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Sinistre, popoli e istituzioni: una riconnessione possibile

locandina-convegno-sinistre-e-popoli-pisa-11-12-febbraio-2025di Benedetta Chesi, Veronica Mesina [*]

L’11-12 febbraio scorso si è tenuto a Pisa il convegno “Sinistre e Popoli. Ripensare un rapporto inattuale”.  Questo convegno nasce a partire da una Call For Papers per il numero monografico (1/2025) della Rivista di Antropologia Contemporanea (RAC) sullo stesso tema. I due curatori, Lorenzo Urbano e Antonio Vesco, invitavano a riflettere sulla «coppia concettuale sinistra-popolo a partire da lavori di campo dedicati a una pluralità di argomenti a nostro avviso in grado di sollevare temi e problemi rilevanti per questo numero: le istituzioni, i partiti politici, i beni comuni, le politiche di austerità, le memorie delle lotte politiche, le rappresentazioni delle cosiddette subculture politiche locali, i processi migratori, il lavoro e il reddito, le rivolte e le rivoluzioni contemporanee, i nazionalismi, i populismi, i movimenti sociali, i problemi ambientali».

A partire da questa suggestione, i contributi presentati hanno mostrato un’ampia eterogeneità tematica e metodologica. Dai contributi e dalle etnografie presentate emerge una molteplicità di punti di vista che, sia geograficamente sia teoreticamente, delineano un rapporto tra sinistre e popoli che appare oggi estremamente stratificato e, per certi versi, irrisolto.

È a partire dalle riflessioni sollevate anche in questo incontro che il presente contributo vuole innestarsi, cercando di mettere in luce il rapporto tra sinistre e popoli nel contesto geografico e ideologico italiano.

1.   La sinistra e il popolo: un rapporto in trasformazione

La situazione politica italiana e internazionale ha subìto da tempo un cambiamento sostanziale, tanto che si potrebbe persino parlare di un mutamento antropologico. In antropologia abbiamo sempre studiato e cercato di comprendere la collettività e i suoi “tessuti”, ma cosa succede quando il popolo vota a destra? Quando «l’agglomerato indigesto di frammenti di visioni del mondo e della storia» sceglie di sostenere Trump o Meloni?

Osservando il dibattito pubblico e analizzando i risultati elettorali, emerge con una certa frequenza l’idea che “la sinistra non fa più la sinistra”. Ma, cosa significa veramente questa frase – che ci risuona in testa come un mantra? Cosa ci aspettiamo veramente oggi dalla sinistra? Se la destra si comporta come da copione, attenendosi al proprio repertorio ideologico, vince. Ma come analizzare la sinistra? Da un lato, si imputa al centrosinistra di adottare un linguaggio troppo liberale e radical chic; dall’altro, le formazioni più radicali della sinistra sembrano incapaci di ottenere risultati significativi, correndo il rischio di ridursi nel tempo a meri fenomeni estetici, caratterizzati da tratti distintivi tipici della cultura “pop”.

Proprio quest’ultima parola ci rimanda all’altro elemento fondamentale della diade sinistra e popol(-o/-i). Innanzitutto, cosa si intende con la parola “popolo”? È dunque necessario interrogarsi su cosa si intenda effettivamente con il termine “popolo”, spesso evocato come se fosse una categoria univoca, ma in realtà estremamente sfaccettata e ambigua. Si tratta infatti di un concetto soltanto apparentemente compatto, ma che racchiude al suo interno una pluralità di accezioni e declinazioni. D’altro canto, discipline come l’antropologia sono però da sempre abituate a maneggiare termini così polisemici – basti pensare al concetto di “cultura”. Anzi, anche in questo caso, seguendo la svolta riflessiva intorno al concetto di cultura, risulta oggi più adeguato parlare di “popoli” al plurale, riconoscendo così la complessità e l’eterogeneità delle soggettività che tale concetto tende a nascondere sotto un’unità solo apparente.

Ma quali sono allora i popoli a cui la Sinistra dovrebbe, per sua natura, rivolgersi? Come vedremo meglio in seguito, ci si trova davanti a scelte apparentemente dicotomiche – come diritti civili e diritti sociali, sentimenti umanitari o esigenze pragmatiche di settore – come se il popolo della sinistra per definirsi tale dovesse necessariamente attenersi a un protocollo che appare calato dall’alto, ma che ovviamente non lo è. I ricercatori si trovano davanti uno scenario frastagliato e caotico per cui anche svolgere un lavoro etnografico risulta sempre più difficile.

Fino a qualche decennio fa, il “popolo della sinistra” era più facilmente identificabile: operai, proletari e classi subalterne, oltre a una parte del panorama intellettuale. Il linguaggio dei partiti si rivolgeva in modo netto a questi gruppi, con politiche mirate come sicurezza sul lavoro, sanità, scuola, ricerca, magistratura e diritti civili (divorzio, aborto, ecc.). Come osserva lo storico Crainz:

«Fra il 1970 e il 1972 abbiamo l’attuazione delle regioni e dell’istituto del referendum, introduzione del divorzio, la legge sulla casa, lo statuto dei diritti dei lavoratori e la legalizzazione dell’obiezione di coscienza. Da lì a poco nel 1975 vi saranno le riforme della Rai, del diritto di famiglia e del sistema carcerario, tre anni ancora e avremo la riforma sanitaria e la legge “Basaglia” sugli istituti psichiatrici» [1].

il-paese-mancato-dal-miracolo-economico-agli-anni-ottantaCerto queste leggi e riforme sono nate da compromessi e mediazioni politiche, che fanno parte del gioco democratico, ma sono comunque esplicative di un momento di collante maggiore tra stato civile e fiducia nei partiti, nonostante le congiunture estremamente difficili vissute dal nostro Paese proprio in quegli anni.  

Gli antropologi di oggi si trovano di fronte a uno scenario in cui le classi sociali sono molto meno definite e più frastagliate: la classe operaia è sempre meno presente – come conseguenza dei processi di esternalizzazione, delocalizzazione e precarizzazione del lavoro – e il settore terziario comprende lavori estremamente eterogenei. All’interno di questa vasta categoria possiamo trovare il rider che consegna cibo a domicilio, l’insegnante, il ricercatore precario, ma anche l’informatico che lavora per una grande azienda. Possiamo definire questi soggetti come proletari? Evidentemente no. Come possiamo allora definirli e in che rapporto, quest’eterogeneità di attori sociali sta, dunque, con la “sinistra”?

L’antropologia nella sua storia insegna proprio a sfuggire alle rappresentazioni riduzionistiche oggettivizzanti – all’essenzializzazione, per dirla con una parola – e dunque come definire quelle componenti di soggetti la cui subalternità non ha i tratti di una marginalizzazione estrema, ma è comunque caratterizzata da una forte regressione in termini di uguaglianza, di possibilità di scatto sociale e, in ultimo, di emancipazione?

In un contesto in cui la classe operaia e l’economia tradizionale fondata sulle forze di produzione appaiono in progressivo ridimensionamento, diventa legittimo chiedersi se sia necessario introdurre nuove categorie interpretative o, piuttosto, ridefinire semanticamente quelle già esistenti. Dunque, se si torna a riflettere sulla classificazione delle categorie sociali proposta da Bourdieu, tali categorie analitiche sono ancora efficaci per interpretare la complessità della società contemporanea?

