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Storia ed evoluzioni dell’implosione libica
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2017 @ 00:37 In Attualità,Letture | 7 Comments
Non c’è forse altro Paese crocevia della Storia quale è oggi la Libia, terra senza Stato e senza Governo, attraversata da una massa imponente di popolazioni che vi si riversano dopo sofferte e drammatiche fughe per tentare di raggiungere l’Europa e minacciata dalla presenza di numerosi gruppi jihadisti, primo fra tutti l’Isis. Per questi motivi si trova al centro dell’attenzione di molteplici osservatori ma rimane un Paese poco conosciuto nelle sue dinamiche interne e poco compreso nelle sue più complesse articolazioni. Da qui l’importanza di guide e strumenti che ci aiutino a conoscere questa realtà geografica che guarda con noi e come noi al Mediterraneo.
Michela Mercuri − docente universitaria di Storia contemporanea, analista ed esperta di politica estera, in particolare dei Paesi del Medio Oriente dopo le rivolte arabe − in questo denso saggio, Incognita Libia. Cronache di un Paese sospeso (FrancoAngeli 2017) ripercorre un secolo di storia della Libia alla ricerca delle cause che hanno determinato l’attuale stato di bellicosa anarchia del Paese, di cui non sembra intravedersi la fine, e che preoccupa tutta l’Europa per la mancanza di un unico interlocutore politico chiaro e stabile. La storia degli avvenimenti e delle dinamiche socio-politiche libiche, dall’inizio dello scorso secolo sino a questi ultimi mesi − con un breve excursus sulla precedente dominazione turca − non è fine a se stessa, ma la base necessaria per una compiuta analisi di ambito geopolitico che consente all’autrice non solo di spiegare nascita e atomizzazione di uno dei principali attori dell’attualità libica: le più che numerose milizie armate [1], con tutte le loro estensioni, in altri termini i loro sponsor locali e internazionali, ma anche di indagare intorno alle strutture e alla composizione delle tribù che costituiscono la base fondante dell’organizzazione sociale nonché di esaminare i rapporti di forza tra i rappresentanti politici dei territori libici e di formulare infine qualche ipotesi sul futuro realisticamente più probabile per questo Paese.
Per ovvie ragioni ampio spazio viene dato all’intreccio dei rapporti economici e politici che, nel bene e nel male, legano in modo privilegiato all’Italia, ed all’Eni, questa terra che si fa fatica a definire nazione, e che attualmente ha “due governi e mezzo”.
Divisioni
La chiave di lettura utilizzata dall’autrice si incentra su «le fratture regionali e tribali che sono emerse, con rinnovato vigore, dopo la morte del rais, tanto da divenire uno dei temi centrali del dibattito sui possibili assetti futuri del paese». Il primo e più evidente contrasto, che da sempre è saltato agli occhi di visitatori e studiosi è quello tra le due principali regioni, Tripolitania e Cirenaica − conquistate a due anni di distanza dall’Impero ottomano – perché
Altri fattori di differenziazione opportunamente sottolineati sono il prevalere, nella popolazione, dell’elemento arabo in Cirenaica e di quello berbero in Tripolitania, il radicamento storico della confraternita della Senussia in Cirenaica ed il suo ruolo come elemento unificante per la popolazione sia nell’ambito religioso che politico-sociale. Un retaggio che ancora oggi permane ma che riguarda, appunto, soltanto la Cirenaica. E ancora il fatto che gli Ottomani instaurarono rapporti amministrativi e di sudditanza verso l’Impero differenti nei due vilàyet (province). Di fronte all’invasione italiana le due regioni organizzarono la resistenza in modo diverso secondo la composizione dei centri di potere.
«Nella Tripolitania, priva di un riferimento politico unico, i volontari costituivano delle unità combattenti sotto la guida dei capi tribù e degli ufficiali turchi. In Cirenaica, invece, il panorama era diverso: qui c’era un unico centro propulsivo connotato dal potere politico e religioso della senussia».
Quando nel 1933 fu completata dall’Italia l’unione delle due province più il Fezzan (con Italo Balbo governatore generale)
Del resto, con l’ affermazione «La Libia non è mai stata una Nazione» si apre la prefazione al libro firmata da Sergio Romano.
La tribù come elemento social- mente fondante
Michela Mercuri considera il sistema organizzativo e socioculturale delle tribù uno dei cardini interpretativi più convin- centi della contemporaneità libica. Mentre il carisma della confraternita, dato anche dalla offerta di welfare dei vari monasteri, aveva limitato la frammentazione tribale nell’entroterra, «il potere delle tribù si consolidò ulteriormente dopo la conquista italiana». E più avanti «Le tribù, parzialmente “sedate” durante il quarantennio gheddafiano, sono state sovente aghi della bilancia degli equilibri interni» .
