Nel 1911, lo storico Gaetano Salvemini definiva la Libia come «scatolone di sabbia». Stato tra i più estesi del continente africano, la Libia appariva in gran parte desertica e con una bassissima densità abitativa. Da circa quattro secoli, tali territori erano controllati e governati dalle forze turche, contro cui, il 29 settembre 1911, il governo italiano guidato da Giovanni Giolitti decise di intraprendere una guerra di conquista territoriale: iniziava così quel conflitto italo-ottomano, durante il quale l’esercito italiano utilizzò per la prima volta l’aviazione e metodi spietati di combattimento, tra i quali l’impiego dell’iprite, gas dalle conseguenze devastanti il cui uso bellico, negli anni a venire, sarebbe stato bandito a seguito di accordi internazionali.
Il conflitto avrebbe portato alla prima colonizzazione italiana del Paese maghrebino, durante la quale l’Italia occupò una parte della Libia, decisa a trasformarla in una sorta di Eldorado per tutti quegli italiani che, in condizioni di precarietà economica e lavorativa, avessero desiderato un’alternativa all’emigrazione verso le Americhe.
La Libia – così come ogni altro territorio africano agli occhi di numerosi Stati europei – era considerata dal governo italiano come un appezzamento di terra dalle enormi dimensioni e dalle infinite potenzialità: ciascun italiano, in linea teorica, avrebbe potuto ottenere una porzione di terra da coltivare. Tra le poche voci fuori dal coro, contrarie a tale politica coloniale, si elevavano quelle degli esponenti del Partito Socialista, in cui militavano Salvemini e Benito Mussolini. Quest’ultimo subì addirittura l’arresto, insieme a Pietro Nenni, per aver pubblicamente manifestato contro la campagna coloniale portata avanti dal governo Giolitti.
Dopo una prima fase di relativamente agevole – ma non per questo non cruenta – conquista del Paese, avvenuta nel biennio 1911-1912, la controffensiva dell’esercito turco fece ben presto arretrare le truppe italiane, che, tra il 1914 e il 1915, dovettero ritirare in una ristretta porzione di territorio, lungo la fascia costiera. Nel frattempo, lo scoppio del primo conflitto mondiale impose una parziale tregua nelle operazioni militari, per via della necessità di spostare le truppe su altri fronti.
All’indomani della Grande Guerra, non appena conquistato il potere, il Partito Nazionale Fascista si scoprì colonialista, nonostante i precedenti del suo leader. Ispirandosi al modello imperiale dell’Antica Roma, di cui si sperava di rinverdirne i fasti, Mussolini avviò una nuova stagione coloniale, che questa volta assunse proporzioni ben più ampie, grazie a un’operazione che lo stesso regime definì di “riconquista”. Questa volta il processo di occupazione sarebbe durato circa un decennio (1922-1932), periodo durante il quale, da un lato, si raggiunse l’acme della violenza perpetrata nei confronti della popolazione locale e, dall’altro, quell’immenso «scatolone di sabbia» sarebbe stato riempito attraverso il trasferimento dall’Italia di alcune decine di coloni, che avrebbero popolato i territori libici. L’esperienza di “riconquista” si tradusse nella messa in atto, da parte dei due generali al comando delle operazioni, Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani, di azioni e strategie militari spietate, come il lancio aereo – nel solo semestre compreso tra il novembre 1929 e il maggio 1930 – di oltre 43 mila tonnellate di bombe.
Nel gennaio 1932, l’“impresa coloniale” poteva dirsi definitivamente compiuta, con la resa delle ultime milizie locali e la trasformazione della Libia in una sorta di «prolungamento geografico della penisola» (Paris 2023). Da questo momento in avanti, decine di migliaia di coloni italiani sarebbero stati trasferiti in Libia, dove avrebbero dato vita a una comunità coesa e produttiva. Tale comunità, numericamente consistente, avrebbe continuato a vivere in territorio libico anche dopo la fine dell’esperienza coloniale e la caduta del regime fascista. Ricordiamo, infatti, che le truppe militari britanniche, guidate dal generale Montgomery, nel gennaio del ‘43 avrebbero posto fine all’esperienza coloniale italiana in Libia. Nel giro di pochi mesi, avremmo registrato anche la caduta del regime. Con la firma del Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947, l’Italia avrebbe definitivamente rinunciato alle proprie velleità coloniali. Successivamente, tra il 1949 e il 1950, su iniziativa delle Nazioni Unite, si sarebbe giunti all’indipendenza dello Stato libico.
