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Salvare le parole per salvare un luogo: Cutusìu di Nino De Vita

cutusiudi Ada Bellanova 

Alcuni poeti riescono a percepire e far percepire con la parola il senso di un luogo. Secondo K. White [1], la terra stessa è capace di generare poesia, ma chi scrive mostra un’intelligenza territoriale particolare nell’elaborare e costruire il mondo di cui ha coscienza geografica. Attraverso la lettura così riusciamo a stringere con quel luogo un legame significativo e vi rintracciamo messaggi fondamentali, che ci riguardano tutti.

Apparso per la prima volta in un’edizione privata nel 1994 (e già vincitore del Premio Moravia) e ripubblicato nel 2001 per Mesogea, Cutusìu di Nino De Vita esce ora per Le Lettere nella collana «novecento / duemila». Quest’edizione ci consegna un libro nuovo e reca il senso di un progetto ultimato. Come già l’ultimo Cùntura uscito per la stessa casa editrice nel 2023, questa versione di Cutusìu non è solo arricchita di inediti ma è anche totalmente rivista, con un lungo e intenso labor limae.

È Cutusìu un luogo, oltre ad essere un libro. Anzi, è un libro proprio perché esiste un luogo, un mondo piccolissimo sulle mappe, una contrada marsalese con poche case sparse o ammucchiate in bagli, davanti allo Stagnone, con la vista di Mozia, e proprio lì Nino De Vita è nato e ha sempre vissuto. Così quella terra, con le sue storie, le vicende dei suoi abitanti, la loro esperienza umile di tutti i giorni, ci giunge da un tempo contadino quasi del tutto scomparso, attraverso il filtro del ricordo, quale indiscussa protagonista dei versi narrativi del poeta, autentica e vitale.  

Ma Cutusìu è anche suono, la lingua degli antenati, il dialetto che il poeta ha imparato da genitori e nonni nella quotidianità dell’infanzia, e che torna, nel progetto poetico di una vita, in un’operazione di cura, salvezza, veramente preziosa che Vincenzo Consolo, nella prefazione qui riproposta, accosta al lavoro degli ultimi poeti di Bisanzio [2] di fronte al crollo di una civiltà. La particolare parlata della contrada marsalese calata in versi narrativi può essere in effetti molto di più che un impersonale dizionario, di fronte all’oblio che avanza [3]. Mentre chiama, dice con precisione le cose, e quindi le distingue, le conosce – proprio la competenza di un contadino nel suo mondo, come scrive Pasolini – il poeta non preserva solo le parole, salva proprio Cutusìo [4]. 

fosse-chitiUn bambino e la sua terra

Cutusìu è un vero e proprio romanzo di formazione in versi: nelle sue pagine è la vicenda di un ragazzino dalla sua nascita ai tredici anni circa. Accanto a lui, sempre, c’è il luogo che lo ha generato: piante, animali, l’umanità dolente e fragile con i suoi strumenti di lavoro, gli oggetti e il cibo della vita contadina.

L’altura desolata – l’espressione timpuni assulazzatu Cutusìu apre il libro – esiste prima, con i rovi, i capperi, con gli ulivi, il mare dello Stagnone e gli uccelli, prima che inizi la storia, prima che nasca Nino, l’8 giugno 1950. Sempre poi ne scandisce i passi, la crescita: anche fuori dal perimetro delle sue case, delle sue pietre, è timpuni assulazzatu che sovrasta, s’erge, per esempio sull’avvallamento di Parecchiate, dove si vanno a raccogliere le lumache. E anche quando il ragazzo si allontana, la terra resta con lui, nella sua identità: «Sugnu ri Cutusìu» dice Nino al pastore che l’ha sorpreso, estraneo, vicino all’ovile.

Il racconto, tutto in prima persona, comincia con la nascita, Ottu giugnu millinuvicentucinquanta. La natura piena di sole, coi fiori aperti, che accoglie in sé tracce di sofferenza nell’erba avvizzita, scura, sta a guardare ma è anche correlativo del dramma di un parto difficile, della scelta terribile tra la vita della madre e quella del figlio, e poi del pianto a sorpresa del neonato creduto morto – chiancii – che, infine, nero, respira. Al dolore di vivere sperimentato già nel venire al mondo, – traccia leopardiana, come evidenzia Consolo nella prefazione [5] –, il poeta reagisce, non negando la sofferenza, che anzi il personaggio, fortemente autobiografico, impara osservando e ascoltando l’umanità e tutte le creature della sua terra, ma accettandola e valorizzando il legame profondo che con quell’umanità e quelle creature lui sente di avere.