In particolare, a partire dalle strategie di distinzione sociale fondate sul consumo, ci si può interrogare su dove siano oggi collocabili i soggetti caratterizzati da un elevato capitale culturale e da un capitale economico medio-basso come sono i soggetti sopra menzionati. A questo scopo, l’analisi delle disuguaglianze e delle stratificazioni sociali dovrebbe necessariamente integrare variabili come la stabilità o precarietà del lavoro, il livello di reddito, l’istruzione, la posizione lavorativa, la collocazione geografica, i consumi culturali, l’appartenenza etnica, la partecipazione alla vita politica e comunitaria, oltre ovviamente la condizione economica complessiva.

Questi soggetti, infatti, non sono “gli ultimi”, i “dannati della terra”, il totalmente “Altro” né, in ultimo, vivono necessariamente ai margini della società: hanno spesso un lavoro e una vita radicata in contesti urbani o metropolitani. Tuttavia, sperimentano forme di subalternità meno visibili ma profondamente incisive: precarietà economica e abitativa, difficoltà ad accumulare risparmi, impossibilità di progettare una genitorialità autonoma, dipendenza economica dalla famiglia d’origine.

Se la generazione nata nel secondo dopoguerra ha beneficiato di concrete opportunità di emancipazione, rese possibili anche dal ruolo attivo dello Stato, queste stesse opportunità non sono state altrettanto garantite invece alle generazioni nate dopo la svolta neoliberista degli anni ‘80-’90. Quella promessa di progresso e giustizia sociale, favorita dal compromesso social-democratico del dopoguerra, è stata bruscamente interrotta, segnando di fatto la fine di un orizzonte di possibilità che non si è mai pienamente realizzato. La discontinuità tra i due regimi di accumulazione ha generato asimmetrie intergenerazionali nell’accesso alle risorse e alle opportunità, configurando una frattura socio-economica, quando non una vera e propria involuzione nelle condizioni materiali della vita delle persone, le cui conseguenze permangono nell’attuale assetto distributivo e dunque anche nella dimensione simbolica degli individui.

Infatti, la disuguaglianza si gioca anche sul piano simbolico e relazionale, oltre che materiale, e va ad innestarsi non soltanto nel rapporto tra classi, ma anche nel rapporto tra generazioni. Nell’analisi delle disuguaglianze e della loro evoluzione storica è dunque fondamentale tenere conto non solo del reddito, ma anche della qualità complessiva della vita e delle condizioni di partenza degli individui. Da questa prospettiva, ci troviamo oggi di fronte a una generazione giovane ma allo stesso tempo adulta a cui non vengono più garantiti degli stipendi sufficienti a permettere autonomia e dignità, con il risultato di aver reso strutturale la dipendenza economica dalla famiglia d’origine, laddove le possibilità lo consentono, andando così ad accentuare ulteriormente le disuguaglianze legate ai redditi familiari di provenienza e a compromettere concretamente le possibilità emancipative inter-generazionali oltre che tra classi.

rider-lavoro-2-750x4302.   Generazioni e paradossi nel segno del declassamento

Anche il rapporto annuale ISTAT risulta estremamente descrittivo di questo stato di cose: scegliendo di definire questa fetta di popolazione, tendenzialmente compresa tra i 25 e i 35 anni, proprio sotto l’etichetta di “giovani adulti”, definisce obsolete le tradizionali categorie di giovani, adulti e anziani in quanto non più rispondenti a un ordine puramente biologico e anagrafico, ma più precisamente socio-culturale. La popolazione adulta, infatti, si presenta come un insieme estremamente eterogeneo, che il Rapporto suddivide in tre sottogruppi distinti: i giovani adulti tra i 25 e i 34 anni, che presentano analogie, in termini di condizioni e stili di vita, con la fascia giovane dai 16 ai 24 anni; la fascia centrale tra i 35 anni e i 44 anni, in cui generalmente si ritiene che gli eventi salienti della vita si siano già realizzati; infine, quella tra i 45 e i 64 anni, che mostra affinità con la fascia dei 65-74 anni. Dalle analisi Istat emerge chiaramente come in Italia sia comune la condizione di famiglie, giovani e lavoratori dipendenti con redditi insufficienti a far fronte al costo della vita, e quindi anche a sostenere le aspirazioni di crescita e mobilità sociale.

«Nel dominio Benessere economico salvo poche eccezioni la maggior parte degli indicatori disponibili, descrivono una condizione peggiore della media Ue27. I gap maggiori riguardano la bassa intensità lavorativa (9,8% in Italia e 8,3% nel’Ue27) e il rischio di povertà (20,1% in Italia e 16,5% nel’Ue27). Divari molto ampi riguardano le misure del dominio. Lavoro e conciliazione dei tempi di vita: in Italia nel 2023 il tasso di mancata partecipazione al lavoro (14,8%) supera di quasi sei punti percentuali la media Ue27 (8,7%); il tasso di occupazione è di 9,1 punti percentuali più basso di quello medio europeo (75,4%) e la percentuale di persone in part time involontario (10,2% nel 2022), nonostante in calo da quattro anni, è quasi il triplo della media dei 27 paesi dell’Unione (3,6%). La povertà assoluta dal 2019 al 2023 (serie storica ricostruita secondo la nuova metodologia di stima) presenta una crescita dell’incidenza individuale. Nel 2022, l’incidenza torna ad aumentare al 9,7%, in larga misura a causa della forte accelerazione dell’inflazione, che ha colpito in particolar modo le famiglie meno abbienti e rimane sostanzialmente stabile con 9,8% nel 2023» [2].

La fascia dei giovani adulti si delinea come il punto nevralgico in cui le prospettive di realizzazione personale e professionale risultano fortemente condizionate dalle condizioni di vita presenti sul piano individuale. In questo quadro, se sul piano della salute strettamente fisica, nel confronto intergenerazionale gli individui mostrano stili di vita molto più salutari rispetto ai loro coetanei di vent’anni fa – migliorando sul lungo periodo anche le aspettative di vita – sul fronte della salute in senso lato, è pur vero che le trasformazioni demografiche e socio-economiche hanno non solo prolungato e reso più incerto il percorso verso l’età adulta, ma hanno anche determinato una significativa precarizzazione della vita adulta stessa. Pertanto, quest’ultima, a dispetto del mito della flessibilità e dell’autonomia dei giovani lavoratori, non rappresenta più come in passato un orizzonte di stabilità e consolidamento bensì un luogo in cui l’uguaglianza e il vincolo di solidarietà sociale, tra classi e tra generazioni, vanno a disgregarsi progressivamente.

Tutti questi aspetti mettono ovviamente bene in luce come le condizioni materiali e gli stili di vita degli individui influenzino in maniera decisiva non solo le modalità e le tempistiche del passaggio dall’età giovanile a quella adulta, e da quest’ultima a quella anziana, ma concorrono anche a ridefinire i confini tra età anagrafica, rappresentazioni sociali e percezioni individuali della propria presenza nel mondo.

