anche noi e quel che facciamo insieme al resto degli e delle abitanti del pianeta) ha praticamente scelto di svalutarle, svilirle a cominciare dalle forme simboliche che le incarnano: pensare criticamente in modo autonomo, studiare, ragionare, lavorare per il benessere ma anche per la giustizia, accettando il rischio della propria libertà e riconoscendo dignità in quella altrui. Vani non sono per noi oggi tanto i rapporti fra le cose ma il tentativo, l’aspirazione sapienziale a indagarli con tutta l’oggettività, l’esattezza, la razionalità e la precisione possibili al fine di renderli belli e giusti. Come accadeva 2.300 e passa anni fa all’autore del Qohelet la sapienza ci appare oggi un brutto lavoro e un esercizio inutile [25]. Il postumanesimo tecnologico che abbiamo messo in piedi e cui abbiamo delegato tanto la nostra fatica che la nostra sovranità cognitiva ci ha regalato, insieme a forme sempre più asfissianti di controllo collettivo delle nostre individualità [26], questa bella sensazione di impotenza: come se della razionalità e dell’esattezza avessimo perso il ruolo di soggetto, titolare e promotore di complessità, per ritrovarci quello, forse più comodo ma molto più brutto e intellettualmente povero, di oggetto passivo e irresponsabile.

Come sfuggire, dunque, alle derive antropologicamente depauperanti e politicamente aggressive del transumanesimo e del postumanesimo tecnologico senza cadere in anacronismi ecocidi o nazionalismi altrettanto violenti e antidemocratici [27]? Avverte Qohelet (4,13): «Meglio un giovane povero, ma saggio, di un re vecchio, ma stupido, il quale non sa più come prendere decisioni». E aggiunge (7, 5): «Meglio ascoltare il rimprovero del saggio, «[…] [che] il canto degli stolti». Forse il primo atto di resistenza adattativa o adattamento resistente sarebbe ora quello di rivalutare, insieme alle forme simboliche che la incarnano — o la hanno incarnata, come nell’Umanesimo, tragico e non solo, segnalatoci da Cacciari —, la pratica complessa di quella forma estremamente concreta di postumanesimo critico [28], che tutta l’area semita, nell’ultima parte del Neolitico, chiamò sapienza. Con questo termine ci si riferiva al lavoro necessario al saper vivere, uno sforzo soggettivo che includeva e include la ricerca del noto, l’esplorazione dell’ignoto e la trasmissione dei risultati oggettivi ottenuti senza spacciarli per eterni, ritenendoli cioè sempre falsificabili dall’esperienza [29].

imagesQuesto sforzo di cercare ed esplorare con sapienza tutto ciò che si fa sotto il cielo – dunque anche l’attività tecnico-scientifica – non è finalizzato a stimolare acume o erudizione ma a capire, dopo aver visto tutto e il contrario di tutto, hic et nunc (qui e ora) cosa è meglio fare [30]. In un metodo orientato alla pratica la contraddittorietà insita nel metodo di rilevamento dei dati (la visione come esperienza) può sembrare un difetto. In realtà è una risorsa. Celebre l’esempio di Proverbi 26, 4 e 5. Il quarto versetto recita: «Non rispondere a uno stupido secondo la sua stoltezza, per non diventare simile a lui». Ma al versetto seguente si legge: «Rispondi a uno stupido secondo la sua stoltezza, perché egli non si creda di essere un saggio». È ovvio che il saggio che scrisse il versetto numero 4 non aveva visto soltanto uno stolto dire cose stolte – cosa che deve essere accaduta anche al saggio che scrisse il versetto successivo o allo stesso saggio con uno stolto diverso o con lo stesso stolto in due momenti diversi – ma anche un saggio fare lo stolto rispondendogli. Con il verso successivo a questi dati d’esperienza si aggiunge anche quello di uno stolto che si crede saggio perché un saggio non ha risposto alle sue stoltezze.

Che fare dunque? Rispondere o non rispondere? È evidente che né il versetto 4 né il versetto 5 devono essere intesi come ordini insindacabili. Chi si trova nella posizione di dover scegliere, può decidere autonomamente tenendo conto a) di tutti i dati d’esperienza disponibili; b) dello stolto specifico che ha davanti (amico? fratello? sconosciuto? straniero? innocente? attaccabrighe? fanfarone? giovane? anziano? …); e c) della situazione in cui si trova (presenza o assenza di terze persone o bambini); d) della stoltezza pronunciata (banalità, imprecisione, malignità…). L’importante non è tanto “cosa” si sceglie (se ci si sbaglia si proverà a rimediare alla prossima stoltezza) ma il fatto che un “chi” scelga autonomamente e a ragion veduta. E ha perfettamente ragione Cacciari a segnalare tutta l’attenzione filologica, tutta l’acribia scientifica cui gli umanisti ricorsero per rispondere alla crisi del loro tempo.

