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Scritture filosofiche del Novecento

Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2021 @ 02:51 In Cultura,Letture | No Comments

dialogo-sopra-i-due-massimi-sistemi-del-mondodi Alberto Giovanni Biuso

 Un’«invenzione ammiranda»

«Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a dieci mila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta. Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane»[1].

Il celebre testo galileiano del 1632 introduce in modo universale alla scrittura, alla sua centralità per il pensare, alla vera e propria magia della sua potenza. Se questo è sempre vero, lo è in modo peculiare e profondo per la filosofia del nostro tempo. Unterwegs zur Sprache, in cammino verso il linguaggio, si può dire infatti che sia non questo o quel pensatore ma l’intera filosofia contemporanea. Per tentare di comprendere la posizione che il tema del linguaggio e quindi delle scritture – al plurale – assume dentro la filosofia, non si può che partire dalla sua costante presenza nel pensiero occidentale.

Omero fa dire ad Enea che «la lingua degli uomini è sciolta, ne sgorgano tante parole (μῦθοι) / diverse, ricca pastura di frasi da entrambe le parti. / Ogni cosa che dici, ne senti un’altra appropriata»[2]. Parmenide sostiene l’identificazione di essere, pensiero e linguaggio. Per Gorgia la parola è la vera signora degli umani, capace con il suo corpo invisibile di produrre gli eventi e di dominare il modo in cui gli umani li esperiscono: «Con materia assai piccola e invisibile [la lingua / il logos] sa compiere cose divine: riesce infatti a calmare la paura, a eliminare il dolore, a suscitare gioia, ad accrescere la compassione» [3].

Se tale è la forza della parola, una delle ragioni della critica platonica alla parola scritta consiste nella sua potenza passiva. È infatti evidente che la lettura è un gesto di sintesi passiva; se conosciamo il codice di una lingua scritta non possiamo non leggere esattamente ciò che nel testo si trova. Nell’atto della lettura siamo in una condizione di subordinazione, esemplificata dalla frase – che una volta si leggeva spesso sui muri o sulle banconote – “Scemo chi legge”. Analoga struttura ha un cartello pubblicitario con il quale un’agenzia di pubblicità promuove se stessa. L’ho notato qualche tempo fa ai bordi di una strada: “Se stai leggendo, funziona!”. Di fronte a questa struttura passiva, la scrittura filosofica mostra tutta la sua dirompente potenza, data da tre fattori principali.

Il testo filosofico non è autonomo, anche se in un senso diverso rispetto a quello che gli rimprovera Platone. Esso infatti non ha bisogno del suo autore che lo difenda e ne spieghi il significato; ha bisogno invece dell’intelligenza, della tenacia, della competenza del lettore per svelare le proprie feconde contraddizioni, gli enigmi soluti e irrisolti, la continuità tra ciò che il lettore già conosce e ciò che apprende nell’atto della lettura.

La scrittura filosofica ha con il mondo un rapporto di differenza e di identità, inseparabili; essa è scrittura perché è diversa dagli enti, dagli eventi, dai processi. È, appunto, scrittura. Ma è scrittura filosofica perché cerca di porre sugli enti, sugli eventi e sui processi una rete semantica ed ermeneutica che consenta di comprenderli quanto più profondamente possibile.

La scrittura filosofica tende a costituirsi come le mappe di cui parlano i racconti di Borges. Mappe con un rapporto 1:1, poiché la mappa perfetta coincide con il territorio di cui è la mappa. Scrivere di filosofia significa mappare l’intera realtà, l’essere e il divenire poggiandosi sulla materia del mondo e rimanendone però separati da uno strato di teoresi.
Per questo la scrittura dei filosofi – per quanto diversissima possa essere nelle modalità e negli esiti – ci affascina. Perché è come se leggendo ci guardassimo allo specchio, scoprendo di noi stessi le strutture più profonde.

Il Novecento

Il modo in cui i filosofi intendono il linguaggio contribuisce dunque a determinare le forme in cui essi scrivono. Proverò a ricordare alcuni dei filosofi e dei libri che testimoniano la centralità del linguaggio/scrittura nel Novecento.

f-de-saussure-corso-di-linguistica-generaleFerdinand de Saussure

Molti approcci alla peculiare natura parlante della nostra specie sono accomunati da una convinzione che si potrebbe definire “strumentale” nel senso che il linguaggio viene visto come uno dei mezzi a disposizione dell’essere umano per comprendere e dominare il reale. Non è così. Ferdinand de Saussure ha mostrato che il linguaggio è invece un elemento costitutivo dell’esistenza individuale e collettiva. La particolare natura delle lingue – legata in modo profondo al tempo – le rende mutabili e immutabili, sempre identiche e tuttavia continuamente cangianti poiché il linguaggio è una struttura viva, è un processo che non conosce stasi, è un corpo che muta in ogni istante come a ogni istante nei corpi muoiono delle cellule e altre ne nascono.

