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“Solo l’Occidente conosce la Storia”. Le Nuove Indicazioni per la Scuola dell’infanzia e del Primo ciclo di istruzione

Roma, Bassorilievo Arco di Costantino, part.

Roma, Bassorilievo Arco di Costantino, part.

di Dario Inglese 

In Italia c’è ancora parecchia difficoltà a pensare adeguatamente le dinamiche interculturali e la dialettica tra identità e alterità che le contraddistingue. Per quanto, come si ripete sempre più spesso, si ammetta il carattere multiculturale e pluralistico della società contemporanea – contraddistinta da un movimento incessante di persone, idee, merci e da un progressivo indebolimento dei vincoli territoriali – non è affatto facile rinunciare alle categorie analitiche realiste di matrice romantica – quelle che postulano un’equivalenza quasi matematica tra lingua, cultura e territorio (e che sono alla base dell’idea di nazione) – che ci hanno permesso di interpretare il mondo per almeno due secoli.

Come sostenuto da molti scienziati sociali, tuttavia, nell’attuale «sistema-mondo» (Wallerstein, 1979) è anacronistico parlare di culture e società nettamente distinte e ancorate a regioni, spazi e territori rigidamente definiti: qualunque fenomeno locale, infatti, si situa all’interno di un mondo interconnesso e “deterritorializzato” in cui i confini diventano sempre più porosi e indistinti. Tra le scienze umane e sociali, l’antropologia culturale si adopera da decenni per un deciso cambio di paradigma nell’analisi della contemporaneità: soffermandosi, in particolare, sul peso che le migrazioni, gli esodi e le diaspore (più o meno forzose) hanno avuto (e hanno) sullo scacchiere mondiale, essa ne rileva l’importanza sempre più decisiva per la strutturazione delle identità individuali e collettive, facendo cadere la patina di oggettività che ha avvolto concetti apparentemente autoevidenti quali “cultura”, “civiltà”, “etnia”, “modernità”, “tradizione”, “stato-nazione”.

Ciò ovviamente non significa che, all’interno di uno spazio glocale sempre più ibrido, le differenze culturali vadano scomparendo o che gli incontri culturali siano sempre pacifici e non conflittuali. Globalizzazione non sta per omologazione: essa, al contrario, produce sempre nuovi ordini di differenza (Appadurai, 2001; Hannerz, 2001). Come rilevato da molti analisti, infatti, la rivendicazione (anche violenta ed aggressiva) della propria identità culturale si configura spesso come una reazione allo sgretolamento delle certezze tipico della «surmodernità» (Augé, 1996). Le culture, dunque, non si sono estinte, semmai si sono modificate e adattate al nuovo contesto, scardinando i lucchetti dei vecchi recinti territoriali nei quali erano state rinchiuse dagli attori sociali che le abitano/attraversano e da un certo sguardo scientifico che le ha reificate fino a trasformarle in etichette che individuano realtà monolitiche e omogenee. Ibridando specificità locali e suggestioni globali, invece, gli esseri umani costruiscono reti simboliche mediando sempre tra identità e alterità.

Da dove derivano allora le difficoltà del cambio di paradigma? Perché, nonostante l’evidente rimescolamento categoriale in cui siamo immersi, e che sperimentiamo praticamente ogni giorno non appena varchiamo la porta di casa, continuiamo a ragionare in termini di culture, società e civiltà chiuse e ben definite nei loro contorni? Perché, insomma, la dicotomia Noi vs Loro è ancora tanto potente e pervasiva?

Da una parte, come già indirettamente suggerito, ciò dipende dalla forza delle griglie interpretative del reale con le quali siamo stati educati e con le quali abbiamo per lungo tempo letto il mondo: com’è noto, infatti, sono proprio i nostri simboli culturali, mediati dal linguaggio, a farci vedere la realtà. Dall’altra, ciò è riconducibile a quella che l’antropologo Roger Keesing (1974: 88) ha efficacemente definito «magia dei simboli condivisi»: ovvero il potere di ogni cultura di costruire e cementare l’identità di gruppo sottraendosi all’analisi cosciente, fino a rendersi naturale agli occhi dei suoi interpreti. Gli esseri umani di ogni tempo e latitudine sono le vittime predestinate di un incantesimo da loro stessi pronunciato: «costruiscono dei noi, tracciano confini e si distinguono dagli altri esagerando somiglianze e differenze e occultando la loro opera di categorizzazione» (Inglese, 2023).