I coloni italiani, tuttavia, come già accennato, sarebbero rimasti sul suolo africano con, in particolare, una massiccia presenza sul territorio libico. Basti ricordare, in tal senso, che all’inizio della Seconda guerra mondiale gli italiani residenti in Libia superavano le 100 mila unità, con un’incidenza notevole nelle due città di Tripoli e Bengasi, dove i nostri connazionali costituivano oltre il 30% della popolazione [1]. Durante il conflitto, molti italiani furono costretti a rientrare in patria, tant’è che nel 1948 se ne censivano 44 mila. Tuttavia, ancora nel 1962, i dati rilevavano una presenza residua di oltre 35 mila italiani.
L’esperienza del colonialismo italiano nel continente africano, che, ricordiamo, non riguardò soltanto la Libia, ma si espresse, se possibile con una durezza ancora maggiore, in Etiopia, Eritrea e Somalia, ha prodotto negli ultimi anni una bibliografia cospicua, che comprende monografie e scritti di studiosi afferenti a vari profili disciplinari: da Angelo Del Boca (probabilmente lo storico più esperto della tematica) a Valeria Deplano, Emanuele Ertola e Francesco Filippi, solo per citare alcuni nomi tra i più noti. Tra le altre cose, per quasi un trentennio, tra il 1955 e il 1981, il Poligrafico dello Stato diede alle stampe una collana, intitolata L’Italia in Africa, realizzata per conto del Comitato per la documentazione delle attività italiane in Africa – Ministero degli Affari Esteri [2]. L’obiettivo prioritario della collana era quello di fornire un contributo per la costruzione di una memoria dell’esperienza coloniale, nel più vasto campo di un dibattito istituzionale. Ciò, tuttavia, avveniva in un alveo del tutto particolare, caratterizzato da un processo di decolonizzazione dei territori africani che non determinò una vera e propria «rimozione del colonialismo» (Del Boca 2002: 113) che, invece, fu sostituita da una semplicistica e ingiustificabile forma di auto-assoluzione rispetto a quanto accaduto durante la parentesi coloniale.
L’attività del Comitato «fu intensa e collegata alla rinnovata politica africana dell’Italia repubblicana» (Morone 2010: 29). Complessivamente, la collana ospitò 40 volumi (oltre a una traduzione in lingua inglese), che trattarono un ventaglio di temi piuttosto ampio, suddivisi in sei macro-aree: serie storica; serie storico-militare; serie scientifico-culturale [3]; serie giuridico-amministrativa; serie civile; serie economico-agraria [4].
Come evidenziato da Antonio Maria Morone, «il risultato dell’opera editoriale del Comitato è controverso, (…) nella sostanza negativo» (Ivi: 33): i testi, infatti, avevano una struttura essenzialmente compilativa, riservando uno spazio risicatissimo – se non nullo – alla ricerca scientifica. I volumi erano prevalentemente composti da repertori di documenti e bibliografie, senza il benché minimo spazio per approfondimenti e analisi storiche e di contesto. Inoltre, e forse questo era il difetto maggiore, l’esperienza coloniale italiana era interpretata in modo acritico. Anzi, sovente vi traspariva un quadro di sostanziale acquiescenza per ciò che fu l’esperienza coloniale italiana, tratteggiata più che altro per i caratteri di atipicità rispetto alle analoghe vicende degli altri Paesi europei: «pur se l’attività del Comitato era principalmente di tipo documentaristico piuttosto che storiografico, la visione di fondo aprioristicamente apologetica del passato coloniale, insistendo sui presunti caratteri fattivi e di valore, invece di servire la svolta italiana finì per perpetuare quella mancanza di genuinità che la politica della nuova Italia aveva sperimentato verso le ex colonie fin dall’immediato dopoguerra» (Ivi: 35). L’Italia in Africa, pertanto, si innestava proprio nel solco di quella tradizione giustificazionista del fenomeno coloniale più volte denunciata, nei suoi scritti, da Angelo Del Boca. Il quarantesimo, e ultimo, volume edito all’interno della collana uscì nel 1981 [5]. Il Comitato rimase in carica per altri tre anni, prima di essere soppresso con il D.M. 887 del 13 marzo 1984.