La presa di coscienza è dei primi tredici anni di vita. Significativamente l’ultima sezione del libro è Comu cucia ’u suli nnall’astaciuni ru sessantrì, versi che ricordano l’estate precedente l’inizio delle scuole superiori, la frequentazione dell’Istituto Agrario, da solo, fuori dalla contrada. Né è casuale che l’altra data evidente, nel titolo ’U rui novembri ru sessantarui, rappresenti una tappa di autonomia nel confronto indipendente del ragazzo con i morti della sua famiglia, della sua terra.

Tra la nascita e i tredici anni c’è un bambino inizialmente piccolo, inesperto – «ancora sugnu nicu», dice al pescatore che gli chiede se vuole andare con lui a prendere i pesci; «Chi sapi, ’un sapi nenti / ancora», dice di lui lo zi’ Filippo –, che con l’attenzione e la curiosità, con l’impegno continuo a osservare e ascoltare, impara il suo mondo.

La conoscenza di Cutusìo, delle case, delle persone, di tutti gli esseri viventi, coinvolge il lettore, attraverso una prospettiva infantile che coesiste con il filtro consapevole del ricordo dell’adulto che riempie i vuoti ma non giudica mai. Come scrive Consolo, c’è stupore e tenerezza nella contemplazione del paesaggio, del mondo animato e inanimato [6]. Le percezioni piene di meraviglia del bambino di un tempo continuano a caratterizzare la conoscenza accogliente che il poeta ha del luogo, fatta di incontri quotidiani, della dimestichezza di una vita. Vi si aggiungono dettagli su animali e piante, la precisione nei nomi, conquista dell’adulto, che caratterizzano tutta l’opera di De Vita, già dal libro d’esordio del 1984 Fosse Chiti. A questo si deve la felicità di alcune descrizioni come quella dell’acqua dello Stagnone, «così azzurra da sembrare / che da lì nascesse / il cielo» – azzolu chi pparia / chi di ddani nascissi / ’u celu – e la ricchezza nel dire i pesci, la vegetazione e gli uccelli recuperando parole perdute.

La vicenda del giovanissimo Nino vive di giochi come l’aquilone fatto a mano –’a cummedia – osservato allontanarsi con il cuore piccolo piccolo – ’u cori un pitticuni –, o di sfide coi compagni, a penetrare nella grotta scura, misteriosa, o a provocare gli adulti, di sentimenti assoluti come il dolore, lo strazio per la perdita della cagnetta che la promessa paterna di un nuovo animale non placa e che diventa anzi preghiera insistente a Dio, delle paure, sue, come quella del tuono e del nero di un temporale che lo fanno correre a perdifiato – a scattafeli – incontro al padre, ma anche degli adulti, come quella della nonna che anche in punto di morte vuole le porte ben serrate perché non entrino i ladri, di gusto e olfatto delle cose dolci – mustazzoli / ri meli […] viscotta /chini  ri ggiuggiulena – anche il giorno dei morti – ’i cosi ruci: ’a pasta / ri mènnuli, ‘a cubbàiddia – , di particolari come i pesci che saltano nella cesta culurati / a strisci; àvutri lagghi chini ri spini, chi / ddappìanu e churìanu /’i aggi, zzichittiàvanu, o come la magia dello zucchero filato – màttula bianca, finafina – che cresce attorno alla bacchetta tra le mani del venditore alla festa di paese, o come la faccia stravolta del suonatore –  l’occhi cci / niscianu ri fora – che soffia a perdifiato nel trombone. 

CUNTURASoprattutto la crescita di Nino è accompagnata da un senso profondo del mistero dell’esistenza, colto nei confini dell’esperienza quotidiana e concreta e che risiede soprattutto nell’intima appartenenza del dolore alla vita. In Paricchiati perciò la raccolta delle lumache fatta da un gruppo di ragazzini si svolge mentre il padre di uno di loro muore, e l’abbraccio materno a Nino esiste come esiste l’amico che barcolla dietro la bara accanto a sua madre. All’inizio il bambino non sa che la gioia è una cosa che finisce, ma sempre di più gli giunge la consapevolezza della sofferenza, e se già in Bbatassanu nella protezione al fuggitivo il quasi ragazzo ha modo di definire cosa è giusto e in ciò si sente più grande – ’U tempu ri pinzari, / r’essiri scenti, schittu ’u tempu / ri fàrimi cchiù rranni –, e più tardi infatti l’uomo gli dirà «Un omu sì. Un omu», ancora di più nei testi che seguono il protagonista matura e comprende come tutto il mondo si tormenta.