Ma c’è di più: il cambio di paradigma è altresì problematico per via della resistenza a considerare il viaggio e la migrazione, non solo come un tratto strutturale delle società odierne, ma come un fenomeno che ha attraversato l’intera storia di Homo sapiens. L’atto di spostarsi, infatti, non è una novità piombata sulle nostre società negli ultimi decenni; non è, dunque, un fenomeno da affrontare con politiche – gestione dei flussi, accoglienza, pratiche di integrazione nel tessuto sociale nazionale – improntate a un mero approccio emergenziale. La migrazione, al contrario, è un oggetto ampio e sfaccettato che, a un’analisi attenta e profonda, svela comportamenti e modelli tipici dell’essere umano: il movimento, il viaggio, il nomadismo come pratiche di abitazione e conoscenza del e nel mondo.

11Matilde Callari Galli (2005), a questo proposito, ha esplicitamente affermato che l’idea di sedentarietà è un’invenzione molto recente, probabilmente databile alla nascita e allo sviluppo dell’agricoltura; un’invenzione incomparabilmente più giovane rispetto alle abitudini nomadiche praticate dalla nostra specie per decine di migliaia di anni. Ancora: avere coscienza di un tal aspetto non significa negare il carattere sedentario del nostro modo di intendere la socialità, né tantomeno auspicarne radicali mutamenti nell’immediato. Significa invece adoperarsi per relativizzare quella «metafisica della sedentarietà» (Maalki, 1997) che ci impedisce di concepire il nostro modo di vivere (e di pensare) come frutto di scelte revocabili e che, soprattutto, ci spinge a vedere nel mondo che abitiamo un mosaico di culture/società/civiltà da proteggere da infiltrazioni esterne. Migrazioni, viaggi e spostamenti sono allora oggetti che, se opportunamente (ri)pensati e trattati, possono aiutarci a decostruire alcune delle categorie analitiche più consolidate cui facciamo quotidianamente ricorso, facendo cadere l’illusione che esse siano naturali, immobili e date una volta per tutte: 

«Se postuliamo che il nomadismo, il viaggio non abbiano un carattere di eccezionalità ma siano momenti basilari della dinamica culturale, il territorio, i confini, le identità dei gruppi divengono prodotti culturali, non più identità naturali ma elementi costruiti dalle pratiche dei contatti e degli spostamenti dei diversi gruppi nel corso della loro storia» (Callari Galli, 2005: 194). 

La storia dell’umanità è una lunghissima catena di incontri: una sequela di innumerevoli relazioni (a volte pacifiche, a volte conflittuali; sempre generatrici di nuove possibilità) tra singoli individui e gruppi, all’interno delle quali le identità (individuali e collettive) si sono forgiate – e si forgiano tutt’ora, continuamente – sempre in rapporto all’alterità. Meglio: una sequela di innumerevoli relazioni (a volte pacifiche, a volte conflittuali; sempre generatrici di nuove possibilità) tra singoli individui e gruppi all’interno delle quali le identità (individuali e collettive) si sono forgiate in rapporto a ciò che in un determinato momento storico viene definita alterità.

L’identità, come riconoscono ormai da tempo gli antropologi e le antropologhe, è un costrutto essenzialmente storico-sociale: non un a priori innato che appartiene intimamente alla coscienza singola o a un gruppo chiuso, bensì una costruzione contingente, mutevole, dal “carattere contrastivo”: plasmata incessantemente, cioè, rispetto alla diversità e continuamente alimentata (consapevolmente o no) dall’incontro con questa. Analogamente, il concetto di “cultura”, quello che associamo alle diverse società per identificarne puntualmente i modi di pensare e comportarsi, non è quel che siamo solitamente abituati a pensare: un’isola di simboli, significati e pratiche che identifica gruppi umani distinti e sostanzialmente circoscritti. Ogni “cultura” è invece intrinsecamente interculturale: frutto di incontri, frutto di scontri, frutto di relazioni. Ogni cultura è il prodotto sempre più dissolto o polverizzato di un flusso incessante di immagini, luoghi, persone, idee e merci che la globalizzazione non ha generato dal nulla, ma ha solo reso più visibile. Usando il linguaggio di Arjun Appadurai (2001: 45-70), si potrebbe insomma sostenere che la quotidiana esistenza degli uomini e delle donne contemporanei si svolga a cavallo tra diversi «etnorami», ovvero appartenenze etniche affatto rigide ed esclusive; che le loro riserve di immaginario originino da «mediorami» in cui circolano vorticosamente le immagini e i contenuti più disparati rimbalzando da un angolo del globo all’altro; che le loro visioni del mondo siano mediate da «tecnorami» che connettono in tempo reale spazi fisicamente lontanissimi.