A seguito del Colpo di Stato militare del 1° settembre 1969, il tenente Muammar Gheddafi – subito dopo autopromosso al grado di colonnello – rovesciò la monarchia assoluta del re Idris. Tra le prime misure adottate dal nuovo regime politico-militare vi fu proprio la cacciata degli italiani e la confisca di tutti i beni da questi posseduti. Con un apposito decreto, il 21 luglio 1970 Gheddafi stabilì che oltre ventimila italiani abbandonassero il suolo libico, costretti a un rientro in Italia con lo status di profughi (Pachera 2010 – Scoppola Iacopini 2015): «la politica di Gheddafi mirò non solo all’abbattimento del dominio, ma al totale sovvertimento della memoria: l’obiettivo delle lunghe pratiche cui il suo regime obbligò gli italiani prima dell’espulsione fu proprio quello di sottolineare il loro status di “usurpatori” di cui egli si stava liberando» (Castellani 2024). Per la maggior parte di loro, il rientro in Italia fu più traumatico di quanto si pensasse e, in molti casi, per decenni, moltissimi “tripolini” sono stati costretti a convivere con lo stigma dello “straniero in casa propria”, ammantato da un velo fatto di stereotipi e pregiudizi legati al proprio passato di coloni.
Il tema della memoria e dell’identità dei profughi italiani di Libia è stato ed è, pertanto, un argomento di straordinario interesse. Ciò nonostante, le ricerche e le analisi sul tema risultano essere piuttosto limitate. Soltanto di recente, si è tentato di colmare questa lacuna, grazie a contributi realizzati dai cosiddetti “nipoti delle colonie”: figli di figli di coloni italiani in Libia, che hanno vissuto l’esperienza dei propri padri e, al tempo stesso, sono cresciuti all’interno di un contesto comunitario in cui l’“identità tripolina” ha costituito un fortissimo elemento di raccordo e di riconoscimento. All’interno di tale quadro si inserisce un’opera di imminente pubblicazione per i tipi di Edizioni Botteghe Invisibili, giovane e attenta casa editrice con sede a Latina, città che ospitò una frangia piuttosto ampia di profughi tripolini.
Accento tripolino. Sguardi e immaginari post-coloniali dalla Libia all’Italia, questo è il titolo dell’opera, è un libro del sociologo Alessandro Caramis, che si autodefinisce «nipote delle colonie» italiane in Libia. Il volume, che chi scrive ha avuto la possibilità di leggere in anteprima, condensa al proprio interno varie anime, multiformi generi di ricerca e di scrittura ed eterogenei sguardi su oltre un secolo di storia italiana, riletta e reinterpretata attraverso la lente d’osservazione costituita dalle vicende del periodo coloniale.
All’interno del suo lavoro, Caramis ci offre uno spaccato, storicamente orientato e quanto mai in equilibrio. Quell’universo mitizzato di valori e narrazioni di senso, tipico dei figli degli italiani in Libia ed ereditato dai propri genitori e dai propri nonni, viene così rappresentato attraverso l’assunzione di una postura diversa, capace di attingere a fonti e approcci tra loro complementari. Accento tripolino fonde al proprio interno il resoconto storiografico e la raccolta di storie di vita, l’oral history e – sebbene l’autore rifugga da tale etichetta – l’autobiografia. Nonostante affermi che «questo lavoro non è un’autobiografia», esso tuttavia ne comprende alcuni caratteri essenziali, tra i quali la capacità di analizzare il vissuto personale, e quello della famiglia d’origine, facendo frequentemente ricorso ai ricordi della propria vita vissuta.