Anche in termini di autopercezione del ceto di appartenenza recenti indagini[3] hanno mostrato come, sebbene oltre la metà della popolazione italiana continui a definirsi appartenente al ceto medio, una quota significativa di questi soggetti (pari al 48,4%) riferisce di percepire un processo di declassamento sociale. Tale percezione è connessa principalmente al deterioramento del tenore di vita, con particolare riferimento al potere d’acquisto e alla discrepanza tra reddito disponibile e capacità di spesa. Anche dalla prospettiva di autopercezione del proprio ceto, si notano le già illustrate differenze intergenerazionali: in questo caso il ceto medio, pur se in misura minore di quello benestante, ha nei termini di autopercezione una presenza più concentrata di persone con età più alta. La crescente disoccupazione, l’espansione del lavoro precario e la progressiva erosione del potere d’acquisto dei salari medio-bassi hanno infatti prodotto un crescente numero di lavoratori poveri e sottoccupati, collocabili economicamente nella fascia inferiore della scala sociale.  Anche i laureati, tradizionalmente destinati a posizioni tipiche delle classi medie, registrano oggi una significativa contrazione dei redditi e forte precarizzazione. Questo fenomeno può essere interpretato come un vero e proprio processo di impoverimento generalizzato di coloro che si percepiscono come classe media.

61cxyqmp-1l3.   Sinistre senza popoli

Nel corso del processo di espansione della classe media della società italiana, la centralità assunta dai ceti produttivi – in particolare il mondo delle piccole e medie imprese e del lavoro autonomo – ha trovato una propria autorappresentazione politica nel centrodestra di orientamento “anti-Stato e anti-tasse”. Questo blocco ha trovato voce, per oltre due decenni, nella figura simbolo di Silvio Berlusconi, imprenditore e self-made man, che capitalizzando la crisi della rappresentanza politica tradizionale scaturita dallo scandalo di Tangentopoli e dal collasso del sistema partitico della Prima Repubblica, ha saputo intercettare gli interessi dei ceti emergenti.  Parallelamente, i lavoratori dipendenti – sia del settore pubblico che di quello privato – hanno vissuto un progressivo indebolimento della propria forza contrattuale e della propria rappresentanza politica.

A ciò ha contribuito anche lo spostamento della sinistra, a partire dagli anni Novanta, verso i paradigmi della cosiddetta “terza via” di matrice blairiana, che ha segnato una sostanziale apertura a un modello neoliberista più marcato, contribuendo a smantellare parte dell’impianto ideologico e materiale del tradizionale Stato sociale. In questo contesto, il mondo imprenditoriale ha beneficiato di vantaggi evidenti: l’aumento della precarietà del lavoro ha consentito una maggiore flessibilità nel mercato occupazionale, mentre la compressione dei diritti e delle garanzie ha contribuito a un incremento significativo dei profitti. La normalizzazione della globalizzazione neoliberista è stata sorretta e veicolata da un dispositivo discorsivo che l’ha presentata come un processo inarrestabile e inevitabile, quindi non conflittuale e non contrastabile, ma unicamente governabile – secondo la celebre formula di Margaret Thatcher There Is No Alternative. Tale visione ha finito per colonizzare e permeare l’intero spettro politico diventando espressione di una visione egemonica che ha dominato tra gli anni Novanta e Duemila, contribuendo a ridurre lo spazio di elaborazione di progettualità economiche e sociali alternative.

La crisi finanziaria globale del 2008 ha rappresentato una prima frattura significativa nella fiducia riposta nel sistema economico e politico dominante. Questa fase, caratterizzata dalle politiche di austerità imposte a livello europeo e in Italia dalla fine dell’egemonia berlusconiana, ha visto la sinistra istituzionale di fronte a una profonda crisi ideologica oltre che di rappresentanza. In risposta al progressivo deteriorarsi del rapporto tra cittadini, partiti e rappresentanti politici, si è sperimentata per la prima volta la formula di un governo tecnico, composto da professori universitari e cosiddetti esperti di governo. L’inevitabile effetto collaterale di tale forma di investitura tecnocratica, delineando una progressiva autonomia politica delle classi dirigenti di fronte a un popolo spodestato della sua possibilità d’azione nella scelta dei suoi rappresentanti, ha fatto sviluppare “il senso comune popolare” di una netta separazione tra politica e popolo, tra alto e basso.

Ed è proprio in questo contesto che, sul fronte della sinistra istituzionale, si colloca l’ascesa politica di Matteo Renzi, figura che – forse più di ogni altra – proponendosi come volto nuovo e innovativo della sinistra, ha incarnato al contempo l’apice e la crisi della sinistra liberal. “Il re è nudo” ha preso le sembianze di una sinistra ridotta a un simbolismo estetico, sempre più allineata ai bisogni e alle istanze del ceto medio-alto e sempre meno in grado di intercettare le esigenze materiali delle classi lavoratrici medio-basse e basse – basti pensare al Jobs Act per cui a giugno ci sarà il referendum abrogativo. Lungi dal proporsi come forza promotrice di un autentico progetto di giustizia sociale, ha invece portato alle estreme conseguenze la via neoliberista già imboccata a partire dagli anni ‘90, contribuendo definitivamente alla progressiva destrutturazione dello Stato nel suo ruolo di garante dei diritti collettivi. Promuovendo una politica incentrata quasi esclusivamente sulla difesa dei diritti civili individuali – spesso in modo cieco e talvolta persino dannoso – la sinistra ha finito per trascurare la profonda interconnessione tra questi e i diritti sociali. Inoltre, l’incapacità di tenere insieme queste due dimensioni, profondamente interconnesse, ha accentuato il distacco tra la sinistra e le classi popolari, alimentando la percezione di una forza politica elitista, culturalmente distante e politicamente inefficace nel contrastare le disuguaglianze sociali.

Con la fine dell’epoca berlusconiana emerge inoltre un altro aspetto interessante: durante la lunga stagione politica dominata da Silvio Berlusconi, il processo di personalizzazione della politica aveva comportato collateralmente anche una personalizzazione del conflitto politico, riducendo il problema dell’egemonia sul consenso – almeno apparentemente – privo di figure di intermediazione culturale e politica. Pertanto, la fine della lunga stagione berlusconiana ha segnato anche la scomparsa del principale antagonista attorno a cui la sinistra aveva strutturato la propria identità politica per vent’anni, facendo emergere con chiarezza la crisi ideologica nel ridefinire nuove forme efficaci di opposizione e di mobilitazione. In questo vuoto simbolico, le classi lavoratrici medio-basse e basse, un tempo interlocutrici privilegiate della sinistra, hanno in parte orientato le proprie scelte elettorali verso le forze politiche di destra, quando non direttamente verso l’astensionismo. Dunque, come se non fosse già sufficiente l’abbandono dei propri interlocutori, una certa sinistra benpensante ha finito persino per identificare come suoi antagonisti proprio quei segmenti di popolo che vivevano una dissonanza cognitiva tra la sua narrazione politica e la sua azione – rafforzando ulteriormente la frattura tra rappresentanti e rappresentati.