Risulta ancora oggi utile uno studio compiuto più di settanta anni fa dallo storico britannico Edward E. Evans-Pritchard, militare di stanza in Cirenaica durante la seconda guerra mondiale, che aveva vissuto per un certo tempo con gli indigeni semi-nomadi (Colonialismo e resistenza religiosa nell’Africa settentrionale, Ed. del Prisma, 1949). Se lo scopo principale del testo era descrivere l’importante legame dei beduini della Cirenaica con la Senussia, il contatto diretto dello studioso con la gente delle tribù, accompagnato da un grande rispetto, gli consentì di comprendere le dinamiche interne dei clan, e il loro rapporto con le città. Le tribù – notava Evans-Pritchard − a loro volta segmentate in suddivisioni di vari livelli, erano più forti delle città e non avevano a che fare con le amministrazioni, con le leggi e i tribunali cittadini. Erano alquanto incontrollabili, furono compattate soltanto in Cirenaica dall’obbedienza alla Senussia contro l’invasione italiana. Quando l’Italia fascista distrusse le strutture di base della confraternita, i monasteri, e tutta la loro organizzazione politica, venne a mancare l’unico elemento unificante. Essendo inoltre il principio della struttura tribale la contrapposizione tra le sue sezioni o segmenti, non c’era spazio per un governo o uno Stato [2].
L’era del rais
Michela Mercuri riesce a condensare sapientemente in poche pagine le vicende della Libia sotto il lunghissimo dominio di Gheddafi a partire dalle intese e scontri che i politici italiani ebbero con il dittatore. Prima di lui «la Costituzione promulgata il 7 ottobre del 1951, stabilì la nascita del Regno unito di Libia, con una Monarchia ereditaria e un sistema federale rappre- sentativo» ma
Dopo avere inquadrato storicamente la presa del potere del colonnello nel 1969, in parallelo con le vicende politiche del vicino Medio Oriente, l’autrice si propone di «capire le trasformazioni che egli ha impresso al Paese e che hanno contribuito a renderlo una delle sfide più complesse per la stabilità dello scacchiere mediterraneo» e delinea «l’impalcatura che il rais volle dare alla Libia, soprattutto da un punto di vista interno, per spiegare come questo assetto ne abbia forgiato il presente con tutti i suoi problemi di instabilità».
Al di là degli aneddoti sugli aspetti caratteriali e dell’ambizioso progetto del colonnello di “una terza via universale” per sanare il suo Paese, e senza disconoscere l’importante ruolo politico-strategico raggiunto con lui dalla Libia a livello internazionale, ciò che viene rimarcato è «un inasprimento della dittatura che presto si stava trasformando in tirannia personale di Gheddafi sulla Libia e sui libici» e il fatto che «trasformò in ideologia ufficiale dello Stato la rappresentazione non statale del potere propria della cultura delle tribù». Altri pesanti provvedimenti come lo scioglimento dell’esercito, sostituito da corpi militari e para-militari e servizi segreti alle sue dirette dipendenze saranno carichi di conseguenze.
Toccante è il racconto dell’allontanamento obbligato dal Paese delle famiglie di coloni italiani per ordine del rais nel 1971, con l’apporto di interviste rilasciate all’autrice da alcuni testimoni. Un torto che va inquadrato nell’ottica gheddafiana come una parte delle azioni “compensative” dell’Italia verso la ex colonia. Un’altra parte è l’immensa quantità di danaro richiesta più volte dal dittatore ai nostri vari governi. A questo punto va però ricordato che l’Italia fascista, per la conquista, aveva usato i più crudeli e cruenti mezzi infierendo anche sulla popolazione civile con deportazioni di massa, campi di concentramento e lavori forzati e costruendo un reticolato di 270 km per isolare definitivamente la resistenza beduina capitanata da Omar al- Mukhtàr [3].
Petrolio, migrazione, terrorismo
Da qui in avanti il saggio miscela in modo comprensibile anche a chi non abbia grandi conoscenze del tema, avvenimenti di storia e di cronaca recente con elementi di geopolitica, facendo entrare nella scena man mano quegli attori dell’area medio- rientale e internazionale, quei Paesi che, nella partita a scacchi con la Jamahiriya (appellativo che diede Gheddafi alla forma politica della Libia), possono trarre dei vantaggi economici o territoriali. Ora se l’oggetto del contendere sono senza dubbio le enormi riserve di petrolio e gas, negli anni recenti un massiccio e inarrestabile fenomeno, la migrazione, ha come cardine la Libia, passaggio quasi obbligato per l’Europa. Questa immane tragedia umanitaria è divenuta qui il nuovo business per bande di trafficanti e assassini, che, in rapporti ambigui e spesse volte con la complicità delle forze dell’ordine ufficiali, gestiscono la tratta degli esseri umani e i vari centri segreti di smistamento e detenzione dei migranti [4].