La centralità del tempo, la struttura sincronica e diacronica della lingua, è uno dei presupposti e insieme uno dei più importanti risultati della ricerca di Saussure. La scrittura filosofica ha da questo punto di vista uno statuto e una vicenda del tutto peculiari e fatti di identità e differenza. C’è infatti una continuità sorprendente e profonda nel modo in cui la filosofia è stata pensata e scritta durante i due millenni e mezzo della sua storia. E però si dà ogni volta anche un salto che pone la scrittura su livelli e forme espressive diverse. I filosofi teoreticamente più radicali reinventano infatti ogni volta il linguaggio. Solo alcuni nomi, i più evidenti e tra gli altri: Aristotele, Kant (pur sulla base del lessico di Christian Wolff), Heidegger.

È su questo fondamento temporale che Saussure individua gli elementi del linguaggio umano, i quali da allora sono diventati la base di discussione e di sviluppo della linguistica. Tra questi: segno, significante/significato, langage/langue/parole. Il segno è l’unione di significante e significato, l’unione della componente fisica e di quella mentale, di un concetto e di un’immagine acustica, che non coincide con il suono ma è la traccia psichica da esso lasciata. Saussure propone delle immagini molto efficaci per cogliere tale unità: significante e significato sono come l’idrogeno e l’ossigeno che compongono l’acqua, come il recto e il verso di un foglio di carta, come il valore che si dà al metallo di cui è fatta una moneta.

La triade con la quale lo studioso individua le continuità e le differenze nel sistema dei segni è diventata uno dei fondamenti della semiotica e della linguistica. Il parlare umano sarebbe costituito da tre elementi: linguaggio (langage), lingua (langue), parola (parole). Il linguaggio è la capacità umana di parlare; una lingua è la concreta manifestazione di tale capacità, «un produit social de la faculté du langage et un ensemble de conventions nécessaires, adoptées par le corps social pour permettre l’exercice de cette faculté chez les individus» [4]. È tale caratteristica sociale del linguaggio a determinare l’importanza e la funzione della parole e cioè della declinazione personale che i parlanti fanno della lingua. La parola è invenzione, creazione, mutamento continuo. Ma la parola è inseparabile dalla potenza delle strutture linguistiche generali e sociali dentro le quali il parlante si trova a pensare, esprimere, comunicare. Gruppi e individui quando parlano sono in realtà parlati dal linguaggio poiché la lingua non è mai completa nel singolo individuo, in nessun momento essa esiste fuori dal fatto sociale. «La langue n’est pas une fonction du sujet parlant, elle est le produit que l’individu enregistre passivement. […] Elle est la partie sociale du langage, extérieur à l’individu, qui à lui seul ne peut ni la créer ni la modifier; elle n’existe qu’en vertu d’une sorte de contrat passé entre les membres de la communauté»[5].

L’arbitrarietà del segno, sulla quale Saussure insiste continuamente, non si riferisce dunque all’arbitrio del singolo parlante ma al fatto che non si dà alcuna corrispondenza necessaria tra il suono di una parola e il suo significato. Il significante «est immotivé, c’est-à-dire arbitraire par rapport au signifié, avec lequel il n’a aucune attache naturelle dans la realité» ma «c’est parce que le signe est arbitraire qu’il ne connaît d’autre loi que celle de la tradition, et c’est parce qu’il se fonde sur la tradition qu’il peut être arbitraire»[6].

Ancora una volta i dualismi vengono dissolti alla radice. La sincronia del segno, infatti, le sue caratteristiche costanti, sono inseparabili dal lavoro diacronico della parole, dalla quale dipende la potenza dei mutamenti in quel corpo vivo che è una lingua. La scrittura è per Saussure una forma derivata e puramente rappresentativa dell’oralità; essa tende a cristallizzare ciò che muta incessantemente. Da qui nascerebbe il distacco – in molte lingue anche notevole – tra la grafia di una parola e la sua pronuncia. La parola è inoltre tessuto e senso del pensiero, che senza di essa non sarebbe altro che una massa senza limiti, forma e significato.