Da questa prospettiva, dunque, la storia di lunga durata della specie umana incontra le odierne dinamiche socioculturali e ciò dovrebbe spingerci a rivedere molte delle griglie interpretative con le quali interpretiamo la dialettica tra individui, gruppi sociali e, più in generale, Stati nazionali. Continuare a sostenere che nello spazio si incontrino soggettività portatrici di identità – individuali e collettive – granitiche, cristallizzate e dai contorni netti, infatti, non è soltanto impreciso dal punto di vista scientifico, è pericoloso dal punto di vista geopolitico: una tale postura alimenta discorsi ambigui che, se va bene, si traducono in un’ingenua, astratta e impraticabile tolleranza multiculturale o, se va male, legittimano pratiche di chiusura, esclusione e violenza.

Alla luce di questa lunga premessa, la cui pertinenza mi auguro si chiarirà grazie alle righe che seguiranno, è mia intenzione riflettere sulle Nuove Indicazioni per la Scuola dell’infanzia e del Primo ciclo di istruzione (2025) emanate qualche settimana fa dal Ministero dell’Istruzione e del Merito (MIM). Questo documento è stato presentato dai suoi estensori come uno stimolo alla discussione pubblica sul ruolo e sulle finalità del sistema educativo nazionale. Tuttavia, il tono perentorio delle sue affermazioni, unito a una certa indifferenza rispetto alle più avanzate acquisizioni pedagogiche e scientifiche, ne fanno un testo dal sapore smaccatamente politico che presenta una serie di idee forti sull’identità italiana e sullo spazio cui l’Italia, secondo la vulgata, apparterrebbe: l’Occidente.

Potrebbe apparire, lo riconosco, piuttosto spericolato collegare la bozza di una futura circolare ministeriale sull’istruzione a più ampie e complesse questioni antropologiche, ma non è così: all’interno dell’attuale congiuntura internazionale (il déjà-vu da Guerra Fredda innescatosi dopo la deflagrazione del conflitto tra Russia e Ucraina nel 2022, la tragica devastazione di Gaza e la sempre più sfacciata colonizzazione della Cisgiordania da parte di Israele, la rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca e il conseguente inasprimento delle relazioni diplomatiche e commerciali tra USA, Unione Europea e Cina), il Governo italiano sembra proprio impegnato a ridefinire i termini del dibattito pubblico in chiave sovranista, ambiguamente anti-europeista (in opposizione al consolidamento dell’Unione Europea come soggetto politico federale) e convintamente ultra-occidentale (a sostegno di una visione di un Occidente valoriale, metastorico e non politico nello scacchiere mondiale). Le suddette Indicazioni, non a caso, si inseriscono a pieno titolo nella temperie politica odierna e, attraverso l’uso strumentale di alcune discipline scolastiche, su tutte la storia, veicolano un chiaro messaggio su chi siamo e chi saremo chiamati ad essere che non può essere sottovalutato.

Ciò che salta subito agli occhi, scorrendo il documento, è l’assenza di qualsivoglia riferimento esplicito all’educazione interculturale. Una dimenticanza quantomeno sospetta. Certo, qua e là si fa riferimento all’importanza dell’integrazione degli alunni di origine straniera o si ragiona sulla natura relazionale dell’identità personale e culturale di ciascuno studente, ma a mancare è proprio una riflessione articolata sul senso dell’accoglienza, sul confronto con l’alterità e sul suo potere trasformativo. A prendere la scena, al contrario, è il senso di appartenenza a qualcosa di più grande. Un quid cui la scuola deve educare: 

«l’allievo scopre la propria identità personale e la propria appartenenza a una storia cronologica e socio-relazionale comune. Ed è nell’identità personale e culturale di ciascun allievo che si riconosce la sostanza e la dignità della persona, la sua dinamicità perfettibile alla quale la scuola concorre con tutta la ricchezza delle sue sollecitazioni» (ivi: 8). 

Oppure, 

«la libertà è il valore caratteristico più importante dell’Occidente e della sua civiltà sin dalla sua nascita, avvenuta fra Atene, Roma e Gerusalemme. Capire che cosa è la libertà e soprattutto cosa significhi essere liberi (anche attraverso il confronto con coloro che liberi non sono, in moltissime parti del mondo), agevola la comprensione di cosa sia una democrazia occidentale e le connessioni esistenti fra quest’ultima e il sistema dei diritti e dei doveri di cittadinanza conquistati dall’Europa, anche al prezzo di guerre terribili, nella prima metà del Novecento» (ivi: 10). 

