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Ripensare gli spazi attraverso il movimento femminista

pexels-pavel-danilyuk-8553778di Mariangela Vitrano 

I sogni e le idee femministe iniziano ad occupare spazio, forse più di uno, e si muovono da un livello prevalentemente filosofico-culturale a uno pratico e materiale. Se volessimo partire da un esempio potremmo prenderne in considerazione uno relativo alla sfera quotidiana, nel nostro caso quella di Mary Wollstonecraft – filosofa e scrittrice britannica, considerata la fondatrice del femminismo liberale – che viveva da sola in una casa in affitto che poteva vantare come uno spazio di vitale importanza per se stessa, rappresentando una situazione atipica e progressista per una donna dei suoi tempi.

Visse una vita itinerante spostandosi tra Inghilterra, Francia e Scandinavia, e fece esperienza di profondi tormenti psicologici, nonché di una serie di relazioni amorose insoddisfacenti da cui ebbe una figlia considerata “illegittima”. Anche dopo il matrimonio e durante la sua gravidanza, Wollstonecraft difese sempre il suo spazio in cui poter vivere da sola, separata dal marito, e in totale indipendenza nonostante i costumi della società del tempo richiedessero che una donna sposata e, ancor più, in stato interessante vivesse sotto il tetto coniugale. La sua autodeterminazione fu molto discussa e reputata controversa.

9788807900600_0_0_536_0_75Anche Virginia Woolf, scrittrice inglese, nel suo romanzo Una stanza tutta per sé (1929) esprime il bisogno essenziale di gestire uno spazio personale in cui poter vivere e questo rende evidente il serio e persistente interesse femminista riguardo le politiche sugli spazi. La conquista di spazi che fossero femministi acquisì sempre più rilevanza, e non fu facile raggiungere l’obiettivo. Cominciò nei primi anni del Novecento, prima si trattava di spazi prevalentemente privati, poi la conquista si estese a quelli pubblici, più adatti ad una lotta politica e alla costruzione e istituzione convinta, determinata e creativa di luoghi di incontro e confronto. Fu una vera e propria riappropriazione di spazi rivoluzionaria, che puntava a fare di ambienti tradizionalmente presieduti da uomini degli spazi femminili e femministi attraverso cui veniva messa in evidenza la loro secolare, storica e sistemica esclusione.

Nel 1872 a Rochester diciassette donne tentarono il voto occupando uno dei seggi elettorali, il risultato fu il loro arresto ma la notizia ebbe una risonanza fortissima. Qualche anno dopo, nel 1876, un’attivista interruppe una cerimonia pubblica in occasione del centenario dalla Dichiarazione di indipendenza, presidiando il palco degli oratori per presentare la dichiarazione dei diritti delle donne alla platea e alle autorità presenti. Queste ed altre sono state le strategie per la riappropriazione degli spazi, tra occupazioni non autorizzate di suolo pubblico, sit-in, marce, proteste, manifestazioni non-violente, scioperi, slogan e orari e luoghi d’incontro scritti con il gesso sui marciapiedi. Queste forme di resistenza e resilienza dimostrano il forte impegno femminista di quegli anni.22-new-york-radical-women-notes-from-the-third-year-1971

L’attivismo era un privilegio spesso riservato alle donne borghesi, poiché le donne della classe proletaria difficilmente avrebbero trovato il tempo e le energie per dedicarcisi né tantomeno avrebbero ottenuto lo stesso margine di movimento. Virginia Woolf, per esempio, era talmente consapevole, e allo stesso tempo affascinata, dalla differenza di classe che divideva le attiviste dell’alto ceto dalla classe operaia che raccolse una serie di testi scritti proprio da queste ultime. Per le donne avere e godere di uno spazio personale o collettivo non era assolutamente qualcosa di scontato, dipendeva invece da molteplici fattori quali l’etnia, la religione, la posizione sociale alla quale appartenevano e non tutte hanno avuto, o attualmente hanno, l’opportunità di cogliere il buono da una o più culture; al contrario per molte di loro, la religione, la classe sociale e l’appartenenza etnica hanno fortemente contribuito alla definizione degli spazi che avrebbero potuto e dovuto occupare.