Pensiero, scrittura, linguaggio mutano continuamente ma con ritmi temporali diversi. E nel tempo rimangono costanti. Anche questo gioco di identità e differenze fa ed è la lingua: una dinamica incessante di analogia, agglutinazione, differenziazione, che crea la continuità olistica del nostro parlare non per segni isolati ma per gruppi di segni, strutture, sistemi. Tutto questo, e molto altro, forma la semiologia, «une science qui étudie la vie des signes au sein de la vie sociale; […] nous la nommeros sémiologie (du grec semeîon, ‘signe’)»[7]. De Saussure ha insegnato nelle forme rigorose ed esatte della scienza linguistica quanto Friedrich Hölderlin aveva espresso in forme liriche: «Ein Zeichen sind wir, deutungslos», siamo un segno che nulla indica. Nulla al di là di se stesso, del proprio indicare, della vita come segno, parola, concetto, significato che abita in noi e non certo nelle cose e nella materia, che bisogno di senso non hanno. Queste tesi di Saussure si mostrano fondamentali anche per comprendere la varietà delle invenzioni linguistiche dei filosofi.

filosofie-analitiche-linguaggio-wittgenstein-vostro-fratello-ludwigLudwig Wittgenstein

La scrittura filosofica che si addensa nel Tractatus logico-philosophicus riprende non soltanto nel titolo lo stile spinoziano. La modalità è infatti quella euclidea, sebbene meno rigorosa che nell’opera di Spinoza. La particolare struttura del Tractatus segna un approccio radicalmente linguistico a una complessa serie di tematiche gnoseologiche, etiche, ontologiche e religiose. Una delle peculiarità di Wittgenstein consiste nel modo in cui coniuga lo stile euclideo e l’aforisma sapienziale. Una delle sue immagini più significative è rappresentata dalla metafora con la quale il filosofo descrive il proprio libro: una scala da utilizzare per salire a un livello più alto di comprensione, dopo di che ci si può anche sbarazzare dello strumento.

Che cosa questa metafora intenda significare è ben chiarito dalla proposizione 6.52 nella quale il filosofo afferma che «selbst wenn alle möglichen wissenschaftlichen Fragen beantwortet sind, unsere Lebensprobleme noch gar nicht berührt sind», ‘anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche abbiano trovato risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati’.

Il fatto è che per l’autore del Tractatus la filosofia può affrontare e tentare di risolvere solo quei problemi che consentono una enunciazione linguistica rigorosa, il resto è il “mistico”, l’indicibile al quale fa riferimento la proposizione conclusiva del libro. Se quindi «die Grenzen meiner Sprache bedeuten die Grenzen meiner Welt», se i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo (proposizione 5.6), la funzione della scrittura filosofica è analoga a quella che già Kant attribuiva alla critica della ragione: comprendere le condizioni, le possibilità e i limiti della conoscenza; condizioni, possibilità e limiti che nel Tractatus diventano marcatamente linguistici.

51k62rhtc1lMartin Heidegger

La relazione tra filosofia e linguaggio è decisiva anche per Heidegger. Si potrebbe descrivere il complesso itinerario di questo pensatore come un progressivo comprendere e ‘darsi al’ linguaggio. Se Sein und Zeit è rimasto incompiuto anche perché era venuto meno il linguaggio nel momento in cui si trattava di oltrepassare la metafisica, le opere e la riflessione successive procedono a una sempre più stretta identificazione di essere e linguaggio, che diventa anche identità di filosofia e scrittura. Il linguaggio appare come la “casa dell’essere” nella quale gli umani abitano, sono immersi, comprendono.

Come abbiamo già visto in Saussure, non è l’umano a possedere il linguaggio allo stesso modo in cui si è padroni di un oggetto, uno strumento o anche una situazione, ma è il linguaggio che “parla l’uomo”, vale a dire: se gli esseri umani sono ciò che sono è perché a essi il linguaggio si dà (es gibt) allo stesso modo dell’essere.