12Cosicché, quando nella stessa pagina, poco sotto, si dice che la libertà «non è solo autodeterminazione individuale, ma è una costruzione collettiva, che si sviluppa nel dialogo e nel rispetto delle diversità» (Ibidem), non ci si può non domandare che cosa si intenda esattamente per «rispetto delle diversità culturali, linguistiche, cognitive ed emotive presenti nella comunità scolastica» (Ibidem) se il punto di vista adottato è così esplicitamente di parte. In che modo, cioè, queste differenze verrebbero rispettate esattamente? Ma soprattutto: dove starebbe concretamente il confine tra l’Occidente, con i valori suoi propri, e questi universi altri?

È proprio questo il punto: la visione delle Nuove Indicazioni ruota intorno a un’immagine forte, chiusa e ben definita dell’Occidente e, nello specifico, dell’identità italiana, che di questo ambiente oggettivo e circoscritto fa parte integrante. Le idee di liberalismo, costituzionalismo, diritti umani, uguaglianza, libertà, legalità, democrazia, libero mercato, separazione tra Stato e Chiesa vengono considerate creazioni originali che l’Occidente sembra non condividere con nessun altro sistema culturale del mondo. E la scuola, da questo punto di vista, non può che trasmettere i fondamenti di questo spazio culturale e morale, prima ancora che geografico: deve infonderli alle giovani generazioni e, qualora i suoi ambienti fossero agiti anche da alunni di origine straniera, presentarli come facenti parte di un pacchetto da assimilare in toto in vista dell’integrazione (integrazione, va da sé, concepita come un movimento che riguarda solo la popolazione immigrata e non certo i membri del corpo nazionale naturale).

All’interno di una civiltà occidentale nata in illo tempore all’incrocio tra Atene, Roma e Gerusalemme, e arrivata senza soluzione di continuità fino ai giorni nostri, i programmi scolastici sono sostanzialmente chiamati a ribadire i confini del Noi e, nel ventaglio delle diverse discipline, la storia si ritaglia un ruolo decisivo, assurgendo a faro identitario. «Solo l’Occidente conosce la Storia» (ivi: 68), la formula icastica (e un filo provocatoria) che apre la sezione dedicata alla didattica della storiografia, ha così una funzione performativa, se non addirittura mitopoietica. Essa mira a rinnovare, attraverso una formula magica, l’incantesimo che rende reale, concreta, eterna la distinzione tra the West and the Rest. E non basta certo il parziale aggiustamento che arriva qualche rigo dopo a cambiare il senso del discorso: 

«Altre culture, altre civiltà hanno conosciuto qualcosa che alla storia vagamente assomiglia, come compilazioni annalistiche di dinastie o di fatti eminenti succedutisi nel tempo; allo stesso modo, per un certo periodo della loro vicenda secolare anche altre civiltà, altre culture, hanno assistito a un inizio di scrittura che possedeva le caratteristiche della scrittura storica. Ma quell’inizio è ben presto rimasto tale, ripiegando su se stesso e non dando vita ad alcuno sviluppo; quindi non segnando in alcun modo la propria cultura così come invece la dimensione della Storia ha segnato la nostra» (Ibidem). 

La puntuale conoscenza storiografica prodotta dall’Occidente, la sua capacità di dare un senso alla bruta successione degli eventi, la dimensione morale che ha assunto nei secoli la sua riflessione politica (movimento che inizia con l’opera pionieristica di Erodoto e culmina con l’avvento del Cristianesimo e l’immagine lineare del tempo che esso infonde alla mentalità classica), trasformano la Storia in uno «specchio dei progressi dello spirito umano» (ivi: 69) e preparano il terreno all’indiscusso e non problematizzato predominio europeo e americano sul mondo: 

«è attraverso questa disposizione d’animo e gli strumenti d’indagine da essa prodotti che la cultura occidentale è stata in grado di farsi innanzi tutto intellettualmente padrona del mondo, di conoscerlo, di conquistarlo per secoli e di modellarlo» (ivi: 68). 