Le modalità con cui una donna occupa uno spazio a differenza di quelle di un uomo potrebbero essere un approfondimento utile a dimostrare il sessismo radicato anche nei gesti, nelle espressioni, nelle movenze e nei portamenti generalmente attribuibili al femminile. Come scrisse Rita Mae Brown, scrittrice, poetessa e sceneggiatrice lesbo-femminista statunitense: «Alle donne e agli uomini si insegna ad usare lo spazio in modo molto diverso» [1] . Diventò sempre più consistente la campagna per la creazione di spazi interamente dedicati alle donne, ispirati dall’idea di spazio franco di Chude Pamela Allen, attivista americana per i diritti civili e per il movimento di liberazione delle donne, una delle fondatrici del New York Radical Women, un influente gruppo femminista radicale della seconda ondata esistito dal 1967 al 1969. In sostanza promuoveva l’istituzione di spazi esclusivi e separatisti in cui le donne potessero incontrarsi in maniera sicura.

61sc4yu1ctl-_uf10001000_ql80_Spazi lavorativi, etica intersezionale e schieramento politico nelle imprese

Lucy Delap, nel suo libro Femminismi. Una Storia Globale, prende in considerazione tre tipologie di spazi: spazi religiosi, spazi autonomi e spazi lavorativi. Ci focalizzeremo su questi ultimi e al ripensamento radicale del mercato del lavoro che potesse garantire l’accesso delle donne alle attività commerciali e alle professioni. L’esigenza lavorativa delle donne presenta delle differenze in base all’appartenenza sociale: le donne delle classi povere erano prevalentemente guidate dall’urgenza di allevare dei figli e/o per la propria autonomia economica, mentre per le donne borghesi si trattava perlopiù di un’esigenza relativa all’auto-determinazione e all’arricchimento personale che non aveva a che fare con un vero e proprio bisogno materiale. Da queste spinte, apparentemente molto differenti, nascono diverse interpretazioni, a volte in contrasto tra loro e che avrebbero potuto creare conflitti all’interno del movimento e, di conseguenza, spingere le donne della classe operaia a non ritenere il femminismo un movimento capace di dare voce alle loro particolari necessità. I più importanti obiettivi che il femminismo si pose davanti la suddetta questione furono:

- Reclamare l’accesso occupazionale per donne istruite; che vide la nascita delle prime agenzie di collocamento per donne, e il coordinamento e la gestione di corsi e attività finalizzati alla formazione femminile per professioni inerenti alla contabilità, l’uso del telegrafo e mansioni di segreteria; 

- Rivendicare il diritto all’accesso scolastico, all’istruzione e ai college universitari; che vide la fondazione del primo istituto di istruzione superiore riservato alle donne legato alla Cambridge University, ma che incluse la possibilità di laurearsi nell’ateneo solo dal 1948, settantanove anni dopo la fondazione dell’istituto; 

- La critica al sistema capitalistico e al trattamento scorretto e iniquo riservato a tutti i lavoratori; una critica che viene sviluppata e meglio approfondita nei decenni più recenti, in particolare dal femminismo della terza e quarta ondata, che è stato ed è un femminismo fatto di maggiore consapevolezza rispetto alla dinamica capitalista e permeato da un pensiero fortemente anticolonialista che si nutre a partire dall’avvento del femminismo nero fino ad arrivare ai primi movimenti antiglobalizzazione. All’interno della critica e dei relativi movimenti, ci si focalizza prevalentemente sugli effetti negativi dell’economia basata sull’estrazione del petrolio, sull’inflazione e sulle politiche strutturali imposte dall’esterno a discapito dei lavoratori, dei Paesi poveri, degli ambienti naturali protetti e non.