Se alla presenza di gruppi di terroristi islamici fortemente radicati, di campi di addestramento e traffici di armi si aggiunge che «il Consiglio presidenziale di Fayez al-Sarraj, che si è insediato a Tripoli da più di un anno e mezzo, non controlla neanche la capitale ed è sotto il giogo delle molte fazioni locali», minacciato in primo luogo dalle aspirazioni del generale Haftar che esercita il potere militare in Cirenaica, e che «nessuno dei due “governi libici” ha il benché minimo controllo dei gruppi che popolano il sud del Paese», si ha una miscela esplosiva che fa della Libia un Paese pericoloso e pieno di incognite. A proposito del traffico di armi un articolo pubblicato nel 2016 su «Limes» (B. E. Selwan El Khoury, 3/2016,101) cita un report del sito arabo Middle East Online secondo cui «…in Libia vi sarebbero circa mille trafficanti di armi e oltre venti reti di contrabbando attive tra Libia e Tunisia […] e sarebbero presenti tra i 22 e i 28 milioni di armi, vale a dire 20 milioni più di quelle lasciate dal regime di Gheddafi».
Michela Mercuri infine aggiunge che «la stabilizzazione della Libia è fondamentale anche per la solidità dei vicini regionali […], la persistenza di elementi jihadisti […] può continuare a mettere a rischio la stabilità della Libia e dei Paesi confinanti, in primo luogo l’Egitto». Nella parte finale l’autrice avanza l’ipotesi che ritiene più probabile per il futuro della Libia. Sebbene la stesura del libro sia terminata qualche mese fa, la Jamahiriya, in base ai riscontri con la cronaca, sembra andare proprio nella direzione indicata dalla studiosa.
Dotato di equilibrio tra le parti storico-descrittive e le ipotesi interpretative e forte di una bibliografia molto vasta, Incognita Libia è un libro da leggere e consultare, se si vogliono seguire le dinamiche di un Paese che ci riguarda tanto da vicino e con cui siamo obbligati ad intrattenere rapporti “amichevoli”, oggi più mai.
Il comunitarismo delle società arabe
Il punto di vista usato dalla Mercuri per comprendere le dinamiche del Paese, cioè il concetto di frammentazione regionale e tribale, ci sembra in sintonia con il pensiero di Khaled Fouad Allam, sociologo e politico di origine algerina, docente universitario di Islamistica e Sociologia del mondo islamico, recentemente scomparso. Il caso della Libia – a parte le sue peculiari caratteristiche evidenziate dalla Mercuri − si può inserire nel quadro interpretativo che lo studioso costruisce in linea generale per le società del Medio Oriente, ossia la mancanza di un discorso unitario forte. In primo luogo il sociologo fa notare come in questa zona del mondo le varie etnie e confessioni siano segmentate e si trovino inserite all’interno di una geografia delle fratture, ossia in territori delimitati da linee di frattura geograficamente date. Un chiaro esempio di ciò lo abbiamo in Libia dove il deserto, che si spinge sino al Golfo Sirtico, separa anche fisicamente Tripolitania e Cirenaica.
Le nazioni arabe nate dal collasso dell’Impero turco − afferma Fouad Allam − oltre la perdita delle antiche frontiere hanno subìto un trauma nel passaggio da impero a nazioni “moderne”, «non solo perché la società, nel suo complesso, non era preparata» ma perché è mancato «uno schema culturale in grado di aiutare la costruzione dell’idea di cittadino, di individuo, libero e uguale, a prescindere dalle appartenenze identitarie su basi etniche e religiose» (Allam, 2014: 103). In quelle che erano chiamate “province arabe dell’Impero ottomano” l’impianto istituzionale era «il millet che significa “quartiere” ma che definiva il modo di gestione del rapporto fra diversità culturale e istituzione musulmana» (ibid.: 96). Le varie comunità, cioè, mantenevano la loro autonomia in alcuni ma importanti settori. Le società mediorientali – dice il sociologo − sono essenzialmente di tipo comunitarista per cui il gruppo prevale sull’individuo e l’idea di nazione è partita dall’idea di gruppi in lotta fra loro (Allam, 2014: 94-96).
Riferimenti bibliografici
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