Pur non avendo mai vissuto in Libia, il paradigma identitario che contraddistingue il senso d’appartenenza dell’autore appare fortemente permeato dall’esperienza dei genitori e dei nonni, i quali, al contrario, vi trascorsero lunghi anni. Anche dopo il rientro forzato in Italia, avvenuto nel 1970 a seguito del colpo di Stato di Gheddafi, i genitori dell’autore hanno continuato a vivere un’esistenza in cui il ruolo dei condizionamenti culturali ricevuti nel corso degli anni tripolini ha esercitato prepotentemente la propria influenza. Per sua stessa ammissione, quella di Alessandro Caramis è «una ricerca viscerale, nata dal desiderio di conservare e trasmettere le memorie, le storie, le narrazioni di una comunità che al suo rientro in Italia si è scontrata con i pregiudizi, la non conoscenza, l’indifferenza della comunità natia».
I decenni trascorsi in Libia dai nonni e dai genitori dell’autore hanno contribuito a modellarne le rispettive identità, facendo sì che le stesse ne risultassero meticciate, in un’ibridazione tutta mediterranea che trova espressione ad esempio nella persistenza di elementi tipici della cucina maghrebina all’interno delle tradizioni familiari degli ex tripolini. Proprio il tema della ‘cucina’ costituisce uno dei quattordici concetti-chiave attorno ai quali è costruito questo libro, che capitolo dopo capitolo ripercorre una complessa serie di eventi e concetti di fondamentale importanza, tanto per l’autore quanto per il ruolo che essi stessi hanno ricoperto nelle vite dei profughi italiani di Libia, offrendo al tempo stesso degli spunti di riflessione in grado di aiutare il lettore a districarsi nell’interpretazione di uno spaccato di storia contemporanea non ancora sufficientemente diffuso [6]. Facendo perno su tali concetti, viene poi sviluppata una trattazione che unisce, al contempo, la soggettività della narrazione individuale all’oggettività della ricostruzione storiografica mediante studi e approfondimenti bibliografici. Grazie a tale struttura compositiva, l’ordine di lettura può essere demandato al singolo lettore, che così può liberamente costruire il proprio personalissimo indice. Ciascun capitolo, infatti, costituisce un nucleo autonomo, che può essere tranquillamente letto anche senza aver passato in rassegna i precedenti.
In questo volume, pertanto, storie di varia umanità si intrecciano con un pezzo di storia contemporanea del nostro Paese. È il caso, soltanto per citare un esempio, della vicenda degli indennizzi richiesti dai rimpatriati ed erogati con decenni di ritardo dallo Stato italiano, preoccupato di entrare in conflitto con la politica energetica della Libia di Gheddafi, determinando così ripercussioni negative su alcune solide realtà economiche del Paese, come l’Eni o la Fiat.
Il volume, dunque, si snoda attorno all’esperienza coloniale italiana in Libia. Un tema spinoso, senza ombra di smentita, che Alessandro Caramis tratteggia entrando inevitabilmente in conflitto con una parte del proprio vissuto familiare, in tal modo rompendo i tabù connessi all’esistenza di un passato controverso, dominato da una visione antropocentrica della terra come ambiente da sfruttare, spazio da colonizzare, territorio da addomesticare. Ci si scontra, oltretutto, con quel modello – sedimentato anche a causa dell’assenza, in Italia, di un vero e proprio percorso critico di decolonizzazione – secondo cui i coloni italiani in Africa furono dei pionieri, trascurando il fatto che si trattò di un’occupazione di terre altrui. Ci si scontra, quindi, con quell’idea secondo cui la popolazione locale non fu affatto «sottomessa e oppressa dalla presenza italiana durante il periodo coloniale»: al contrario, nell’immaginario e nei ricordi degli italiani di Libia, Etiopia, Eritrea e Somalia, le comunità autoctone sarebbero state liberate «dalla schiavitù della terra».