9788883537011_0_0_0_0_0Eccolo, allora, il ruolo decisivo della storia in un progetto didattico e ideologico di tal fatta: una storia assoluta, nazionale e occidentale, priva di complessità e sfumature, all’interno della quale la sensibilità interculturale appare superflua e non pertinente perché punta a cementare i confini comunitari e a spingere all’esterno, da sempre e per sempre, tutto ciò che viene avvertito come diverso e altro. Una storia che diventa racconto mitico delle origini o allestimento museografico utile a contemplare le radici culturali profonde: passerella dove identità ipostatizzate sfilano eterne e immutabili, pronte a incontrarsi senza perdere la propria specificità o, peggio, a scontrarsi inesorabilmente a vantaggio del più forte. Una Storia identitaria che elimina alla radice la storia perché si fa guardiana di una supposta cultura pura o, come dicono gli estensori del documento, 

«arena per eccellenza dove post factum si affrontano il bene e il male variamente intesi. Dove rimane memoria delle imprese degli individui e dei popoli, e si compie in qualche modo il loro destino finale: una sorta d’inappellabile tribunale dell’umanità» (ivi: 69). 

Da questi presupposti non possono che derivare le successive considerazioni didattiche e i suggerimenti per la strutturazione della programmazione disciplinare. Le Nuove Indicazioni, ad esempio, privilegiano lo studio delle vicende italiane e occidentali, come se i contorni di queste fossero facilmente circoscrivibili, appellandosi al principio Non multa, sed multum; tolgono spazio alle storie non euro-americane, a dispetto della presenza sempre più massiccia di immigrati e giovani di seconda generazione tra la popolazione scolastica nazionale; svalutano l’apporto che altri spazi culturali hanno avuto nella creazione di quell’oggetto chiamato Occidente; sviliscono la natura coloniale delle relazioni che per secoli l’Europa ha intrattenuto con l’alterità; preferiscono, dal punto di vista metodologico, l’aneddotica edificante all’analisi critica, affermando quanto sia irrealistico educare i più piccoli all’esegesi delle fonti [1]; esaltano le grandi imprese e i grandi personaggi che hanno fatto la storia politica occidentale, a scapito dei fenomeni (inter)culturali di lunga durata. Il tutto, ed è davvero ironico, nonostante il documento faccia riferimento all’insegnamento di Marc Bloch. Il tutto mentre negli stessi giorni se ne andava Lucio Villari, insigne storico dell’Italia moderna e rigoroso osservatore delle congiunture internazionali all’interno delle quali le storie locali acquistano significato.

Le criticità del testo in questione sono state evidenziate da più parti [2] e tutte vertono essenzialmente su un punto: in un’epoca in cui le scienze umane e sociali, storiografia compresa, mettono sempre più in discussione la validità euristica di narrazioni nazionalistiche e culturaliste, è per lo meno discutibile, per non dire preoccupante, il ritorno a visioni ristrette e radicalmente etnocentriche della storia.

Innanzitutto, parlare di Occidente come di un dato di fatto – percorso necessario che da Atene, passando per Roma e Gerusalemme, arriva dritto all’Europa e agli Stati Uniti di oggi – è scientificamente errato. Un tale modo di procedere ignora la genesi di un concetto che, scriveva saggiamente Franco Cardini (2015) qualche anno fa, a dispetto della patina di arcaicità che si porta dietro, e che il discorso mitopoietico ancora oggi in voga fa risalire almeno alle guerre persiane del V secolo a.C., è tutto moderno, anzi contemporaneo. Immaginare un rapporto di filiazione diretta tra il mondo greco-romano-cristiano/cattolico e la civiltà euro-americana di oggi, infatti, è possibile solo a patto di eliminare arbitrariamente la lunga storia di intrecci che questo spazio poroso ha intrattenuto, e intrattiene, con altri spazi altrettanto porosi: quello arabo-islamico, quello cinese, quello indiano, quello nativo-americano, per restare solo ai più conosciuti.

Si potrebbero fare centinaia di esempi fin troppo noti a sostegno della considerazione precedente (il decisivo apporto islamico per la riscoperta della filosofia greca nell’Europa medievale, l’influenza del pensiero cinese per lo sviluppo tecnologico dell’Occidente, etc.), ma da «spacciatore di stranezze e mercante di stupore» (Geertz, 2001: 81), ovvero da antropologo, voglio sceglierne uno più di nicchia che va a solleticare una delle certezze del pensiero occidentale: il possesso del copyright sulla democrazia. Ecco, per quanto ci piaccia considerare i sistemi liberali vigenti in buona parte d’Europa e negli Stati Uniti come gli eredi diretti della demokratia ateniese, non possiamo ignorare, sulla scorta delle osservazioni di David Graeber (2012), la lunga storia dei contatti tra i colonialisti e le comunità indigene per l’articolazione del discorso sulla natura dei sistemi politici durante l’Ancien Régime. La democrazia ha un brevetto? È stata davvero inventata in Grecia nel V secolo a.C.? È proprio inammissibile ragionare sul fatto che certe idee siano tornate (arrivate?) in Europa anche grazie al confronto con le innumerevoli società egualitarie incontrate dall’Occidente?