Tale postura, oltre a descrivere l’incapacità politica nell’individuare i reali bisogni della popolazione, si è manifestata finanche nella contraddizione con il volto dirittumanista che la sinistra liberal istituzionale pretendeva di rivendicare al cospetto della destra. Difatti anche quando ammantata di un discorso dirittumanista, la sinistra si è mostrata talvolta anche prona all’adozione di misure caratterizzate da una marcata ambivalenza, difficilmente conciliabile con i principi di giustizia sociale e tutela della persona di cui si faceva portatrice – basti pensare al cosiddetto “decreto Minniti” che declinava l’accoglienza secondo una logica securitaria più coerente con le politiche della destra tradizionale che non con quelle di una sinistra liberale. Una tale strategia politica ha innescato un senso di idiosincrasia, dando origine a una doppia perdita in termini di interlocutori di riferimento (quantomeno a livello nominale): da un lato, quella delle cosiddette “componenti popolari”, accusate di ignoranza e progressivamente emarginate dalla narrazione della sinistra; dall’altro, quella delle “componenti illuminate”, che mai avrebbero potuto sostenere politiche anti-migratorie di tale natura.

D’altra parte, anche all’interno del panorama della sinistra radicale extra-istituzionale – come contrapposta alla sinistra di matrice istituzionale – la crisi della classe operaia come soggetto politico centrale ha imposto la necessità di ridefinire l’interlocutore privilegiato dell’azione politica. La disgregazione dei luoghi e delle forme tradizionali della produzione ha infatti reso sempre più ardua l’identificazione di una classe sociale coesa, spingendo tali forze a rivolgere la propria attenzione verso una costellazione frammentata di soggetti marginalizzati a vari livelli. Questo processo ha tuttavia sollevato una difficoltà sostanziale: quella di rintracciare, nelle maglie di queste differenze, un sentire comune che potesse tradursi in strumenti politici condivisi e, conseguentemente, nella costruzione di un’alleanza politica significativa.

Oltre a ciò, l’elaborazione discorsiva di questa soggettività politica – che, per comodità espositiva, definiremo “sinistra extra-istituzionale”, così come abbiamo fatto ricorso alla categoria semplificata di “sinistra istituzionale”, pur consapevoli dell’estrema eterogeneità che contraddistingue entrambe le compagini – è stata spesso accompagnata da una narrazione che tende (scientemente o meno) a scivolare in forme di pietismo e paternalismo, rischiando di ricalcare inconsapevolmente logiche culturaliste affini a quelle del colonialismo. In particolare, muovendo dalla critica della governamentalità, questa soggettività ha spesso contribuito a produrre rappresentazioni che finiscono per essenzializzare le differenze. E lo ha fatto tanto nella rappresentazione delle istituzioni statali – descritte come meri dispositivi di potere attraverso cui si esercita una pedagogia totalitaria, fondata su una concezione dello Stato essenzialmente coercitivo, punitivo e assoggettante – quanto nella costruzione della vittima, rappresentata come nuda vita di fronte a tali istituzioni.

Nell’essenzializzazione delle funzioni dello Stato come esclusivamente e intrinsecamente oppressive e assoggettanti, una certa sinistra extra-istituzionale si è posta in contrasto radicale con l’idea di uno Stato come espressione e regolazione delle istanze collettive, riducendone il ruolo a quello di mero strumento repressivo. Tale prospettiva concepisce la libertà solo in termini negativi – come assenza di vincolo – ignorando la dimensione positiva della libertà, intesa come costruzione collettiva di regole che rendono possibile l’azione e la partecipazione. Così facendo, questa impostazione si è spesso ritrovata, forse inconsapevolmente, su un crinale ideologico convergente con quello neoliberale, la cui logica ultima è proprio la progressiva rimozione o circoscrizione del potere statale.

brfuttonUna tale concezione del potere senza nomi e cognomi, come metafisica impersonale e diffusa, non incarnata da individui responsabili del suo governo – come in quella notte in cui tutte le vacche sono nere – confonde le distorsioni concrete e storicamente contingenti dello Stato con lo Stato stesso, inteso nella sua essenza di forma evoluta di mediazione istituzionale, regolata da principi e norme, tra i bisogni dell’individuo e la tutela della collettività. Allora il corollario di tale visione non può che essere inevitabile: il nemico da combattere diventa lo Stato stesso, al fine di ottenerne il disimpegno nei confronti del controllo degli individui assoggettati. D’altra parte, solo così l’individuo oppresso – soprattutto il “totalmente altro” da noi, in termini di diritti – può essere liberato dalle “catene” del biopotere. In questo quadro, l’impianto ideologico che sostiene tale visione si rivela, paradossalmente, funzionale – consapevolmente o meno – alla legittimazione dei processi di smantellamento e liberalizzazione del settore pubblico.

Molto interessante, in questo senso, è l’interpretazione proposta dal filosofo americano Benjamin Bratton, che legge tale postura intellettuale come esito della persistente influenza di un certo paradigma generazionale:

«Come ho suggerito altrove, questo orientamento è esemplare dell’influenza protratta della Teoria dei Boomer. I baby boomer hanno tiranneggiato l’immaginazione della sinistra, lasciando in eredità enormi capacità di decostruire e criticare l’autorità, ma deboli capacità di costruire e comporre. Forse l’ultima vendetta della generazione del ‘68 su coloro che ereditano i loro disordini, è l’assioma intellettuale che la struttura è sempre più sospetta del suo smantellamento e la composizione più problematica della resistenza, non solo come strategie politiche, ma come norme metafisiche. Il loro progetto era e rimane la moltiplicazione orizzontale di punti di vista condizionali come mezzi e fini, attraverso lo smantellamento immaginario della ragione, decisione e strutturazione pubblica. È così che possono allo stesso tempo feticizzare “il Politico”, rifiutando la “governamentalità”» [4].

È infatti singolare notare come la conseguenza logica di una impostazione simile sia che, pur muovendo dall’intento di tutelare gli oppressi, gli emarginati e i subalterni, essa finisca, nel suo sviluppo più radicale, per approdare a una concezione paradossale: l’idea che la libertà più autentica coincida con l’assenza di qualsiasi istituzione che, attraverso la norma, si assuma il compito di garantire i diritti tanto degli individui quanto della collettività. In questo rovesciamento, la mancanza di tutela e assistenza diventa sinonimo di emancipazione e libertà. Una libertà che, a questo punto del ragionamento, cessa di fondarsi su un piano politico e collettivo, per ridursi a una questione esclusivamente morale, demandata all’intervento esterno di chi, da una posizione di relativo privilegio, si erge a portavoce delle istanze e dei bisogni di soggetti rappresentati come privi di voce. A questo punto, tuttavia, emerge una contraddizione strutturale: chi legittima la definizione dello spazio morale entro cui tale libertà e tale emancipazione dovrebbero articolarsi? E quale strumento, se non una norma – per quanto implicitamente formulata – può assolvere al compito di delimitarne i confini? L’antistituzionalismo di posizione si rivela così portatore, per ulteriore paradosso, di una nuova normatività non dichiarata, ma altrettanto prescrittiva, dai toni moraleggianti e a-politici quanto più avversi a una qualsiasi forma di organizzazione e mediazione formale del rapporto politico tra individuo e collettività.

4.   La sinistra tra il popolo e l’Altro: marginale o marginalizzante?

Tuttavia, anche mettendo da parte le conseguenze teoriche e dunque politiche di una tale impostazione e tentando di osservare queste posizioni anche da una prospettiva antropologica, che segue il solco tracciato dalle ricerche di ispirazione bourdieusiana, si finisce per arrivare alle medesime aporie.