Di fronte al rischio di inciampare su tale distorsione storiografica, e pur in presenza degli inevitabili condizionamenti determinati dall’esser nato e vissuto all’interno di una famiglia di profughi libici, l’immaginario dell’autore ci appare in tutta la sua articolata complessità, capace di ritrarsi rispetto agli approcci giustificazionisti molto spesso connessi alle trattazioni riservate all’esperienza coloniale italiana. Il suo approccio, pertanto, è critico, votato alla ricerca di un bilanciamento tra le spinte esercitate dai propri patterns culturali e il distacco tipico del ricercatore sociale. Chi leggerà le pagine di Accento tripolino si renderà immediatamente conto dell’equilibrio con cui le stesse sono state pensate e costruite. Il desiderio di conoscenza, d’altronde, ha sempre permeato e, ancor oggi, continua a permeare il vissuto di Alessandro Caramis, che si è trovato a dover fare i conti con la ricerca di un bilanciamento tra, da un lato, il peccato originale delle politiche coloniali prefasciste e fasciste e, dall’altro, la voglia di riportare alla luce la storia di individui – che è storia di un’intera comunità – le cui vite hanno subìto uno stravolgimento a seguito degli eventi del 1° settembre 1969 che portarono alla cacciata di pochi mesi dopo.
Una cacciata che, per molte delle persone coinvolte, si è trasformata, parafrasando Ernesto de Martino, in una sorta di “apocalisse culturale”, connessa all’«assenza di orizzonti normativi e valoriali legati a quel nuovo che si andava prospettando». Il trauma derivato dalla cacciata improvvisa e repentina dalla Libia, la confisca di tutti i beni accumulati in anni di lavoro, il ritorno in patria da “stranieri” determinava quella forma di straniamento che l’autore accomuna proprio al concetto di “apocalissi culturali” lasciato in eredità dall’etnologo napoletano nei suoi appunti poi confluiti nel postumo La fine del mondo (de Martino 1977).
Finiva un mondo, per i “tripolini”. E, con il rientro in Italia, ne cominciava uno nuovo, i cui contorni apparivano indefiniti e incerti. In cui l’appartenenza a una comunità entrava in conflitto con il disconoscimento identitario da parte della realtà di destinazione, che non si riconosceva in quel gruppo unito al proprio interno e che, nel corso degli anni, si sarebbe sentito accomunato per la condivisione «della traumatica esperienza della cacciata, dei ricordi, delle usanze, del senso di ingiustizia per le infinite richieste di indennizzi allo Stato italiano, per gli incontri, i raduni e la memoria condivisa». In tale quadro, lo stesso processo identitario va risemantizzato lungo un continuum temporale in cui vi è un momento di netta cesura: quel Colpo di Stato, alla luce del quale le rispettive vite vanno rilette.
Per la comunità dei tripolini italiani, c’è un prima e c’è un dopo, una sottile ma ben demarcata linea temporale a cavallo della quale si snodano vite, poetiche, politiche e immaginari di senso. E quel prima e quel dopo, nella condizione dei figli e dei nipoti delle colonie italiane in Libia, si ritrovano, come elementi condizionanti e indissolubilmente radicati, nel senso di appartenenza individuale. In quella sorta di puzzle complesso di cui esse stesse si sostanziano, le identità individuali dei figli e dei nipoti delle colonie paiono essere composte da due tipologie di tasselli, la cui forma e la cui essenza risentono pesantemente di quanto accaduto all’indomani della cacciata imposta da Gheddafi.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] Per l’esattezza, secondo la Guida breve d’Italia della CTI – Consociazione Turistica d’Italia (vol. III: Italia Meridionale e Insulare – Libia, ed. 1939), gli italiani in Libia, nel 1939, furono 108.419, pari al 12,37% della popolazione totale.