61f1cdooebl-_ac_uf10001000_ql80_Uno dei dibattiti sulla tematica coinvolse anche il concetto di lavoro protetto e lavoro riproduttivo, questioni che purtroppo passarono in secondo piano in favore della campagna per il suffragio universale. Nel 1918 in Gran Bretagna, dopo aver ottenuto il diritto di voto per le donne sopra i trent’anni, la rivendicazione immediatamente successiva verso la quale si mirò fu per una paga lavorativa che fosse equa e commisurata alle competenze e alla quantità di lavoro. Dal 1940 al 1950 assistiamo alla nascita delle prime organizzazioni sindacali per la tutela dei lavoratori e ad un attivismo correlato e sinergico alle tematiche riguardanti i diritti dei lavoratori.

Si trattò di un concreto impegno per la realizzazione di spazi lavorativi più rispettosi sia nei confronti degli uomini che nei confronti delle donne e garanti di un consistente empowerment femminile che fosse sensibile alle questioni della maternità e delle molestie sessuali sul luogo di lavoro. Al posto di anelare al raggiungimento di una rigida uguaglianza dal punto di vista legale, le femministe legate al sindacato e all’impegno per la giustizia sociale chiedevano che i lavoratori fossero trattati secondo la loro situazione soggettiva. La partecipazione maschile al processo sarebbe stata molto apprezzata, utile e funzionale alla condivisione del peso della trasformazione delle relazioni tra i sessi – poiché le donne, gravate dalle fatiche domestiche e dall’emarginazione economica, disponevano di tempo e risorse limitati quindi non ci si accontentava più di accogliere i contributi degli uomini, ma si chiedeva loro un coinvolgimento che fosse totale, in quanto avrebbe rappresentato non soltanto una fonte di energia e risorse dal punto di vista pratico, ma anche un riorientamento fondamentale della coscienza maschile.

Nacquero, a partire da queste basi, i primi spazi misti e di cooperazione insieme a nuovi spazi politici per l’organizzazione delle campagne elettorali e l’avvio di imprese etiche e al femminile. Vennero ideate molte alternative etiche alle grandi società capitalistiche che spesso fecero da megafono e da strumento di divulgazione femminista. In questo scenario, nel frattempo, il mercato divenne adeguatamente pronto e flessibile per recepire imprese commerciali sempre più posizionate politicamente, di modo che gli spazi lavorativi si fecero presto anche politici e questo instaurò un legame delicato e sempre più inestricabile tra imprese e politica. In virtù di ciò, nei primi anni Settanta del Novecento nacquero i primi pub, bar, locali frequentati esclusivamente da omosessuali, anch’essi preferirono spazi esclusivi e separati al fine di avere garantiti degli spazi sicuri, propri, autonomi in cui conoscersi, divertirsi, confrontarsi e organizzarsi nella propria lotta ai diritti. Furono spazi nati come imprese, ma furono molto importanti per la rivendicazione di diritti umani e di diritti fondamentali, molti diventarono luoghi simbolo della lotta. Altri esempi di imprese unite alla politica furono quelle di stampa e editoria, molte delle quali si fecero portavoce, supporto e rete sicura per la circolazione della propaganda femminista.

978-0-8223-4725-5_prEvoluzione dei luoghi religiosi

Nella storia e, più comunemente, nell’immaginario collettivo il femminismo è stato considerato, per divergenza di valori, un movimento laico antitetico alla religione o antireligioso, appunto, spesso è stato ritenuto addirittura opposto ai valori religiosi visti come tentativi fondamentalisti di manipolare il culto e, di conseguenza, come una delle principali fonti di ineguaglianze sociali e di genere. In realtà i luoghi di culto e di preghiera sono stati luoghi significativi di raccolta e socialità soprattutto per le donne, afroamericane e lavoratrici. In questo modo gli spazi religiosi diventano anche spazi lavorativi e quindi anche politici, oltre che primi spazi autonomi.