Dopo l’incontro con i suoi morti, i morti di Cutusìo, in ’U rui novembri ru sessantarui, – il ragazzo li scopre ora da solo, ha lasciato i suoi genitori al cancello del cimitero –, e le tragedie di altri testi, tra cui spicca senz’altro Bbinirittedda, la conclusione, sintetizzata nel titolo della sezione, è proprio Tuttu ’u munnu si ruri, ovvero Tutto il mondo si tormenta. Gli insettini che girano di notte, sti cusuzzi, e che poi, dopo aver sbattuto contro il vetro del lume, si abbattono bruciati o barcollanti, le galline che strepitano, anzi, fanno uno schiamazzo di vuci, attaccate da un indefinito predatore, e poi i granchi stretti nel sacco che fanno rumore con le chele sono tutte creature osservate con attenzione nel divenire della loro sofferenza. L’esito è il turbamento: i granchi facìanu un nzirrichiu / chi a mmia mi scumminava.

Ma un identico destino di tormento accomuna anche gli esseri umani. È la verità che giunge a Nino dal pescatore: pure noi siamo dentro a un sacco. La presa di coscienza è completa nell’estate dei tredici anni: l’ossessivo ripetersi di mi nn’jia, jia, mi nn’jia, «me ne andavo, andavo, me ne andavo» è contraddetto dallo scirocco che risospinge indietro mentre un pastore incontrato sul tragitto rivela, nel suo destino che non muta, la verità più grande che tocca a tutti, ovvero che fuggire in realtà non si può, e il ragazzo, intento poi a zappare insieme a suo padre, nel contatto con la terra assetata, crepata dalla siccità – ’i spaccazzi sono ferite – pensosamente ritorna sulla pena che riguarda gli esseri umani come tutte le cose: comu l’òmini ’i cosi / pinìanu.

Questa consapevolezza non sarebbe possibile senza una disponibilità genuina all’ascolto, senza un continuo esercizio di attenzione e decifrazione. Molti sono i racconti che arrivano a Nino dalla gente di Cutusìo. Racconta Paolo, il marito della maestra, chissà se storie vere o inventate, e lì sta la precoce rivelazione dell’enorme piacere nell’ascoltare: E a mmia mi / piacia, ch’un nnavissi / finutu cchiù ri sèntiri. Racconta fatti strampalati Mastr’Alfio, cùntura strulluchiusi, e racconta drammi il fuggitivo Baldassare, ma raccontano anche gli amici, come Alfredo a Mozia, gli adulti tra di loro, come il sacrestano zi’ Abele a suo padre, raccontano gli sconosciuti, come una donna al cimitero ferma davanti alla tomba del marito. Nino insomma impara dall’ascolto degli altri, vecchi, compagni, viandanti, tutti, il senso del luogo e dell’esistenza [7].

Un precoce apprendistato che si traduce in potenza della narrazione. Perciò Martinu, nella sezione Era lustru ri luna (Era chiaro di luna) è un testo centrale, un vero manifesto di poetica, che dice la forza della poesia, in grado di «dare la vista ai ciechi», non solo al piccolo Martino che scopre la bellezza della luna attraverso le parole di Nino, non potendo fisicamente vedere il cielo notturno, ma a quanti non hanno ancora guardato e visto con attenzione il proprio mondo, a quanti non ne hanno ancora colto il mistero.

La lingua della narrazione poetica non può che essere il dialetto, la lingua orale, ascoltata, la lingua «materna» e del ricordo, l’unica che può dire Cutusìo perché è l’unica che conosce i dettagli e accoglie tutto, ogni essere vivente, chiamandolo per nome, persino i cusuzzi che volano di notte, o le formiche che camminano lungo il muro della gebbia e i ragni che tessono ruote tra le pale di ficodindia. Così, nell’attenzione per le creature più piccole che gli vivono accanto, che coincide nell’ultimo testo con l’avvicinarsi di ottobre e dell’inizio della scuola superiore, il poeta ci lascia una traccia luminosa che ritroviamo in tutte le pagine di Cùntura. 

il-bianco-della-lunaUna Cutusìo di tutti

Tutto quello che il bambino ha ascoltato, tutto quello su cui si è interrogato, quello che ha accolto, Cutusìo intera insomma, ha gettato un seme e quello è cresciuto come la bambagia fina fina attorno allo stecco. L’oralità di una volta è la sostanza della maturazione di Nino, l’eredità che il poeta ha fatto sua. Al punto che ora egli può ridire le persone, le creature, persino la pena, la muta preghiera delle cose che soffrono.