71cryeot1clImmaginare un rapporto di filiazione diretta tra il mondo greco-romano-cristiano/cattolico e la civiltà presente euro-americana è altresì possibile solo fingendo di non vedere i dislivelli interni allo stesso mondo occidentale: quelli che Alberto Mario Cirese (1973) indagava nei rapporti tra la «cultura egemonica» e le «culture subalterne» d’Italia e che sono ancora visibili, ancorché in costante mutamento, tanto nella cosiddetta “cultura popolare o di massa”, quanto nelle nuove identità meticce che producono modi sempre diversi, affatto normativi o necessari, di essere italiani o, più in generale, di essere occidentali.

Il concetto di Occidente, dunque, non è un dato fissato una volta per tutte. Esso, al contrario, come sostiene il già citato Cardini (2015), andrebbe «storicizzato», ricollocandolo all’interno della cangiante dialettica tra locale e globale che lo forgia ogni giorno, e «disincantato», smascherandone la carica performativa di “modello per” la legittimazione di una interessata gerarchia tra le culture messa sempre più in difficoltà dalla globalizzazione e dall’arrivo nell’arena pubblica internazionale di nuovi soggetti. Come ha recentemente sostenuto un altro storico, Alessandro Vanoli (2024: XI), per intendere le dinamiche culturali e politiche attuali, è quantomai necessario capire «come mai da una direzione geografica siamo passati a un’idea di appartenenza». È fondamentale, cioè, sottoporre la categoria Occidente a una scrupolosa azione archeologica e genealogica: una ricognizione attenta che ne mostri lo sviluppo e che, contrariamente all’operazione reazionaria degli estensori delle Nuove Indicazioni, non riaffermi acriticamente la sua eccezionalità [3].

Torna allora alla mente l’appello lanciato da Francesco Remotti (2020) in piena emergenza COVID: far uscire la “modernità occidentale” – «iper-cultura» che sembra aver perso contezza della sua natura culturale e che si è autoproclamata, in virtù dei suoi successi politici, economici e tecnologici, unico faro di civiltà – da quello stato di «opacità epistemologica» che fin qui l’ha avvolta e protetta. È arrivato, cioè, il momento di rispondere una volta e per tutte a domande ormai ineludibili: l’Occidente come spazio chiuso e unico esiste davvero? Che cos’è e dove si trova esattamente? Dove inizia? Dove finisce? Che tipo di rapporti intrattiene con l’alterità? Un momento, aggiungerei, indifferibile per almeno tre ordini di motivi: 1) motivazioni ecologiche: il pianeta, ferito dal cambiamento climatico, sta ormai rigettando in modo eclatante e tragico, lo si accetti oppure no, l’immaginario e i modi di produzione imposti da un certo modo di intendere l’Occidente; 2) motivazioni politiche: la spinta delle periferie del globo, per secoli soggiogate e marginalizzate, sta contribuendo a una progressiva e salutare “provincializzazione” dell’Occidente (Chakrabarty 2004; Clifford 2023); 3) motivazioni scientifiche:  le scienze umane e sociali, come discusso in avvio, sostengono da anni l’inammissibilità di uno sguardo culturalista e cripto-primitivista.

Ciò mi spinge ad affrontare un altro grande problema del testo oggetto di analisi: quello, prettamente antropologico, relativo all’invenzione dell’altro che un tale dispositivo ideologico, basato sul carattere morale e identitario della Storia, produce. L’Occidente delle Nuove Indicazioni, infatti, si trasforma, parafrasando François Hartog (1992), in uno «specchio» utile a sussumere tutta la straordinaria varietà culturale non-occidentale, nello spazio e nel tempo, in una generica alterità caratterizzata esclusivamente in negativo, come spazio di deprivazione. Si tratta, insomma, del classico armamentario concettuale che, secondo un’impostazione rigidamente etnocentrica, quando non velatamente o apertamente razzista (o culturalista, il che è più o meno lo stesso), vede nell’altro solo un inventario di possibilità mancate e non realizzate: l’altro  come portatore di una cultura immobile o arretrata, di un sapere non all’altezza, di un apparato tecnologico premoderno e non performante; l’altro come abitatore di spazi segnati da proverbiale assenza di libertà e, secondo quanto stabilito dalle Indicazioni, da ignoranza del senso della storia.