Tra il 1890 e il 1900 venne avanzata da parte di un gruppo di donne la proposta di una revisione della Bibbia in prospettiva femminista, che non negasse la fede ma che lavorasse a una decostruzione della cultura religiosa intesa in senso tradizionale per approdare a una sua rielaborazione non-convenzionale. Questa proposta, fatta alla fine dell’Ottocento, fu rivoluzionaria (potrebbe verosimilmente esserlo anche oggi) e attirò numerose critiche dall’opinione pubblica ma anche dalle suffragiste nonostante, nella realtà dei fatti, all’interno del movimento ci fosse un grande numero di donne che sentiva l’esigenza di praticare e aderire ad una o alla propria fede religiosa pur non condividendone gli aspetti più tradizionalisti e fondamentalisti. In sostanza, che le fedi fossero convenzionali o no, rimangono comunque una fonte di ispirazione per molti e per molte donne che si riconoscono anche femministe; in risposta a queste esigenze dal 1860 in poi, infatti, le filosofie spiritualiste iniziarono a sortire un interesse molto forte tra le fila femministe. Questo fu un altro esempio secondo il quale il femminismo delle prime ondate non si dimostrò ancora per niente pronto a rappresentare le diverse voci ed opinioni che lo avrebbero composto e le relative forme di oppressione da queste ultime esperite, che potevano essere appunto diverse (discriminazioni di genere, razzismo, classismo ecc.) e contemporanee dipendentemente dai casi specifici, sfociando appunto in intersezioni delle stesse.

img_1591-1Intersezione di voci alla ricerca di uno spazio

La minaccia lavanda o ‘color lavanda’, dall’inglese Lavender Menace, era un gruppo informale di femministe lesbiche radicali che evidenziò e si oppose all’esclusione delle lesbiche e delle loro rivendicazioni dal movimento femminista in occasione della seconda edizione di un importante congresso a New York City, il primo maggio 1970. Le richieste lesbiche non potevano essere accolte perché considerate un rischio, un ostacolo all’accettazione da parte dell’opinione pubblica del movimento femminista nella sua interezza. Per lo stesso motivo passarono in secondo piano anche le istanze delle donne nere e lavoratrici, istanze che vennero spesso trattate con scarsa considerazione e superficialità; da qui la necessità da parte di queste categorie di creare degli spazi autonomi di lotta e auto-determinazione.

In ulteriore analisi, la violenza maschile cominciava ad esser vista non più come un evento patologico riguardante il singolo ma come una caratteristica strutturale del patriarcato a difesa dello status quo; anche a questo proposito crebbe l’urgenza di spazi autonomi per riuscire a contrastarla, nacquero, per esempio, i primi rifugi per donne maltrattate fornendo loro opportunità e spazi accessibili (sfortunatamente anche in questo caso la tendenza fu quella di escludere le donne nere). Sullo stesso frangente sono molto interessanti le osservazioni fatte da Delap sulle tipologie di oggetti che iniziano a popolare questi nuovi spazi. L’autrice infatti mette in relazione la riappropriazione di questi ultimi con la riappropriazione femminista di alcune tipologie di oggetti prodotti dalle attiviste del movimento e fatti circolare anche all’estero come potenti simboli femministi che fecero da importante cassa di risonanza. Gli oggetti in questione si fecero veicolo materiale, concreto per la circolazione di idee dal momento che vennero ricoperti di una forte connotazione politica e ideologica e trasformati in esperienza sensoriale nella profonda convinzione che toccare, gustare, indossare oggetti femministi avrebbe rappresentato un gesto mediatico molto potente e funzionale alla diffusione delle idee del movimento.

