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Sui quadri segreti di Francesco Carbone

Tramonto ai tropici, di F. Carbone, 1960

Tramonto ai Tropici, di F. Carbone, 1960

di Rosella Corrado 

Un quadro dai colori intensi e contrastanti, un tramonto, esposto su una parete della casa di campagna dei miei suoceri, Mommina Urso e Carmelo Profita, continuava nel tempo a catturare la mia attenzione e ammirazione. Un’opera donata dal suo autore, Francesco Carbone, a mia suocera, cugina di sua moglie Elvira Franco. Non sapevo che quel dipinto un giorno sarebbe giunto a me e soprattutto non potevo sospettare quale segreto celasse al suo interno.

Venuto in mio possesso, portai il quadro dal corniciaio per sostituire la vecchia cornice. Questi la schiodò per potere accostare al dipinto i campioni tra cui scegliere quello più idoneo. Fatta questa scelta, il corniciaio sollevò il cartoncino raffigurante il tramonto sul cui retro è il titolo Tramonto ai Tropici e la data 1960. Nel rimuovere la cornice da eliminare, vedemmo con grande sorpresa un altro dipinto, questo su tavola (lato A). Due figure accostate, riprese di spalle, con dei grandi sombreri gialli sul capo e abiti dai colori vivaci, rosso e viola, assorte a guardare davanti a sé. Le due figure sono racchiuse entro una linea di demarcazione che delimita un bordo esterno, sicché il corniciaio osservò che sicuramente il pittore voleva eliminare questa fascia esterna e mi chiese se fossi d’accordo a eseguire tale operazione. Mentre riflettevo, perplessa, sul da farsi, il corniciaio sollevò la tavola e, avutala tra le mani, la girò scoprendovi un altro dipinto (lato B): due grandi tende beduine nel vuoto del deserto, senza presenza umana.

Donne con il sombrero, di F. Carbone

Donne con il sombrero, di F. Carbone

Ricoprendo quest’ultimo dipinto l’intero spazio della tavola, venne meno l’ipotesi di ritagliare il bordo esterno del lato A. Mi si pose invece un altro problema. Quale lato rendere visibile e quale nascondere, dovendo appendere la tavola a parete. Decisi non senza esitazioni di mostrare il lato A (Donne con il sombrero) dove due donne sembrano tenersi compagnia in un’atmosfera di serenità appagante, suscitando empatia nell’osservatore. Mentre l’immagine sul retro (Tende beduine), dai bellissimi colori ma con il deserto fuori e il vuoto dentro di esse, comunica un senso di tristezza e di abbandono.

Tende di F. Carbone

Tende beduine, di F. Carbone

Sollevata la tavola, dipinta sui due lati, scorgemmo con incredulità ed emozione un altro dipinto, questo su cartoncino. Un dromedario e un uomo che lo traina nel deserto prendono vita attraverso pennellate decise dai colori caldi terrosi (L’uomo con il dromedario). I dipinti erano diventati quattro. Ma anche questo cartoncino riportava sul retro un’altra raffigurazione, complessa ed enigmatica, di difficile decifrazione che anzi invito voi tutti a leggere e interpretare. Assenza umana e presenza animale, forse. Un fuoco, una corteccia d’albero, uno scrittoio? O semplicemente, l’intento dell’autore è una raffigurazione astratta, onirica, dove è vano cercare figure definite. La scelta di quale lato mostrare fu ancora una volta dettata dalla presenza umana su uno solo dei due lati (lato A), quello che decisi appunto di voler vedere.

L'uomo con il dromedario, di F. Carbone

L’uomo con il dromedario, di F. Carbone

Ero entrata dal corniciaio con un quadro ne uscivo con tre, divenuti cinque quando feci sviluppare, stampare su tela e incorniciare le foto del lato B. Questo ritrovamento davvero imprevedibile, commovente, ha suscitato in me degli interrogativi. Perché Francesco Carbone ha riposto, nascosto, sotto un foglio e racchiuso entro una sola cornice quattro dipinti? Per pura casualità, innato disordine, o perché voleva chiudere definitivamente e archiviare dietro un Tramonto una stagione di pittura figurativa che avrebbe abbandonato all’inizio degli anni ’60, proteso ormai verso la ricerca sperimentale, la scrittura visuale e le nuove tendenze nelle arti visive?

Senza titolo, di F. Carbone, 1959

Senza titolo, di F. Carbone, 1959

Prima di ipotizzare una risposta – che certamente alcuni amici e studiosi di Francesco sapranno dare – desidero mostrarvi altri due quadri appartenenti allo stesso periodo compositivo dei cinque dipinti illustrati, due oli donati a mia suocera, da lei custoditi nella casa di campagna, e pertanto mai visti in pubblico.