Riecheggia allora, pur tra i prudenti, quantunque precari, equilibrismi linguistici della circolare ministeriale, la distinzione vagamente evoluzionista tra civilizzati (noi Occidentali) e primitivi (gli altri non-occidentali); oppure quella più politicamente corretta, di matrice levistraussiana [4], tra «società calde, con storia» (sempre noi Occidentali) e «società fredde, senza storia» (sempre gli altri non-occidentali). Il tutto in barba alla ricchezza delle tradizioni storiografiche altre (quella arabo-islamica, quella cinese, quella indiana, etc.) e a dispetto di più di un secolo di ricerche etnografiche, le quali hanno ripetutamente messo in evidenza i modi in cui le più disparate comunità, persino quelle che non si sono servite di scrittura, hanno fatto i conti con il tempo e con la memoria.

Basti qui giusto un piccolo esempio, un altro caso strano, per ribadire il carattere etnocentrico delle Nuove Indicazioni. Chi ha un minimo di familiarità con la letteratura antropologica, avrà sicuramente sentito parlare di churinga: tavolette di legno o di pietra, dipinte o incise, proprie di alcune società dell’Australia centrale. Come documentato da Claude Lévi-Strauss ne Il pensiero selvaggio, presso la popolazione degli Aranda i churinga rappresentavano «il corpo fisico di un determinato antenato» ed erano attribuiti di generazione in generazione alla persona ritenuta la reincarnazione di quell’antenato (Lévi-Strauss 2010: 260). Essi, «ammucchiati e nascosti in ripari naturali, lontano dalle piste frequentate», venivano tirati fuori periodicamente e svolgevano la medesima funzione dei documenti d’archivio euroamericani (Ivi: 261): un modo, scriveva con grande eleganza l’etnologo francese, per entrare in contatto con la «pura storicità» integrando la diacronia nella sincronia (Ivi: 262).

13Ecco, davvero, con le Nuove Indicazioni, è legittimo negare valore a queste tecniche della memoria? O sostenere che la storia sia diventata veramente intellegibile solo con l’avvento del cristianesimo o dopo il contatto tra mondi indigeni e Occidente? O che un senso alla storia possa emergere solo da una concezione lineare di temporalità? Ammesso e non concesso, tra l’altro, che il mondo occidentale sia esclusivamente caratterizzato da una visione lineare del tempo? Domande, quest’ultime, cui le Indicazioni non rispondono – anzi, che non si pongono affatto – perché impegnate a mettere in fila una serie di certezze apodittiche che di metodologico e scientifico sembrano avere davvero poco. Come hanno più volte ribadito, tra gli altri, Marshall Sahlins (2026; 2023) e François Hartog (2007), invece, ogni cultura è intrinsecamente storica e l’Occidente, nonostante gli piaccia ancora pensarlo, non ha mai introdotto alla storia, dopo averle incontrate, società ferme e immobili: tutte le culture, infatti, sono «isole di storia», dotate di «regimi di storicità», che rispondono localmente, integrando struttura ed evento, al sistema mondiale. Si potrebbe allora, prima che le Indicazioni si trasformino in Linee Guida ufficiali, avanzare un umile suggerimento agli esperti del MIM: più che usare la storia come sentinella comunitaria, essa andrebbe irrorata di antropologia e competenza interculturale.

In un densissimo volume, forse un po’ troppo ottimista, uscito nel 2023, James Clifford, uno dei cantori dei blurred genres in antropologia, ha scritto che «la terra ha tremato» e che la voce delle periferie – quella urlata dai gruppi marginali che stanno spezzando l’egemonia occidentale – sta facendo crollare l’architettura simbolica, prima ancora che politico-economica, che ha permesso all’Occidente di dettare la sua linea al mondo intero. Per reagire a questo smottamento e sfuggire a un miope e sostanzialmente violento arroccamento nella difesa dello status quo, è allora necessario inforcare nuove lenti per guardare la realtà. L’Occidente, anziché radicalizzarsi a difesa delle sue prerogative, dovrebbe piuttosto relativizzarsi e mettere seriamente in discussione la sua stessa esistenza come spazio omogeneo ed eccezionale. Non perché esso sia una pura astrazione – come ha saggiamente scritto Ulf Hannerz (2001: 62): «quando gli esseri umani definiscono una cosa come reale, questa diventa comunque reale nelle sue conseguenze» – bensì perché è chiamato a fare seriamente i conti con le sue storicità e con quelle degli altri.