Il riuso creativo di oggetti in chiave femminista, effettivamente, è stato un fenomeno mondiale. Margaret Anne Henderson ed Alison Bartlett, nel loro saggio What is a feminist object? Feminist material culture and the making of the activist object pubblicato nel “Journal of Australian Studies”, hanno espresso il concetto in maniera molto funzionale e concisa scrivendo che «oggetti attivisti…fanno succedere cose femministe» [2]. La creazione di oggetti simbolo, colori, marchi di ispirazione femminista resero chiaro quanto il movimento si concesse al commercio, al business e a una propaganda che possiamo definire consumistica e accomodante rispetto alle regole capitaliste. Strategia propagandistica che vedremo in opposizione, per esempio, alle campagne di abnegazione e altruismo portate avanti da diverse altre donne che invece si dedicarono a una massiccia promozione di donazione alle associazioni. L’abuso consumistico viene criticato dalle future generazioni del movimento di liberazione (tendenza di fine secolo – 1970), seriamente impegnate a sfuggire alle pressanti dinamiche capitalistiche attraverso campagne che si occuperanno di scrittura di libri, articoli, riviste, o che si serviranno della stampa per diffondere le idee femministe. La divulgazione di informazioni, simboli, oggetti crea mode e creare mode coinvolse anche l’aspetto relativo alla riscoperta e alla riappropriazione dei corpi femminili.

9788858131558Moda e Corpi come spazi di attivismo

L’abbigliamento, tante volte, è utilizzato per manifestare identità, quindi anche una posizione politica o religiosa, oltre a essere stato veicolo potentissimo in mano alle donne per presentarsi come bellezze corrispondenti ai canoni tradizionali e così farsi conoscere, apprezzare, ascoltare soprattutto in contesti in cui non era concesso. La moda venne quindi utilizzata, per la prima volta dalle donne, come mezzo funzionale all’ottenimento di diritti, all’accesso all’istruzione che si è tramutato poi in acquisizione di rappresentazione e libertà, nonché del diritto di voto. L’abbigliamento iniziò così ad essere adottato in funzione strategica per il raggiungimento di scopi ben precisi. Si interruppe la modalità dilagante in cui l’abbigliamento femminile era stato utilizzato nel corso dei secoli, ovvero come arma maschile finalizzata al controllo dei corpi femminili, per cui esistevano degli abiti consentiti e/o socialmente concessi per essere indossati dalle donne. Si trattava spesso di abiti scomodi e limitanti ma che mettessero in risalto la bellezza delle donne che li indossavano, dal momento che venivano ancora sfoggiate dagli uomini come fossero oggetti.

Comodità e libertà di movimento in funzione del benessere fisico, della capacità di muoversi liberamente in città, tra i negozi o di guadagnarsi l’indipendenza lavorando, non erano contemplate. Vediamo quindi delle donne esibite come articoli di mercato, mentre il loro comfort e la loro libertà erano inevitabilmente sacrificati. Tutto ciò ha un significato metaforico cruciale e suppone che gli uomini o, comunque, la cultura patriarcale, che permeava (e permea, anche se con modalità differenti) la struttura sociale, economica, politica, decideva, anche attraverso l’imposizione di un vestiario consono o meno, cosa le donne potevano o non potevano fare limitando anche la loro possibilità di lavorare e vivere come individui indipendenti.

Una moltitudine di uomini ha il potere di decidere e compiere delle scelte su dei corpi che non sono soltanto i loro, hanno il potere di determinare in maniera decisiva anche i corpi femminili. I tentativi, da parte di diversi gruppi, di sovvertire l’abbigliamento maschile sono la palese dimostrazione della difficoltà per entrambi i sessi di proporsi in modi che contraddicono le norme di genere; e le volte in cui lo facevano, gli uomini scoprivano di aver compiuto una scelta rischiosa rendendosi conto, di rado, che donne e persone non-binarie subivano simili molestie ogni giorno, perdipiù con un ordinamento giuridico che non le proteggeva.

Per quanto riguarda la riflessione femminista sul corpo e la maternità, inizialmente non venne reputata una questione strettamente riguardante il movimento, nonostante lo fosse poiché molte donne stavano già lottando e contrattando per il riconoscimento di diritti fondamentali quali l’istituzione del divorzio, l’affermazione della capacità legale delle donne e l’abolizione della condizione di illegittimità dei figli nati fuori dal matrimonio; tutte questioni che riguardano direttamente o collateralmente la questioni sull’autodeterminazione dei corpi e la maternità.