Il primo, del 1960, che potrebbe intitolarsi Madre Nera o Maternità dolente, raffigura una donna che tiene in braccio il figlio e lo avvolge con le sue lunghe braccia mentre il bambino cinge a sua volta la spalla della madre.

Maternità dolente, di F. Carbone

Madre nera, di F. Carbone, 1960

La donna è scura in volto, ma non per il naturale colore della pelle in terra d’Africa. Il suo volto cupo, lontano dalla serena gioiosità di una mamma, trasmette piuttosto angoscia e dolore. Il suo sguardo non è rivolto alla creatura che stringe a sé, si protende nel vuoto forse alla ricerca di un affetto lontano. Non posso non collegare questo dipinto al vissuto di Francesco e a sua madre, che durante la permanenza della famiglia in Libia perse due figli, uno in tenera età e l’altro di vent’anni. Due fratelli mai dimenticati da Francesco che a loro dedica una poesia intitolata Fratelli scomparsi (Allor fratelli miei /viver m’è dato /con le vostre voci nel cuore/che chiamano ancora/ un sogno d’infranta giovinezza/ ed un trastullo di bimbo inappagato.) Il dolore della madre di Francesco si fa, in questo quadro, paura di ogni madre della perdita del proprio bambino ma anche forza nel trattenerlo stretto a sé. Sentimenti che si materializzano nell’uso di colori caldi, rosso scuro, giallo, senape, marrone, stesi con pennellate vigorose.

Donna alla fontana, di F. Carbone

Donna alla fontana, di F. Carbone, 1960

L’altro quadro, anch’esso del 1960, che identifico come Donna alla fontana, può sembrare di primo acchito semplicemente illustrativo. Una giovane donna, appoggiata a una fontana, è protesa in punta di piedi verso il flusso dell’acqua cascante da un alto rubinetto. E invece nulla è statico in questo quadro. Il movimento più evidente è quello dei lunghi capelli al vento, ma se spostiamo lo sguardo al piano di appoggio della fontana e della donna stessa notiamo un terreno smosso come sollevato da una interna vibrazione della terra. Lo stesso minaccioso movimento è nel cielo non limpido ma tempestoso che delimita la sezione del dipinto a sinistra della fontana. In questo quadro, come nel precedente, le pennellate sono dense quasi materiche e i colori azzurro, marrone, nero, giallo, accostati volutamente in evidente contrasto.

Non ho particolari riferimenti biografici di quegli anni che possano aiutarmi a capire con i soli strumenti della razionalità quanto vi ho rappresentato. Di contro, percepisco con emozione e avverto uno stato d’animo dell’Autore dove sofferenza, quasi tormento, sono affrontati con la volontà di non lasciarsi sopraffare dalle correnti avverse della vita e cedere esausto all’inerzia. Francesco è proteso all’azione, alla vitalità, alla creazione per lasciare un suo segno nella dimensione sociale e artistica della realtà in cui vive. Tutto questo leggo dietro l’esplosione di colore che accomuna le opere qui esposte e che colpisce, affascina e a volte turba lo spettatore.

L’espressione pittorica individuale e solitaria legata alla giovinezza trascorsa in Africa – cui i quadri mostrati rinviano (Tramonto ai Tropici, Tende beduine, L’uomo con il dromedario, Madre africana) e al soggiorno in Sudamerica (Donne con il sombrero) – è presto abbandonata da Francesco, interessato negli anni Sessanta alla ricerca sperimentale e alle Avanguardie artistiche e negli anni Settanta al progetto che lo porterà per tappe alla creazione del Museo della civiltà contadina.

Sono gli anni in cui Carbone matura una idea di arte lontana dal lirismo. L’ Arte non deve rimanere confinata all’espressione di un sentire individuale rivolto alla contemplazione di uno spettatore solitario. Di conseguenza il percorso pittorico seguito fino ad allora gli appare come un darsi a se stesso in una dimensione autoreferenziale che la generosità di Francesco non concepiva più.

Da quel momento, egli intenderà l’arte come potente energia creativa, volta all’azione maieutica nei confronti delle potenzialità altrui (ricordiamo il suo lavoro di suscitatore e scopritore di talenti) e alla promozione di un riscatto sociale e culturale, che egli realizza con esiti inaspettati nel territorio di Busambra con il coinvolgimento dei suoi abitanti.

La sintesi di queste convinzioni sulla responsabilità dell’intellettuale e sul ruolo dell’artista in senso lato Francesco ce la offre nella Lettera a me stesso del 1998, dove si definisce «un intellettuale che tanto si è dato alla cultura e alle aspirazioni degli altri, alla vita e ai sogni degli altri e molto poco a se stesso».