Sì: lo stesso sapiente che scrisse il Qohelet ammise che cercare ed esplorare con sapienza tutto ciò che si fa sotto il cielo è un brutto (Cacciari aggiungerebbe tragico) lavoro ma non se ne può, non se ne deve e, in una certa (piccola) misura, neanche se ne vuole fare a meno. Prosegue infatti lo stesso versetto: questo brutto lavoro è Dio che lo ha dato agli esseri umani perché si affannino in esso. Il che, tradotto in termini post-teistici e sradicato dalla cosmologia ellenistico-ebraica in cui fu prodotto, significa: gli esseri umani che evitano la fatica di pensare la loro vita muoiono o, se in qualche modo, sopravvivono (magari in versione tecnologica), perdono la propria specificità umana. Chi cede il proprio diritto-dovere di scegliere soggettivamente e a partire da criteri oggettivi, iscritto nella sua identità umana, o è morto(a) o diventa un’altra cosa. Certo: l’osservazione razionale del mondo, fatta in prima persona e liberamente, unita al pathos umanissimo per la sopravvivenza propria e quella altrui, forse, anzi di sicuro, non riuscirà a realizzare la perfetta distinzione delle parti nell’unità dell’essere che tutti mantiene e nessuno perde. Ma sarebbe veramente disumano rinunciare a sforzarsi di andarci vicino, di approssimarvisi il più possibile con la propria testa. E fra un brutto dodecaedro oggi, spigoloso, imperfetto ma umano, e una sfera perfetta, immortale ma fatta di pixel e bit domani, penso di sapere benissimo cosa è meglio. 