Il testo è finalmente completo. E noi incontriamo una Cutusìo di tutti, stupiti che una piccola terra dai confini geografici precisi e raccontata in maniera così personale ci appartenga, anche se viviamo molto lontani, e, misteriosamente, di fronte ai versi del poeta, comprendiamo che la rivelazione riguarda anche noi. Di fronte alla perdita ecologica irreparabile dei nostri giorni, Nino De Vita salva le parole e la sua contrada, salva ciò che ama, e noi allora siamo portati a domandarci quale sia la nostra relazione con gli spazi che abitiamo e, se in difetto, a inventarci un nostro percorso di cura e attenzione verso le nostre contrade e verso tutte le creature che le abitano. 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 
Note

[1]   K. White è il fondatore della geopoetica, che propone di ripensare il rapporto tra essere umano e mondo (ad esempio White K, Geopoetics: Place, Culture, World, Alba Editions, Glasgow 2004). Tale prospettiva è stata rilanciata da F. Italiano, come una particolare coscienza geografica, un sapere territoriale che è conoscenza del mondo, della natura e dei suoi processi, una geografia percepita e pensata che prevede l’individuazione del nesso uomo-terra, per come emerge nella specificità del testo letterario. Ad esempio, Italiano F., Tra miele e pietra. Aspetti di geopoetica in Montale e Celan, Mimesis, Milano-Udine 2009.
[2]  Consolo V., Prefazione, in De Vita N., Cutusìu, Le Lettere, Firenze 2025: 9-11.
[3] In più di un’occasione, Nino De Vita dichiara di essersi convertito alla poesia dialettale per l’improvvisa e dolorosa coscienza che il dialetto non è più compreso dalle nuove generazioni, e questa mancanza corrisponde a una perdita di significato e complessità, a una conoscenza più superficiale del proprio mondo. «[…] sta finendo tutto, la mia lingua si sta annacquando. Nessuno più la capirà […]» N. De Vita, Il poeta amico di Sciascia, «prigioniero» di Cutusìo, «La Repubblica», 22 aprile 2001. Si capisce anche dunque perché il poeta provi amarezza per la necessità di una traduzione del testo, altrimenti non comprensibile a tutti. Non esiste mai, infatti, una piena corrispondenza tra due lingue, dunque la versione in italiano non può che essere rielaborazione del testo di partenza di cui più di qualcosa viene sacrificato. Alla difficile, a volte impossibile, resa della metrica originaria, si accompagna la scomparsa del lessico della tradizione, con il carico culturale che esso veicola. A proposito, per esempio l’intervista disponibile in rete La poesia di Nino De Vita, siciliano del mondo nel programma La lingua batte, 31 dicembre 2023.
[4] Pasolini P., Dialetto e poesia popolare, in Id (a cura di), Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano,1999: 374.
[5]  Consolo V., Prefazione, cit.: 12.
[6]  Ivi: 13.
[7] A proposito si veda Trevi E., Le «lìsine» di Nino De Vita, in N. De Vita, Il bianco della luna, Le Lettere, Firenze 2020: 5-6. 
Riferimenti bibliografici
Consolo V., Prefazione, in De Vita N., Cutusìu, Le Lettere, Firenze 2025: 5-15.
De Vita N., Il poeta amico di Sciascia, «prigioniero» di Cutusìo, «La Repubblica», 22 aprile 2001.
Id., Fosse Chiti, Mesogea, Messina 2007.
Id., Il bianco della luna, Le Lettere, Firenze 2020.
Id., Cùntura, Le Lettere, Firenze 2023.
Id., Cutusìu, Le Lettere, Firenze 2025.
Italiano F., Tra miele e pietra. Aspetti di geopoetica in Montale e Celan, Mimesis, Milano-Udine 2009.
Pasolini P., Dialetto e poesia popolare, in Id (a cura di), Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano1999: 373-375.
Trevi E., Le «lìsine» di Nino De Vita, in N. De Vita, Il bianco della luna, Le Lettere, Firenze 2020: 5-7.
White K, Geopoetics: Place, Culture, World, Alba Editions, Glasgow 2004. 
Sitografia
La poesia di Nino De Vita, siciliano del mondo. La lingua batte, 31 dicembre 2023 https://www.raiplaysound.it/audio/2023/12/La-lingua-batte-del-31122023-36274666-f7ac-4a1d-8307-796640312b1e.html (verificato in data 07/03/2025).

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Ada Bellanova, insegna lettere nei licei. Dopo essersi occupata per diversi anni della presenza dei classici greci e latini nel moderno e contemporaneo, in particolare nell’opera di J. L. Borges, è approdata da alcuni anni allo studio dell’opera di Vincenzo Consolo: da qui è nata la monografia Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (Mimesis 2021). Si interessa del mondo antico nel contemporaneo, di ecocritica, della percezione dei luoghi, dei temi della memoria, delle migrazioni e dell’identità. 

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