Al riguardo trovo bellissime le parole di Salvo Cangelosi: «era l’uomo più generoso che si potesse immaginare. Sempre pronto a soccorrere l’altro» e quelle di Aldo Gerbino «la sua gentilezza d’animo si alimentava di un altruismo non volontario ma innato» lette sul numero di Nuova Busambra dedicato a Francesco dieci anni fa. La generosità è il tratto più distintivo dell’uomo Francesco. Questa generosità l’ho apprezzata anche in famiglia.

Due parole ancora vorrei dire sul Francesco Carbone che ho frequentato in famiglia. Con i cugini Franco – tre fratelli e quattro sorelle di cui la moglie Elvira era la minore – c’era un rapporto di grande affetto e condivisione che ci portava a incontrarci a Godrano, a Rocca Bianca, nella casa di campagna dei miei suoceri o in quella dei Franco a Cannitello. Erano occasioni liete e conviviali dove Ciccio ed Elvira catalizzavano l’attenzione, parlando di fatti accaduti in paese o raccontando le loro esperienze, come quella del Teatro povero di Monticchiello dove si recavano ogni estate. Elvira era l’angelo custode del marito, la memoria di un uomo distratto, colei che lo incoraggiava con il suo sguardo amorevole. Ciccio era un grande affabulatore, ti conduceva con leggerezza dentro uomini e storie facendoti vedere e quasi toccare persone e cose, amava raccontare gli aneddoti più curiosi e divertenti.

Era capace di dedicare a tutti attenzione e ascolto senza mai esibire la sua cultura, di grande spessore e mai rinchiusa in gabbie ideologiche, dando valore e importanza a chi si rivolgeva a lui. Le diverse idee politiche presenti in famiglia, in alcuni casi nettamente contrastanti (mio suocero era di fede monarchica), suscitavano vivaci discussioni ma mai alterchi o scontri. Mi colpiva anche la fascinazione che esercitava sui bambini per i quali animava giochi o costruiva giocattoli, con pezzi di legno trovati in campagna.

Parlava molto dei giovani pittori che presentava nelle mostre, invitandomi a visitarle, e dei tanti progetti creativi, sempre in fieri. Tra questi, predominante e totalizzante divenne nella seconda metà degli anni Settanta la realizzazione del Museo etnoantropologico della Civiltà contadina. Ricordo la festa dell’inaugurazione di Godranopoli il 9 settembre del 1983, alla presenza del sindaco Leoluca Orlando, l’entusiasmo e la gioia per un sogno realizzato.

337666390_1651355482029858_6706780078941582984_nDi Godranopoli ho un altro ricordo tangibile, un manifesto che fu prezioso dono fattomi da Ciccio. All’interno di un elaborato cartiglio dell’Università degli studi di Palermo (con timbro e firma del direttore dell’Opera universitaria) una imperiosa freccia indirizza verso Godrano e il Centro Studi e documentazione Godranopoli. Godranopoli campeggia nella parte inferiore del manifesto con le parole chiave: “Immagini segni e momenti della comunicazione territoriale”. Il timbro del Centro e la firma autografa di Francesco Carbone sono posti accanto all’impronta digitale e al segno di croce di tal … Giuseppe fu Francesco residente a Godrano. Questo manifesto mi sembra una sintesi perfetta dell’idea di Cultura di Carbone, senza barriere e compartimenti stagni, senza gerarchie, ma basata sulla comunicazione e interconnessione dei saperi.

Concludo con un appello: cerchiamo di salvare Godranopoli, facciamo di tutto affinché questa manifestazione per il centenario dalla nascita di Francesco non rimanga fine a se stessa!

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023

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Rosella Corrado, si è laureata in Filosofia con indirizzo psicologico, all’Università degli Studi di Palermo. Ha insegnato Italiano e Storia presso l’Istituto Tecnico Industriale A. Volta di Palermo. Ha collaborato, dal 1988 al 2016, con il Centro internazionale di studi pirandelliani di Agrigento organizzando a Palermo la presentazione degli annuali Convegni e poi coordinando la partecipazione dei gruppi di studio costituitisi ai Convegni pirandelliani di Agrigento. Ha ideato e promosso a Palermo, insieme all’Associazione per la Ricerca storico critico letteraria, due Giornate di Studio su Letteratura e Industria nella prima metà e nella seconda metà del Novecento occupandosi della pubblicazione dei contributi più significativi. Ha pubblicato articoli sulla rivista letteraria Chichibìo ed. Palumbo.

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