Le ricerche bourdeusiane mettono in luce la costruzione sociale del gusto e del disgusto, e come tali categorie siano intimamente connesse alle strategie di distinzione simbolica tra le classi sociali: all’interno di questa lettura, il gusto appare come una forma di ammirazione ed emulazione – tanto in termini morali quanto in termini culturali – delle abitudini delle classi superiori, mentre il disgusto diventa uno strumento attraverso cui si marca negativamente – anche qui tanto in termini morali che culturali – chi appartiene alle fasce più basse della gerarchia sociale. Queste riflessioni continuano a sollevare interrogativi cruciali rispetto alla dimensione etica e morale che orienta le pratiche politiche contemporanee. All’interno di una tale prospettiva le posizioni politiche assunte da una certa sinistra liberal – che vanno dall’adesione al discorso dirittumanista di facciata fino all’attitudine quasi escatologica di matrice libertaria – possono essere osservate come espressione di un habitus specifico che, nel suo ricadere in una dimensione astorica e astratta, si estrinseca principalmente come forma di capitale simbolico, utile a rafforzare la distinzione tra gruppi sociali e a legittimare una posizione dominante nel campo politico e culturale.

Come già osservato, il risultato è che la smobilitazione di un tale capitale tende però a produrre effetti di esclusione proprio nei confronti di quei soggetti che, privi delle risorse culturali per allinearsi a tale registro, vengono additati come “ignoranti”, “reazionari” e talvolta “razzisti” – e dunque espulsi dal perimetro della rappresentanza politica. Si delinea così un ulteriore paradosso: l’universalismo astratto dei diritti, anziché fungere da strumento di emancipazione collettiva, si trasforma in un dispositivo di distinzione, alimentando la frattura tra élite culturali e classi popolari. Il conflitto di classe si de-politicizza, traslandosi su un piano etico-morale in cui l’inclusione o l’esclusione dall’agenda politica dipende dalla conformità a un sistema di valori prestabilito, e non dalla concreta condizione materiale dei soggetti.

In questo senso si esprime anche Fabio Dei:

«[...] la sinistra non può rispondere all’attuale crisi dell’egemonia con una semplice critica al “popolo”, non abbastanza sofisticato, non abbastanza intelligente da distinguere i problemi veri da quelli falsi; fondamentalmente irrazionale, prono alla propaganda sciovinista che produce paure fittizie, incline a pensare, come spesso si dice, “con la pancia”. Non può sostenere che il “popolo” non esista, né che sia solo una finzione impugnata della destra; o che, invece, va bene solo se si adegua ai valori ritenuti corretti, progressisti, politicamente corretti. In questo senso, sia la politica sia (nel suo piccolo) la demologia hanno bisogno di una scossa populista per capire qualcosa della intricata e scandalosa situazione politico-culturale nella quale ci siamo trovati immersi senza ben saper come» [5].

D’altra parte, sull’altro versante – quello della sinistra extra-istituzionale radicale – si può osservare come essa sia spesso composta da attori dotati di basso capitale economico ma elevato capitale culturale – intellettuali e militanti spesso afferenti, anche solo culturalmente, al ceto medio. Essi tendono a rivolgere il proprio impegno verso soggetti percepiti come radicalmente “altri”: il totalmente Altro da noi, in questo caso, non rappresenta una minaccia alla propria posizione sociale, bensì si concretizza come una figura su cui proiettare un ideale etico-politico. Viene dunque da chiedersi: in che modo, allora, può essere interpretata questa “missione” etico-politica alla luce delle strategie di distinzione? Si potrebbe forse leggere tale orientamento verso il “totalmente Altro” come una forma di misconoscimento e sublimazione della propria condizione di appartenenza di classe al ceto medio (quantomeno in termini culturali)? In questo senso, l’azione solidale acquisisce una valenza quasi sacrale, in quanto priva di ritorni materiali diretti e in quanto sconnessa da una struttura politica e culturale che collettivamente la legittima, alimentando ulteriormente un senso di superiorità morale che rischia di non tradursi in una reale trasformazione dei rapporti di forza.

Ed è in questo scenario si ripropone una dicotomia artificiosa ed essenzializzante: o si è a fianco della “povertà estrema”, oppure si viene associati alla classe media borghese, implicitamente considerata complice del sistema. Tuttavia, per paradosso, tale certa sinistra radicale – pur in opposizione alla sinistra istituzionale – finisce per cadere nella medesima trappola di ciò che critica: l’incapacità di tenere insieme le istanze delle classi maggiormente marginalizzate con quelle della classe media in via di impoverimento. Questo emerge non soltanto sul piano dell’azione politica ma anche sul piano della produzione discorsiva che spesso vede un certo tipo di sinistra acriticamente sorda e talvolta persino disprezzante nei confronti di quei segmenti di popolazione che, nel loro riorientamento a destra, si mostrano – almeno fenomenicamente – incapaci di comprendere le istanze dei più marginalizzati, dei dannati della terra, con l’inevitabile inasprimento del rapporto popolo e sinistra.

Ma anche la sinistra radicale, pur smarcandosi dalle posizioni liberal, tende a condividere l’idea secondo cui le classi popolari siano in ultima istanza portatrici di un habitus reazionario, sessista, razzista. Così anche su questo fronte, il popolo diventa un popolo immaginato, astratto, a cui si chiede adesione ai valori della sinistra, pena l’esclusione. Conseguentemente a ciò, la rappresentazione del “migrante povero” – come punto estremo della marginalizzazione e dunque dell’alterità della nostra società, tende a cristallizzarsi in una figura esclusivamente vittimizzata, incapace di agency, e quindi difficilmente inscrivibile in una prospettiva realmente emancipatoria. Si tratta di una costruzione simbolica che, pur nel suo essere indubbiamente animata da intenzioni solidali, può produrre effetti ambivalenti: da un lato, rafforza la legittimità morale di chi si fa portavoce di queste istanze; dall’altro, rischia di consolidare una distanza tra il soggetto che aiuta e quello che viene aiutato, riproducendo una logica di superiorità implicita.

Non si tratta qui di mettere in discussione il valore dell’azione solidale – che resta un presidio fondamentale, soprattutto in funzione di uno Stato che sistematicamente non funziona e più spesso ostacola – bensì di interrogarsi sul motivo per cui, proprio le voci provenienti da quel ceto medio colto ma comunque svantaggiato e declassato economicamente, sembrano cercare riconoscimento simbolico attraverso soggetti considerati radicalmente altri, piuttosto che cercare di costruire con questi un terreno comune. Un terreno in cui e altri – pur mossi da condizioni materiali e simboliche differenti – possano contribuire a un progetto collettivo, dando vita a un blocco storico capace di attivare processi riformatori orientati alla giustizia sociale.

Diventa allora urgente un rinnovato sforzo teorico volto a identificare le diverse stratificazioni e trasformazioni che hanno interessato le classi sociali contemporanee, al fine di superare il disorientamento simbolico della sinistra. L’obiettivo sarebbe quello di integrare in modo più efficace le molteplici dimensioni implicite nel concetto di subalternità, per costruire un’azione politica capace di muoversi dal basso verso l’alto, cioè verso le istituzioni, sollecitando lo Stato a riattivarsi come garante dei bisogni sociali che attraversano trasversalmente la condizione subalterna.