Nel 1911 Ellen Karolina Sofia Key – scrittrice svedese, suffragista e una delle prime sostenitrici di un approccio all’educazione e alla genitorialità incentrate sulla figura del bambino – propose per la prima volta la separazione dei beni come possibilità all’interno del contratto matrimoniale e chiese il riconoscimento di un salario per il lavoro volto all’allevamento dei figli (che fosse pagato dallo Stato, che sarà il vero beneficiario economico dell’esistenza e della produttività dei futuri individui e lavoratori) e per il lavoro di cura della casa (che fosse pagato dai mariti, a cui generalmente apparteneva il bene di cui esse si prendevano cura ogni giorno). Fu lei stessa ad anticipare tematiche come la protezione della maternità, la riforma e l’educazione sessuale oltre alla protezione e la libertà delle minoranze sessuali. Nel dopo guerra il femminismo divenne fortemente militante, comunista, anti-fascista, anti-imperialista, anti-razzista e pacifista assumendo così i connotati che lo rendono tale oggi.  

hbg-title-9781800073074-16Il ruolo cruciale della sfera emotiva

Il campo delle emozioni assume, all’interno del femminismo, una posizione fondamentale per una rivoluzione culturale e degli affetti volta all’equilibrio dei rapporti tra i generi e tra le diversità, soprattutto nel periodo di scoperta dell’intersezionalità delle discriminazioni, fatte a sua volta di esperienze soggettive e sostanziate di diverse oppressioni che possono verosimilmente convergere nell’esperienza di uno stesso individuo. L’educazione all’affettività e la libertà di esprimere i propri sentimenti diventano pratiche femministe da perseguire come obbiettivi prioritari facenti parte della lotta. Bisogna trovare e ascoltare anche lo spazio delle emozioni, che è uno dei più importanti anche se apparentemente meno sociale e dall’impatto meno immediato. Lucio Anneo Seneca scrisse  «rivendica a te stesso la proprietà di te stesso» sottolineando l’importanza dello slancio verticale, che consisterebbe nella dedizione al lavoro personale e interiore, che può sfociare nel cosiddetto slancio orizzontale, consistente proprio in quell’energia che fa da propulsore per il miglioramento dell’esterno e, quindi, anche della società.

Il femminismo è stato descritto, tra le altre cose, come ‘politica appassionata’ generalmente associata ad un sentimento di rabbia viscerale che fa da potente incentivo, essenziale al movimento, messo in gioco da attiviste da tutto il mondo. Talvolta, la cruda manifestazione di rabbia è sfociata semplicemente in una profonda esperienza distruttiva, intimamente personale, ma se ben direzionata la rivendicazione e la legittimazione della rabbia può funzionare da motore per il progresso e il cambiamento. Ma ci sono degli altri sentimenti a cui le femministe tengono a dare spazio, e sono certamente quelli di empatia, cura, amore, dedizione, libertà, rispetto e felicità.

41ykm-ljpzl-_ac_uf10001000_ql80_Sara Ahmed e Barbara Ehrenreich nei loro studi più recenti hanno affrontato la questione relativa alla correlazione tra la felicità e il capitalismo globale, lo scenario che ne scaturisce è che nel nostro attuale sistema economico la felicità della maggioranza sarà sempre sacrificata per gli interessi di pochi privilegiati. Per questo motivo, la lotta femminista riguarda l’estensione dei diritti non solo alle donne ma a tutte le categorie marginalizzate. È importante ricordare che il patriarcato non è un fatto episodico o sporadico, ma sistemico e non è una questione individuale, ma collettiva e, soprattutto, culturale. La sua sistematicità è nutrita proprio da quella forte volontà di resistere al cambiamento. Tante volte la violenza viene definita inevitabile, fuori controllo, qualcosa per cui nessuna prevenzione è possibile o efficace, e questo perché è talmente radicata la credenza che il sistema non può cambiare e che sono le persone, o le donne, o i gruppi minoritari a doversi adattare e a doversi proteggere da un sistema che non funziona o che funziona male.