Ed è sempre nella struttura linguistica dell’ente umano che confluiscono altri temi centrali del pensiero heideggeriano: la tecnica come modo di darsi della metafisica; la verità come ἀλήθεια, svelamento linguistico dell’essere e non semplice esattezza delle proposizioni su di esso; il riscatto dal dominio del “si dice, si fa, si pensa” nell’ascolto – ancora una volta – del linguaggio. Si può quindi dire che mediante il linguaggio Heidegger riesce a pervenire a quella rimemorazione dell’essere alla quale l’opera del 1927 mirava. Ed è questo tentativo senza posa, insistito, tenace, a rendere così peculiare e così complessa la scrittura heideggeriana.

b06801Hans-Georg Gadamer

Verità e metodo e l’insieme della riflessione ermeneutica di questo filosofo costituiscono un approccio che unifica essere, storia e linguaggio mediante alcuni concetti fondamentali. Il primo è la “fusione di orizzonti”, attraverso la quale Gadamer intende evidenziare la non separabilità dell’autore, del testo e del lettore. Le conseguenze anche didattiche di un simile principio sono importanti ed evidenti. Quando noi leggiamo Platone leggiamo Platone oggi. E da questa contemporaneità non possiamo uscire.

Si dà comprensione di un evento come di un’opera soltanto quando il testo è assimilato da chi legge – o l’oggetto è compreso da chi lo osserva – in modo non estrinseco, dicotomico o “neutrale” ma quando si dispiega per intero quella Wirkungsgeschichte – “storia degli effetti” che l’opera ha generato – nella quale consiste il reale significato di ogni creazione della mente e della cultura. Non è dunque casuale ma è del tutto conseguente che Gadamer abbia affiancato ai testi teoretici più densi e originali tutta una produzione storico-filologica volta a mostrare la fecondità del pensiero greco, e in particolare del platonismo e delle sue scritture, per la comprensione del sapere e del vivere contemporanei.

Altro Novecento

La rilevanza teoretica delle tematiche del linguaggio nella filosofia contemporanea ha molti altri testimoni. L’intera psicoanalisi è un itinerario nel profondo attraverso l’uso della parola, la quale insieme ai sogni – peraltro anch’essi ‘narrati’ – permette di far emergere gli strati più interni della psiche. L’ “archeologia” di Foucault indica proprio negli enunciati linguistici il residuo più significativo di ogni cultura. Con la grammatologia Derrida – pur se in forme peculiari – ha restituito centralità al testo rispetto alla onnipotenza delle grandi costruzioni teoretiche. Searle, sul fondamento della distinzione proposta da Morris tra semantica, sintattica e pragmatica, ha infine ottolineato il radicale limite che sempre caratterizza la maniera in cui una macchina può elaborare linguaggi: un modo del tutto formale e quindi privo di quella dimensione semantica nella quale soltanto consiste la comprensione degli enti e degli eventi.

La scrittura come dimora

Perché le scritture filosofiche sono così ricche, varie, differenti sino ad apparire tra loro incompatibili? Una delle ragioni fondamentali è che si pratica una lingua e si abita in essa esattamente come si vive un corpo. La lingua non è uno strumento poiché essa è un mondo di significati, di riferimenti, di memorie, di attese. Ritenere che esprimersi in una lingua piuttosto che in un’altra, in uno stile piuttosto che in un altro sia un gesto neutrale è dunque un’ingenuità epistemologica ed esistenziale. È infatti certamente possibile passare da un codice linguistico a un altro ma è chiaro che questo significa cambiare ogni volta l’orizzonte sia concettuale sia esistenziale nel quale siamo immersi [8].

Linguaggi diversi generano differenti concezioni della realtà e diversi modi di vivere in essa. Pensiero e linguaggio sono espressioni differenti e profondamente correlate del corpomente immerso in uno specifico ambiente. Tale ambiente influenza quindi il pensiero che lo conosce, le parole che lo dicono, l’azione che in esso accade. Se è vero che il linguaggio è una funzione innata degli umani, essa ha sempre bisogno di un ambiente sociale che la renda possibile. Bambini che si sono trovati a crescere e a sopravvivere fuori dal consorzio umano, non sanno parlare. E questo conferma la struttura comunitaria del Dasein.

Sarebbe dunque utile e opportuno cogliere la differenza linguistica non come ostacolo – relazionale, scientifico, didattico – ma come occasione per mostrare con l’evidenza e la potenza del testo scritto la ricchezza delle differenze che costituiscono il mondo e in esso la filosofia.