Non si tratta, dunque, di abbandonare l’attenzione al “totalmente Altro”, ma piuttosto, pur riconoscendo la sua irriducibilità, di non concepirlo come una monade chiusa nella sua incomunicabilità. Al contrario, è necessario affiancarlo a una progettualità capace di mettere in relazione trasversale soggetti diversi, riconoscendone sia l’irriducibilità che la possibilità di convergenza. Occorre superare le prospettive che tendono a essenzializzare la marginalità, alimentando frammentazione e vittimizzazione, per riappropriarsi invece di una visione politica capace di integrare le domande maggioritarie all’interno di un’idea più ampia di giustizia sociale.

thumbnail_97888745297115.   Dall’emergenza a una nuova convergenza

In questo contesto, il periodo pandemico è stato da molti osservato come un momento di epoché e di riorientamento gestaltico [6] rispetto al mondo in cui eravamo immersi. Un mondo, quest’ultimo, modellato a partire dagli anni ‘90, come già osservato, su un modello economico sempre più insostenibile dal punto di vista ambientale, sociale ed esistenziale. La pandemia ha infatti imposto una brusca frenata alla logica iper-produttivista e consumistica dominante, stravolgendo per mesi i processi di produzione e distribuzione globali [7]. Questo arresto forzato ha permesso di interrogarsi in modo più lucido sulla naturalizzazione del modello di sviluppo precedente, rendendone visibili le fragilità e favorendo un’apertura critica rispetto alla sua presunta inevitabilità. Per la prima volta dopo molto tempo, è emersa con evidenza la possibilità di mettere in discussione il paradigma neoliberista, sia nei suoi presupposti economici che nei suoi effetti esistenziali.

Contestualmente, tale frattura ha favorito l’ulteriore concentrazione del potere economico nelle mani di una ristretta élite ultra-ricca, che ha saputo capitalizzare in modo strategico le opportunità offerte dalla crisi pandemica. L’ampliamento delle disuguaglianze globali e la crescita sproporzionata delle fortune individuali di pochi soggetti – spesso superiori a quelle degli stessi Stati-nazione – hanno reso ancora più visibili le derive reazionarie e le minacce che simili dinamiche pongono nei confronti delle istituzioni democratiche [8]

E se non è un caso che a subire le conseguenze della pandemia – sia in termini di salute che in termini economici – siano stati più che altro le classi medio-basse e basse, è proprio una tale evidenza tragica che ha contribuito, almeno in alcune aree della riflessione politica e sociale, a riattivare un interesse per la sfera pubblica, configurando ciò che Paolo Gerbaudo ha definito come un rinnovato “desiderio di Stato” [9], ovvero il ritorno di una domanda collettiva nei confronti dell’intervento pubblico, rimosso per decenni dal discorso neoliberale. Questo desiderio non implica necessariamente una rivendicazione di sovranità in chiave nazionalistica, come nel caso dei discorsi sovranisti [10] né più come una forma di resistenza simbolica alle logiche neoliberiste, ma si articola nella richiesta di una politica orientata alla giustizia sociale e capace di operare anche in chiave cooperativa e transnazionale [11].

Nonostante la parentesi rappresentata dal governo Draghi – percepito da alcuni come un’ulteriore espressione della tecnocrazia al potere e come momento di riflusso depoliticizzante e regressivo sul piano democratico – la pandemia ha lasciato una traccia significativa nella rinnovata attenzione alla res publica e nella consapevolezza dell’urgenza di rimettere al centro i diritti economici come elemento imprescindibile del patto sociale. Ciò appare tanto più rilevante in un contesto contemporaneo in cui l’orizzonte politico è attraversato da prospettive belliche le cui tempistiche e retoriche dai tratti etnonazionalisti appaiono allarmanti, marginalizzando ulteriormente i temi legati alla giustizia sociale, alla sostenibilità dei modelli di sviluppo, alla cooperazione e alla pace.

In uno scenario post-pandemico, segnato dall’intreccio di crisi globali – dall’emergenza climatica a nuovi scenari bellici fino al rischio di future emergenze sanitarie – le domande locali di sicurezza sociale sono sempre più interdipendenti da dinamiche e minacce di scala globale, quali sono le domande e i valori intorno ai quali è possibile ricostruire un blocco storico, sinistra e popolo, che si riconnetta con gli interessi e le istanze di ampi strati sociali?

Lo spezzone di quest’anno del corteo che si tiene ogni anno durante il Festival.)

Il corteo che si tiene ogni anno durante il Festival

Alcuni recenti fenomeni, come la mobilitazione operaia della GKN, l’assemblea precaria universitaria nazionale ma anche il coordinamento di liste civiche di sinistra, testimoniano la possibilità concreta di riallacciare un dialogo non solo di conflitto ma anche e soprattutto di costruzione tra movimenti sociali e istituzioni – come dimostra anche il lavoro collettivo che sta alla base del piano di reindustrializzazione, in cui l’alleanza tra i lavoratori e la componente accademica è stata di grande importanza. Anche il movimento universitario precario si muove nella direzione di una convergenza intersettoriale, consapevole della necessità di difendere l’interesse pubblico nella sua articolazione più ampia. In tale prospettiva, la tutela del diritto allo studio non può prescindere dalla garanzia dei diritti dei lavoratori che operano nel sistema universitario. Così, al fianco degli studenti e dei dottorandi, troviamo anche ricercatori precari e lavoratori esternalizzati dell’università. L’università, in quanto luogo di produzione del sapere, si rivela quindi anche come potenziale spazio di azione politica, in cui le conoscenze acquisite vengono rielaborate per intervenire concretamente nella realtà, con l’obiettivo non solo di interpretarla ma di trasformarla.

A differenza di molte proteste del passato, fortemente antagoniste rispetto al quadro istituzionale, le recenti mobilitazioni pur esprimendo una critica radicale all’inadempienza pubblica, paiono essere più capaci di costruire un terreno politico e culturale trasversale e convergente. Queste forme di attivismo si sono avvalse anche del supporto dell’istituzione accademica, producendo un sapere politicamente orientato e in grado di agire sulle istituzioni. La critica, in questo senso, non si rivolge all’istituzione in sé, bensì alla sua cattiva gestione: non sono le istituzioni ad essere intrinsecamente negative, ma lo diventano quando tradiscono la loro funzione pubblica. In entrambi i casi – GKN e assemblea precaria universitaria – emerge una nuova forma di azione politica che, pur muovendosi all’interno delle istituzioni, ne interroga le logiche e ne sollecita una ridefinizione. Si è così tornati a parlare di Stato, avanzando la pretesa che, dalle istituzioni locali fino a quelle centrali – dal basso verso l’alto – ci si assuma la responsabilità di adempiere al compito che giustifica la sua stessa esistenza.