[2] Il Comitato per la documentazione delle attività italiane in Africa fu istituito l’11 gennaio 1942, con decreto interministeriale n. 140. Tuttavia, la sua costituzione era stata paventata sin dal 1944 in seno all’allora Ministero dell’Africa Italiana (Ministero che, sia detto per inciso, continuò a essere attivo fino al 1953, quando i relativi funzionari furono assorbiti all’interno del Ministero degli Affari Esteri).
[3] All’interno della serie scientifico-culturale furono pubblicati anche alcuni volumi dedicati all’etnologia e al folklore della Libia e dell’Africa Orientale. Tre volumi in tutto, curati dall’etnologa e arabista Ester Panetta, che visse a lungo (tra il 1927 e il 1940) a Tripoli, dove insegnò Lingua e letteratura francese nel triennio 1927-29. Rientrata in Italia, nel 1943 ottenne la libera docenza in Arabo e dialetti arabi all’Università di Roma e, successivamente, la cattedra di Arabo e letteratura araba. Quindi, dal giugno 1951 fu capo servizio dell’Ufficio studi del Ministero dell’Africa Italiana a Roma, che la coinvolse nella stesura dei tre volumi in questione.
[4] Il progetto iniziale, in realtà, prevedeva nove serie: storico-politica; storico-militare; politica; giuridica; giuridico-amministrativa; scientifico-culturale; organizzazione civile; economico-finanziaria; avvaloramento e colonizzazione agricola (Morone 2010: 32).
[5] Donata Giglio, Etiopia – Mar Rosso, vol. I, Documenti 1891-1893, t. 9, Comitato per la documentazione delle attività italiane in Africa – Ministero degli Affari Esteri, Roma 1981.
[6]‘Il tempo’, ‘profughi’, ‘socialismo’, ‘dialetto’, ‘cosmopolitismo’, ‘politica’, ‘ambiente’, ‘colonialismo’, ‘fascismo’, ‘liberazione’, ‘sessantotto’, ‘classi sociali’, ‘cucina’ e, infine, ‘Italia’ sono i quattordici concetti-chiave attorno ai quali è costruita la struttura narrativa di Accento tripolino. Essi sono precedenti da una sorta di capitolo introduttivo, ‘La parola crea il mondo’, all’interno del quale l’autore offre un inquadramento generale della propria ricerca pluriennale.
Riferimenti bibliografici
A. Caramis, Accento tripolino. Sguardi e immaginari post-coloniali dalla Libia all’Italia, Edizioni Botteghe Invisibili, Latina (in corso di stampa – https://bottegheinvisibili.com/edizioni).
G. Castellani, Storie e memorie dalla Quarta Sponda alla madrepatria: da coloni in Libia a profughi in Italia, in «Dialoghi mediterranei», 66, marzo 2024.
A. Del Boca, L’Africa nella coscienza degli italiani, Mondadori, Milano 2002.
E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 1977.
A.M. Morone, I custodi della memoria. Il Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa, in «Zapruder. Storie in movimento», 23, settembre-ottobre 2010: 24-38.
L. Pachera, Tripoli 1970. Allontanati dalla nostra vita, Edizioni Osiride, Rovereto 2010.
C. Paris, Quando l’Italia era colonialista, in «Maremosso. Il magazine dei lettori», 13 gennaio 2023 (on-line su https://maremosso.lafeltrinelli.it/approfondimenti/colonialismo-italiano-libia-fascismo-storia).
L. Scoppola Iacopini, I «dimenticati». Da colonizzatori a profughi, gli italiani in Libia 1943-1974, Editoriale Umbra, Foligno 2015.
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Alessandro D’Amato, dottore di ricerca in Scienze Antropologiche e Analisi dei Mutamenti Culturali (Università L’Orientale – Napoli), dopo alcune collaborazioni con le Università di Roma e Catania, oggi lavora per il Ministero della Cultura. Tra i suoi ambiti privilegiati di ricerca, la storia degli studi demoetnoantropologici italiani e i simbolismi animali e vegetali nelle culture del sud Italia. Ha recentemente pubblicato il volume Tortuosi percorsi. Giuseppe Cocchiara negli anni della formazione (1922-1945), Edizioni Museo Pasqualino, 2023.
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