9788832147520_0_500_0_75La scrittura filosofica di Friedrich Nietzsche

Un filosofo nel quale pensiero e scrittura giungono a una fusione del tutto particolare è Friedrich Nietzsche, che insieme a Goethe è uno dei massimi scrittori di lingua tedesca. Nietzsche è capace infatti di articolare il pensare nelle forme più diverse: lezione, aforisma, poema, trattato, saggio. Una vera e propria sintesi di ciò che dai Greci in avanti è stata la scrittura filosofica.

I primi suoi scritti sono dei saggi di rivista e delle lezioni dedicate a una varietà di argomenti classici. La nascita della tragedia è la prima grande opera filosofica, nella forma del trattato diviso in 25 capitoli relativamente brevi. Le quattro Considerazioni inattuali hanno un respiro insieme polemico e teoretico. Con Umano troppo umano, Aurora, La gaia scienza la scrittura diventa aforistica. Lo snodo è rappresentato da Also sprach Zarathustra, un tentativo di poema filosofico che intende porsi come alternativa stilistica e teoretica al Nuovo Testamento. Le opere degli ultimi anni coniugano lo scintillìo aforistico con la sistematicità teoretica, dando pertanto ragione alla tesi di Karl Löwith per la quale quello nietzscheano sarebbe «un sistema in aforismi» [9].

Nascono così capolavori come Al di là del bene e del male (1886), Genealogia della morale (1887), lo scritto forse più sistematico di Nietzsche, Crepuscolo degli idoli (1888), L’Anticristo (1888). E infine i Wahnbriefe, i cosiddetti “biglietti della follia” l’opera – che tale è – nella quale la filosofia diventa inseparabile dal tessuto doloroso ed euforico dell’esistenza quotidiana [10].

Presentare il pensiero e la figura di Nietzsche anche a partire da questa chiave stilistica potrebbe essere un modo tra i più efficaci per far capire – anche contro alcune esplicite prese di posizione dello stesso Nietzsche – che non si dà distanza tra il pensare e lo scrivere, che la filosofia è pensiero che accade nel suo farsi scrittura. La ragione principale risiede nel fatto che in generale la scrittura umana è il più potente tentativo di decifrare l’enigma del divenire. La scrittura filosofica è questo tentativo al massimo della sua tensione e dei suoi risultati.

Ecco un esempio di tutto questo, da un’opera spesso citata ma forse non altrettanto letta.

«Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi; salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto, e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e con la sua pena al piuolo, per così dire, dell’istante, e perciò né triste né annoiato. Vedere tutto ciò fa male all’uomo poiché egli si vanta, di fronte all’animale, della sua umanità e tuttavia guarda con invidia la felicità di quello — giacché egli vuole soltanto vivere come l’animale né tediato né addolorato, ma lo vuole invano, perché non lo vuole come l’animale.  L’uomo chiese una volta all’animale: perché non mi parli della tua felicità e mi guardi soltanto? L’animale voleva rispondere e dire: la ragione di ciò è che dimentico subito quello che volevo dire — ma dimenticò subito anche questa risposta e tacque: così l’uomo se ne meravigliò. Ma egli si meravigliò anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di essere sempre attaccato al passato: per quanto lontano e per quanto velocemente egli corra, la catena corre con lui. È un prodigio: l’istante, in un lampo, è presente, in un lampo è passato, prima un niente, dopo un niente, e tuttavia torna come fantasma e turba la pace di un istante successivo. Continuamente un foglio si stacca dal rotolo del tempo, cade, vola via— e rivòla improvvisamente indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice “mi ricordo” e invidia l’animale che subito dimentica e che vede ogni istante realmente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte e spegnersi per sempre»[11].

unnamedNaturalmente Nietzsche si sbagliava nel privare gli altri animali di memorie e di ricordi. Ogni entità che si muove coscientemente nel mondo lo può fare perché capace di elaborare pensieri. Ciascuna specie lo fa secondo le proprie caratteristiche etologiche, ma lo fa. Ho scelto un brano che sembra affermare il contrario non perché lo condivida su questo punto ma in quanto è una pagina che testimonia la potenza polifonica della scrittura nietzscheana, che nella sua interezza in realtà sostiene la continuità tra animalità e umanità.

L’evidente fonte leopardiana di questo racconto affonda infatti nella riflessione sia di Leopardi sia di Nietzsche sulla materia animale della quale l’umano è composto e che lo rende tessuto del mondo, elemento di un tutto, parte dell’intero. Una delle peculiarità della materia umana consiste nel fatto che essa ricorda se stessa e registra questa memoria non tramite ma dentro il linguaggio. Se la filosofia è anche la memoria che la specie conserva del proprio comprendere, la scrittura non è qualcosa che si aggiunga al lavoro filosofico ma è la filosofia in atto, è l’istante della ricerca, è il fluire del pensiero.