In tale cornice, i movimenti dal basso assumono un ruolo determinante non solo nella rivendicazione di diritti specifici, ma anche nella ridefinizione del rapporto tra rappresentanza e partecipazione. Essi dimostrano che le istituzioni, se sollecitate da istanze collettive, possono tornare a svolgere un ruolo positivo e trasformativo. In questo senso, il movimento GKN è riuscito a ricostruire un’alleanza organica tra classe operaia e classe intellettuale. Emblematico, in tal senso, è lo slogan nato dalla convergenza tra il movimento GKN e il comparto dell’istruzione, dell’università e della ricerca, in occasione del Festival della letteratura working class del 2025: «Siamo pubblica utilità».

Tavola dell’artista Francesco Del Casino per il Festival della Letteratura 2025.

Tavola dell’artista Francesco Del Casino per il Festival della Letteratura 2025.

La grande lezione che questo tipo di esperienze tentano di offrire rispetto al tema della giustizia sociale come interesse pubblico, riguarda proprio l’urgenza di costruire di un’alleanza politica tra la classe lavoratrice e segmenti della classe media. Rinnovare l’interesse per la cosa pubblica – intesa come riarticolazione degli interessi della maggioranza – significa oggi muoversi nello spazio d’intersezione tra il politico, l’economico e il culturale: dimensioni fondamentali per comprendere e trasformare le strutture alla base di ogni società. Una visione progressista da sinistra delle istituzioni statali come garanti della cosa pubblica, dovrebbe innanzitutto farsi carico di intercettare le molteplici vulnerabilità e paure generate dal modello economico neoliberista, incanalandole in una rinnovata fiducia nel potere dello Stato e «nella sua capacità di definire il corso della storia».

Si tratterebbe, in tal senso, di concepire uno Stato che non si limiti a rappresentare l’ordine istituzionale e sociale funzionale al buon andamento dei mercati – come di fatto la terza via già menzionata concretizzava – ma che invece recuperi una proattività nella pianificazione della realtà sociale, assumendosi la responsabilità di orientare le scelte collettive, anche a costo di sacrificare alcuni interessi economici non maggioritari, in nome della protezione dei cittadini. In questa prospettiva, la funzione pubblica si ridefinisce non come mera gestione tecnica dell’esistente – come accaduto nei governi tecnici che si sono susseguiti nel tempo – bensì come programmazione politica capace di restituire senso e direzione allo sviluppo sociale.

virus6.   Note demologiche

In questo panorama, tanto la sinistra istituzionale quanto quella extra-istituzionale si sono rivelate essere non adeguate, resta da chiedersi che cosa ha fatto da contraltare sul piano della ricerca demologica e come questa si sia inserita all’interno della diade sinistra e popoli. Di fronte a questi scenari, la domanda da porsi non è più se questi fenomeni meritino attenzione, ma come interrogarli senza riproporre, consapevolmente o meno, lo schema oppositivo tra cultura alta e cultura bassa, tra popolare e populista, tra folklore e consumo. L’estetizzazione della radicalità politica, l’immaginario ribellista posticcio, il protagonismo di figure sociali distanti dalle condizioni materiali da cui quei linguaggi hanno avuto origine: tutto questo non può essere liquidato come deriva o svuotamento simbolico. È piuttosto un indizio di trasformazioni profonde nei modi con cui le soggettività si riconoscono, si esprimono e si aggregano oggi.

In questo senso è interessante esaminare il fenomeno della “pop-radicalizzazione” della sinistra, che si manifesta attraverso influencer, e progetti musicali che attingono all’immaginario della deriva armata che negli anni ‘70 interessò parte del mondo della Sinistra extra-parlamentare (Brigate Rosse, Prima Linea…) o il merchandising legato al genocidio del popolo palestinese. L’immaginario in questione non ha mai abbandonato totalmente gli ambienti della Sinistra radicale e “alternativa”. In ambito musicale, soprattutto con l’attecchire del Punk, nei decenni precedenti, il carattere provocatorio ed estremizzante insito in tale sottocultura ha favorito il sopravvivere di un certo linguaggio e immaginario. Ci sono stati casi sparsi negli anni ‘2000 di esperienze musicali (molte provenienti dalla capitale) che, tra riferimenti simbolico-ideologici all’URSS di epoca stalinista, nomi di gruppi (quali i P38 Punk) e canzoni che istigavano alla violenza cieca contro avversari politici fino al vilipendio di cadavere, hanno portato avanti un estremismo politico e musicale che rimaneva strettamente limitato al circuito di provenienza e riferimento con l’acquisto diretto del materiale fisico e lo sharing di rari file come unico mezzo di diffusione.

Gli ultimi anni, ormai possiamo parlare dell’ultimo decennio, hanno conosciuto degli stravolgimenti culturali impossibili da ignorare; in primis il mondo dei social network che, nell’arco di una decina di anni ha visto il passaggio da realtà quali Netlog e MySpace esclusivamente utilizzabili tramite PC, a Facebook, Instagram, TikTok, etc., ormai legati alla cultura dello smartphone e della totale sovrapposizione della vita offline a quella virtuale. Queste dinamiche, già avviate nella fase “sperimentale” dei primi anni ‘10 del terzo millennio, si sono affinate e hanno subìto un upgrade nel periodo Covid in cui un certo tipo di comunicazione si è definitivamente affermato come onnipresente nella quotidianità di buona parte della cittadinanza. La semplificazione fino alla banalizzazione del linguaggio in ambito politico è una costante della musica che si pone come mezzo per il veicolamento di contenuti “impegnati” di una specifica fazione soprattutto quando estrema e questa è una delle primarie lezioni del Punk politico; le dinamiche social hanno contribuito ad un intensificarsi anche di questo fenomeno. Chi segue o ascolta questi gruppi/influencer non segue necessariamente la politica in modo attivo, non partecipa alla comunità, spesso si tratta di “giovanissimi” appartenenti a famiglie borghesi. Lo si legge dall’analisi che ha fatto l’ISTAT riguardo al rapporto tra giovani e interesse politico.

«Negli ultimi venti anni, la quota di partecipazione politica giovanile è diminuita circa il doppio rispetto alla popolazione di 16 anni e più e un indice di parità aggiustato tra 2023 e 2003 pari a 0,74 […]  web, diventato lo strumento privilegiato di informazione per il 71,0 per cento dei giovani (+20,6 punti percentuali rispetto al 2013), grazie alla diffusione dei social network come principale canale informativo (per il 66,7 per cento dei giovani)» [12].