Abbiamo davanti agli occhi tutta la storia che una certa idea di Occidente ha prodotto negli ultimi secoli – una storia fatta di grandissimi traguardi e di orrori altrettanto evidenti – e all’interno della preoccupante congiuntura geopolitica odierna, condizione che ci mette ogni giorno davanti a decisioni difficili e a delicate scelte di campo, è quantomai necessario trovare il modo di fuggire la logica della contrapposizione tra identità ipostatizzate, armate le une contro le altre.

La scuola, da questo punto di vista, più che il luogo della celebrazione rituale di culture mitiche e pure, dovrebbe farsi spazio plurale in cui, fin dall’infanzia, studenti e studentesse possano vedere nell’incontro con l’altro il sale dell’esistenza umana. 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 
Note
[1] Gli estensori delle Indicazioni scrivono testualmente: «Anziché mirare all’obiettivo, del tutto irrealistico, di formare ragazzi (o perfino bambini!) capaci di leggere e interpretare le fonti, per poi valutarle criticamente magari alla luce delle diverse interpretazioni storiografiche, è consigliabile percorrere una via diversa. E cioè un insegnamento/apprendimento della storia che metta al centro la sua dimensione narrativa in quanto racconto delle vicende umane nel tempo. La dimensione narrativa della storia è di per sé affascinante e tale deve restare nell’insegnamento, svincolato da qualsiasi nozionismo così come da un inutile ricorso a “grandi temi”, disancorati dall’effettiva conoscenza degli eventi. Non è pertanto necessario che i discenti imparino tutto ciò che di più o meno notevole è avvenuto in ciascuna epoca, bensì che apprendano quanto è stato davvero determinante, in primo luogo nella vicenda storica italiana». Come rileva criticamente, tra gli altri, l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, così facendo il Ministero si dimostra sordo rispetto alle più innovative metodologie della didattica della storia, quelle che «mirano a sviluppare negli/nelle studenti competenze di pensiero critico, capacità di collegare cause ed effetti, di riconoscere la natura delle fonti e persino di identificare narrazioni distorte o strumentali del passato». Una prassi, questa, irrinunciabile, a maggior ragione in un periodo in cui le giovanissime generazioni vanno educate al discernimento dell’affidabilità delle narrazioni cui i nuovi media li sottopongono quotidianamente.
[2] Subito dopo la pubblicazione delle Nuove Indicazioni, molte associazioni che si occupano di didattica della storia hanno espresso le loro perplessità. Tra le tante: Associazione Italiana Studi Cinesi (AISC), Istituto Nazionale Ferruccio Parri, Società Italiana di Didattica della Storia (SiDidaSt), Società Italiana per la Storia Medievale (SISMED).
[3] Il tono assoluto, apodittico, della sezione dedicata alla finalità e all’insegnamento della storia diventa ancora più tranchant se paragonato a quello, molto più aperto e anti-deterministico, usato dagli estensori delle Indicazioni nella voce “Geografia”. Qui, infatti, si leggono considerazioni decisamente più articolate, che mettono in primo piano la capacità della suddetta disciplina di educare a pensare le relazioni (tra essere umano e ambiente e tra gli stessi esseri umani) e ad «allargare lo sguardo sul mondo» (ivi:78). L’obiettivo dichiarato della didattica della geografia, si legge, è infatti quello «di affrontare in maniera più ampia e sistematica lo studio di paesi sino al recente passato trascurati nella tradizione scolastica italiana (in primis, Cina e India) […]» ivi: 79). Probabilmente questo scarto dipende dalla diversa spendibilità politica delle due discipline: se, infatti, una storia concepita come un lungo e teleologico susseguirsi di eventi politico-militari, scoperte scientifiche e personaggi emblematici è perfettamente piegabile a finalità identitarie, la geografia resta, almeno nella percezione comune, un sapere in cui l’evento e il singolo individuo arretrano rispetto all’idea di sistema e che quindi sembra prestarsi meno a letture ideologiche.
[4] Vale comunque la pena di sottolineare come la riflessione di Claude Lévi-Strauss, ancorché non immune da critiche, evitasse quantomeno le trappole dell’evoluzionismo culturale. 
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Dario Inglese, ha conseguito la laurea triennale in Beni Demo-etnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e la laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si è occupato di folklore siciliano, cultura materiale e cicli festivi. A Milano, dove insegna in un istituto superiore, si è interessato di antropologia delle migrazioni e ha discusso una tesi sull’esperimento di etnografia bellica Human Terrain System. Ha recentemente pubblicato presso le Edizioni del Museo Pasqualino nella collana “Dialoghi” il volume Antropologia a tutto campo. Discorsi sulla contemporaneità.

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