Le scritture filosofiche del Novecento, nella loro varietà e nella loro ricchezza, esprimono la millenaria saggezza di Thot: «ὦ βασιλεῦ, τὸ μάθημα,’ ἔφη ὁ Θεύθ,‘σοφωτέρους Αἰγυπτίους καὶμνημονικωτέρους παρέξει: μνήμης τε γὰρ καὶ σοφίας φάρμακον ηὑρέθη», «O sovrano, tale conoscenza renderà gli Egiziani più sapienti e in grado di ricordare meglio, poiché con essa si è trovato il farmaco della memoria e della sapienza» (Platone, Phaedrus 274e).

Nel contrapporre a questa saggezza del dio il timore che la scrittura possa invece rendere la memoria più debole, Platone ha torto. A dimostrarlo è l’intera sua opera, della quale le scritture filosofiche del Novecento costituiscono una potente eredità.

Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Einaudi, Torino 1982, Dialogo I: 130.
[2] Omero, Iliade, XX, 248-250, trad. it. di G. Cerri, Rizzoli, Milano 2008.
[3] Gorgia, Encomio di Elena, in «I Presocratici», a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1983, vol. II: 929-930, con alcune modifiche nella traduzione
[4] «Un prodotto sociale della facoltà del linguaggio e un insieme di convenzioni necessarie, adottate dal corpo collettivo allo scopo di permettere l’esercizio di questa facoltà in ogni individuo». F. de Saussure, Cours de linguistique générale, (1922), publié par C. Bally et A. Séchehaye avec la collaboration de A. Riedlinger; édition critique préparée par T. De Mauro, postface de L.J. Calvet, Payot, Paris 2005, Introduction, III, § 1: 25.
[5] «La lingua non è una funzione del soggetto che parla, essa è il prodotto che l’individuo passivamente registra. […] Essa è la componente sociale del linguaggio, esterna all’individuo, il quale da solo non può né crearla né modificarla; essa non esiste che in virtù di una sorta di contratto stipulato tra i membri della comunità». Ivi, Introduction, III, § 2: 30-31.
[6] «è immotivato, vale a dire arbitrario in rapporto al significato, con il quale non ha nessun legame naturale nella realtà», ma «è proprio perché il segno è arbitrario che non conosce altra legge che quella della tradizione, ed è perché si fonda sulla tradizione che può essere arbitrario». Ivi, Première partie, I, § 2: 101 e II, § 1: 108.
[7] «Una scienza che studia la vita dei segni dentro la vita sociale;  […] la chiameremo semiologia (dal greco semeîon, ‘segno’». Ivi, Introduction, III, § 3: 33.
[8] Su questo tema, e dunque anche sulla questione della difesa dell’italiano come lingua di cultura, si veda il mio La lingua come dimora / mondo e l’intero volume nel quale è stato pubblicato: «L’idioma di quel dolce di Calliope labbro. Difesa della lingua e della cultura italiana nell’epoca dell’anglofonia globale», a cura di S. Colella, D. Generali e F. Minazzi, Mimesis, Milano–Udine 2017.
[9] K. Löwith, Nietzsche e l’eterno ritorno (Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkunft des Gleichen, 1935), trad. di S. Venuti, Laterza, Roma-Bari 1985: 9.
[10] Per una traduzione e analisi di questi testi, rinvio al mio Impazzire di gioia. Su Nietzsche e i suoi Wahnbriefe, in «Studia humanitatis. Saggi in onore di Roberto Osculati», a cura di A. Rotondo, Viella, Roma 2011: 465-474.
[11] F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Unzeitgemässe Betrachtungen, Zweiterstuck, Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, 1874) in «La nascita della tragedia. Considerazioni inattuali, I-III», “Opere di Friedrich Nietzsche”, Volume III/1, Adelphi, Milano 1976, trad. di S. Giametta, con mie modifiche alla traduzione, § 1: 262.
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Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, dove insegna Filosofia teoretica, Filosofia delle menti artificiali e Sociologia della cultura. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Nel 2020 ha pubblicato due libri: Tempo e materia. Una metafisica (Olschki Editore), Animalia (Villaggio Maori Edizioni).

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