Sarebbe interessante capire che tipo di coinvolgimento c’è da parte di questi ragazzi e ragazze su questi argomenti, o meglio dove finisce l’interesse per gli argomenti trattati e dove inizia la fascinazione estetica di queste istanze. Come interpretare questa radicalizzazione in chiave pop che prende vita attraverso i consumi di massa? Che tipo di lavoro ci viene richiesto, oggi, per decifrarla? Nei rapporti tra gruppi sociali alti e bassi come bisogna leggere questi fenomeni? D’altro canto, se sia il “figlio del padrone” sia quello dell’operaio si rifanno agli stessi modelli culturali – in quanto prodotti di massa – nonostante il richiamo esplicito alla lotta di classe armata e l’appello a valori politici e morali codificati, allora forse vale la pena interrogarsi più a fondo.

primo_quaderno_gramsciVale davvero la pena analizzare questo fenomeno? Anche da un punto di vista demologico gli interessi nelle ricerche e negli studi seguono questa linea, si tende a studiare ciò che è classificabile come “folklore”, “i frammenti della vita contadina” o le realtà di estrema subalternità, e si tende a non voler analizzare i fenomeni più “pop”, di massa e di realtà quotidiana. L’appello che Gramsci fa nel Quaderno 27 appare un monito sbiadito nel tempo quando invita a studiare il folclore come “concezione del mondo e della vita” implicita in determinati strati della società. Sembra esserci uno strappo tra l’antropologia militante e un approccio museale: è possibile che non vi possa essere anche in questo caso un’interconnessione? Perché la cultura pop ci disgusta così tanto? Cosa ci spaventa, esattamente, in tutto questo? È come se ci svegliassimo da un sogno, rendendoci conto che il mondo descritto da Cirese e de Martino è cambiato radicalmente. Al posto del contadino della Lucania – che un tempo rappresentava una forma di resistenza al mondo consumista e massificato – troviamo oggi una figura pienamente inserita nel panorama stratificato dei consumi. E ciò che più colpisce è che questa trasformazione sembra portare con sé una sorta di ‘colpa’: quella di non rispondere più al tipo ideale che gli antropologi avevano proiettato su di lui.

È possibile riprendere una prospettiva gramsciana per analizzare la società di massa anche nei suoi lati consumisti, comparando e studiando le differenze sociali e culturali? La questione non è più soltanto se sia possibile un nuovo blocco storico, ma anche quali forme inedite questo potrebbe assumere nel contesto della società dei consumi, delle piattaforme e dei memi. Una demologia che voglia rimanere attiva e partecipe del presente deve forse accettare di sporcarsi le mani: abbandonare l’illusione di un “popolo puro” da salvare e cominciare a cercarlo là dove meno ci si aspetta.

Abbiamo concepito la cultura popolare esclusivamente come autoproduzione delle classi subalterne. Per questo motivo, tutto ciò che riguarda i prodotti standardizzati di massa ci è sembrato un costrutto artificiale, da escludere dalle osservazioni e dalle ricerche. La cultura materiale derivante dai consumi di massa è stata vista come un elemento artificiale, capace di corrompere l’autenticità delle classi popolari.

Tuttavia, il “folklore progressivo”, se inteso nel senso proposto da De Martino, rappresenta il potenziale espressivo delle classi popolari proprio nella scelta dei consumi, nel modo in cui li rappresentano e nel creare, a loro volta, il proprio Umwelt, ossia la loro capacità di addomesticare il mondo che le circonda. I consumi di massa, in questa prospettiva, costituiscono i frammenti del mondo e della vita attraverso cui comprendiamo l’ambiente che ci circonda.

Viene quasi da chiedersi se la demologia, essendosi sempre avvicinata alle idee progressiste della sinistra, non si sia smarrita essa stessa lungo il cammino. Ha ancora senso parlare di classe egemone o di una possibile ricostruzione di un’egemonia politico-culturale? È plausibile immaginare la ricomposizione di un blocco storico in cui le idee progressiste riescano a tenere insieme, da un lato, le concezioni del mondo e della vita di componenti sociali ampie e diversificate e, dall’altro, le istanze umanitarie rivolte a chi vive ai margini della comunità? 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 
[*] Il presente articolo è stato pensato insieme dalle due autrici. Tuttavia il par. 1 e il par. 6 sono stati scritti da Benedetta Chesi, mentre i par. 2,3,4,5 sono stati scritti da Veronica Mesina.
Note
[1] G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli editore, Roma 2003: 419.
[2] Istituto Nazionale di Statistica (Istat), Benessere equo e sostenibile (BES) 2024 – Sintesi per la stampa, Roma, Istat, 2024, disponibile su: https://www.istat.it/wp-content/uploads/2024/04/Sintesi-per-la-stampa-BES-2024_160424-.pdf
[3] Censis, Il valore del ceto medio per l’economia e la società, Roma, Censis, 20 maggio 2024. Disponibile su: https://www.censis.it/sites/default/files/downloads/RAPPORTO%20FINALE%20CENSIS-CIDA%2C%2020%20MAGGIO%202024.pdf.; Demos & Pi, Metà degli italiani si sente “ceto medio”. La politica si contende il centro della società, 23 luglio 2024. Disponibile su: https://www.demos.it/a02243.php.
[4] Bratton, Benjamin, Agamben, What the fuck?! O come la filosofia ha cannato la pandemia, «Transform! Italia», 2021. Disponibile su: https://transform-italia.it/agamben-what-the-fuck-o-come-la-filosofia-ha-cannato-la-pandemia/.
[5] Fabio Dei, “Populismo e demagogia” in Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020: 119-127,
[6] Fabio Dei, Quando siamo scesi dal mondo per un momento, «Testimonianze», 2020, disponibile online: https://www.testimonianzeonline.com/2020/10/quando-siamo-scesi-dal-mondo-per-un-momento/.
[7] Ibid.
[8] Oxfam, World’s billionaires have more wealth than 4.6 billion people, Oxfam International, 2020, disponibile online: https://www.oxfam.org/en/press-releases/worlds-billionaires-have-more-wealth-46-billion-people.; Oxfam, Wealth of five richest men doubles since 2020 as five billion people made poorer in “decade of division,” says Oxfam, Oxfam International, 2024, disponibile online: https://www.oxfam.org/en/press-releases/wealth-five-richest-men-doubles-2020-five-billion-people-made-poorer-decade-division
[9] Paolo Gerbaudo, Controllare e proteggere. Il ritorno dello Stato, Milano, Nottetempo, 2022 (collana “Saggi”).
[10] Stefano G. Azzarà, Il virus dell’Occidente: universalismo astratto e sovranismo particolarista di fronte allo stato d’eccezione, Milano, Mimesis, 2020.
[11] Ibid.
[12] Istituto Nazionale di Statistica (Istat), Rapporto annuale 2024. La situazione del Paese, Roma, Istat, 2024, disponibile online: https://www.istat.it/wp-content/uploads/2024/05/Rapporto-Annuale-2024.pdf (consultato il 15 aprile 2025). 
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Benedetta Chesi, nata a San Miniato, laureata in Filosofia e Forme del Sapere presso l’Università di Pisa nel 2019 con una tesi dal titolo Domesticità, Umwelt e Cultura popolare. Un’etnografia nelle case popolari toscane. Attualmente insegna presso la scuola secondaria di secondo grado. 
Veronica Mesina, nata a Sassari, è laureata in triennale in Filosofia presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa, con una tesi in Antropologia Culturale dal titolo Potere e cultura nel discorso antropologico a partire dalla svolta riflessiva. Ha conseguito la laurea magistrale in Informatica Umanistica presso lo stesso Ateneo, con una tesi a cavallo tra la Social Network Analysis e l’Antropologia Culturale, dal titolo Analisi dei dati di Twitter sulla risposta pubblica alle politiche COVID-19 in Italia: quali autorità e quale influenza?. Attualmente è dottoranda in Artificial Intelligence For Society presso l’Università di Pisa. Per la stessa rivista ha scritto un contributo dal titolo La didattica a distanza nella Università. Voci degli studenti e spunti per una riflessione.

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