Dialoghi Mediterranei, n. 76, novembre 2025
Note
[1] Le ultime due pubblicazioni del filosofo sul tema a me note sono la monografia del 2019 e il contributo a un’antologia dei testi umanistici del 2016.
[2] Cf. Ebgi (2024: 34).
[3] In Vita activa la filosofa distingue fra il cosa dell’umano, intendendo tutto ciò che si può dire con una certa approssimazione di qualcuno (caratteri fisici o comportamentali, tendenze, preferenze…), e il chi ovvero ciò che è inesprimibile perché sfugge sempre a qualunque genere di controllo o previsione.
[4] Un’altra, e non la meno importante, mi sembra la fine, appunto, di una lunga epoca di pace.
[5] Anche lo storico dell’arte Baxandall sottolinea l’importanza delle immagini e della “visione” quattrocentesche come modo di essere e di fare, se capisco bene lo spirito del suo scritto (cf. 1985/2020: 199-201).
[6] Mi riferisco al saggio del 2024 ma è anche vero che già nel 2007 aveva dedicato una parte di un altro saggio iconografico a un’opera di Piero della Francesca e nel 2013 una conferenza su un’annunciazione del Beato Angelico poi edita, nel 2013, come breve saggio.
[7] Oggetto della mostra (20.03.2024-24.06.2024) era l’eccezionale riunione delle tavole del polittico realizzato da Piero per la chiesa degli Agostiniani a Borgo di Sansepolcro e “smontato” (le tavole rimaste finirono a New York, Londra, Washington e Milano) appena un secolo dopo la sua realizzazione (1489).
[8] Trascrizione mia dal video della conferenza (v. Museo Poldi Pezzoli, 26.03.2024) dal minuto 1:17;30 all’ 1:20;03.
[9] P.e. in Qohelet 3, 16 si legge: « Ancora ho visto sotto il sole: al posto del diritto, là c’è il delitto; al posto della giustizia, là c’è la malvagità».
[10] Mente all’alito impalpabile, hevel havalim del Qohelet, popolarmente e scorrettamente noto come vanità delle vanità. Sulla visione come metodo e sul rapporto sottile fra ineffabilità, inconsistenza e vanità nella letteratura sapienziale nonché sull’intero corpus di testi v. Mazzinghi (2014a, 2014b, 2013 e 2012), Römer (2020) e Lalouette (1998).
[11] Uso il termine “destinatario” nel senso tecnico di Roman Jakobson, ovvero di quel fattore della comunicazione a cui qualcuno indirizza un messaggio relativo a un contesto, attraverso un mezzo funzionante e secondo un codice. Il termine è grammaticalmente maschile ma implica ovviamente tutti i generi. 
[12] Rinuncio a muovere critiche all’argomentazione di Cacciari non perché ritenga che si debba assolutamente condividere ma perché del suo discorso più che l’argomentazione in sé mi interessa la domanda finale. Del resto Cacciari stesso, mi pare, presenta le sue idee come parte di un’ipotesi ermeneutica, come inizio di ulteriori (e altrui) riflessioni, non come punto finale di una ricerca storica sulle opere di Piero. In ogni caso, non essendo storico dell’arte non avrei le competenze necessarie a muovere critiche veramente rilevanti al riguardo.
[13] Sui rapporti fra Cusano e l’arte (Dürer, Leon Battista Alberti) a lui coeva v. Filippi (2013) e Carman (2014). Su Piero e le sue opere v. Longhi (2012) e Banker (2014).
[14] Cf. Belting (2020).
[15] Carman (2014) ritiene p.e. che l’obiettivo della salvezza debba essere considerato valido anche per autori religiosamente “freddi” come Leon Battista Alberti. L’assunto è, a mio modo di vedere, corretto e va esteso anche agli artisti più scientifici come Piero, dove è un’evidenza, e Leonardo, dove lo è molto meno.
[16] V. Arasse (2014: 61-88).
[17] V. Belting (2020: 11-27 e — sull’iconoclastia nella Riforma come conferma del potere delle immagini — 510-545) ma anche Arasse (2014: 19-26) sulla straordinaria storia d’inizio Quattrocento di San Bernardino da Siena e della sua tavoletta con il nome di Gesù. V. anche n.15.
[18] V. Aikema (2021: 222-237) ma anche, sui rapporti fra visione fisica e visione spirituale nel Quattrocento, Carman (2014). V. n.15.
[19] V. Damisch (1987/1993/2012), Baxandall (1985/2020) e Argullol (1982/2025) ma si tratta, al mio sguardo di profano, di nozioni ormai difficilmente smentibili.
[20] Qui uso il solo maschile coscientemente. Non che non esistesse il concetto di cittadina a Parigi nel 1789; semplicemente, in molte parti del mondo occidentale, si è dovuto attendere fino alla seconda metà del XX sec. perché all’espressione omologa seguissero contenuti omologhi.  
[21] (1987/1993/2012: 37).
[22] Tr. mia. dell’or. Auslieferung des Bildes an den Betrachter (2020: 26).
[23] V. n.3.
[24] Wilson et al. (2014).
[25] 1, 13.
[26] Una conseguenza nefasta del postumanesimo tecnologico attualmente in corso è che ci divide in controllanti e controllati/e. Mi riferisco a) al controllo economico esercitato da poche istituzioni su sistemi previdenziali relativi a milioni di persone b) a quello esercitato da grandi agenti telematici sulle menti di milioni di persone c) a quello esercitato da molti Stati sulle libertà individuali attraverso tecnologie sofisticatissime.
[27] Su pregi e difetti, opportunità e pericoli del transumanesimo, del postumanesimo tecnologico e di quello critico (anche rispetto all’Umanesimo e all’Humanismus ma senza, al riguardo, le distinzioni di Cacciari) v. Loh (2018).
[28] Non ho lo spazio per approfondire in questo articolo la questione sugli aspetti salienti di questo postumanesimo critico per cui mi limiterò a qualche cenno in questa nota. Un postumanesimo critico accettabile dovrebbe essere animato da alcune prese di posizione (valori) molto chiare e nette rispetto a poche (ma decisive) questioni, valori che permettono di volta in volta l’articolazione della sua razionalità specifica (la razionalità non può essere sostituita ma sicuramente va migliorata e concordata anche rispetto ai propri limiti): 1) tabuizzazione e rifiuto della violenza  2) superamento non suicida dell’antropocentrismo 3) limitazione delle disuguaglianze attraverso una gestione economica delle risorse meritocratica ma né predatoria né strutturalmente ingiusta 4) stile comunicativo sobrio, concreto e diretto a tutti gli esseri umani 4) fermo mantenimento della sovranità politica e cognitiva in mani umane, selezionate, il più possibile in modo democratico 5) valorizzazione della libertà individuale, delle pratiche intellettuali innovative e dei patrimoni intellettuali tradizionali.
[29] Il termine sapienza è, secondo me, sostanzialmente equiparabile a filosofia. Sull’intera questione (cioè anche relativamente alle relazioni epistemiche fra la saggezza-filosofia e le forme simboliche scientifiche e religiose) v. Cavadi (2015).
[30] Qui una selezione personale di meglio sapienziali, oltre a quelli citati nel capitolo: Proverbi 15,17: «Meglio un piatto di verdure dove c’è amore che un bue grasso dove c’è odio» / 16,18: «Meglio uno spirito umile che sta con i poveri che dividere il bottino con gli arroganti» / 19,1: «Meglio un povero che cammina nella sua integrità che un uomo dalle labbra contorte, che è anche uno stupido»/ 27,5: «È meglio un rimprovero fatto apertamente che un amore nascosto». Queste citazioni, come pure i versetti del Qohelet presenti nell’articolo, sono tratti dalle traduzioni di Luca Mazzinghi, presenti nell’edizione della Bibbia, curata da Enzo Bianchi per la Einaudi, edita nel 2021. 
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Francesco Azzarello, è stato segretario della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”, ha partecipato a varie attività antimafia collaborando con diverse associazioni palermitane. In Germania dal 1997, ha studiato Filologia romanza e Filosofia a Colonia. Dal 2003 insegna Filologia romanza a Friburgo. Oltre alle pubblicazioni accademiche in linguistica, letteratura e storia della cultura ha scritto di mafia, filosofia, teologia interreligiosa e altro. Dal 2015, con alcuni amici, accompagna diverse famiglie di profughi nel percorso di integrazione in Germania.

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