E così, ancora una volta, la società responsabilizza l’individuo, responsabilizza le donne della stessa educazione degli uomini e non solo, le impone anche le modalità che generalmente devono essere materne, pacate, dolci, pedagogiche, altrimenti gli uomini “impauriti” (che in realtà potrebbero essere essenziali nel loro contributo, se solo volessero e si responsabilizzassero) tenderebbero ad allontanarsi dagli ambienti e dai contesti femministi, non sentendosi benvoluti da gruppi di donne che semplicemente li vorrebbero più responsabili e consapevoli di secoli di privilegio a discapito di altri individui.

Le donne non vogliono insegnare agli uomini come comportarsi, e tantomeno hanno bisogno di qualcuno che gli dica sempre cosa fare e come farlo, e soprattutto non vogliono essere sempre gentili, composte e ordinate come le vogliono. Le donne vogliono solo essere umane, ed essere trattate da tali. Le donne insieme a tutte le categorie oppresse hanno bisogno che la loro rabbia venga ascoltata, perché esiste ed è lì per una ragione, ovvero un’oppressione che va avanti da secoli seppur con intensità e modalità diverse nel tempo. Che questa rabbia venga fuori e che non rimanga inascoltata è una questione di giustizia, tutti devono ascoltarla per comprendere cosa è successo, cosa succede e cosa continuerà a succedere se nessuno la ascolterà o, ancora peggio, se tutti decideranno che è meglio tappare le proprie orecchie. La rabbia è utile, è valida e racconta qualcosa o qualcuno, racconta sorellanza e solidarietà, racconta storie particolari che possono essere le storie di ognuno di noi, di sopravvissute e sopravvissuti, di popoli oppressi in ogni parte del mondo. La rabbia ci consente di dire cosa ci è successo e quanto dolore ci ha provocato, il suo scopo non è rendere gli uomini persone migliori o continuare ad asservirgli, al contrario è un sentimento che serve a migliorare la nostra qualità della vita, a lavorare sulla nostra visibilità in un sistema gerarchico fatto prevalentemente di dominio e delegittimazione.

488647746_1209827047168477_7175801212731918104_nIl Femminismo è scomodo per natura e si posiziona spesso ai margini del sistema, mira alla decostruzione, spesso radicale, di modelli e spazi pre-esistenti. Chi possiede dei privilegi ha il dovere morale di riconoscerli e di spogliarsene, rendendosi così utile alla causa e di assumersi la responsabilità di costruire, insieme a chi ha visibilmente e storicamente meno privilegio, un mondo più giusto e più equo.

Scrivo in giorni di violenza, lutto e dolore, giorni in cui un uomo può decidere che lo spazio che una donna merita di occupare è quello di una valigia, e che da lì non dovrà più uscire. Voglio dedicare questo articolo a Ilaria Sula, a Sara Campanella, mia concittadina, purtroppo anche loro tra le nostre sorelle, figlie, madri, donne vittime di un sistema che non possiamo più tollerare e contro cui non smetteremo mai di (r)esistere. Per Sara, per Ilaria, e per tutte, praticare il femminismo e parlarne, parlarne ovunque e con ogni mezzo, non sarà mai abbastanza. Dal più profondo del mio cuore mi auguro che, ovunque voi siate adesso, i vostri sogni e i vostri progetti siano liberi di trovare lo spazio e la vita che purtroppo qui – in questo inferno domestico– non siete riusciti a trovare. 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 
Note 
[1] The Good Fairy, in “Quest”, I (1974):61.
[2] Citato in: Delap, L., 2023. “Femminismi. Una Storia Globale” (trad. Chiara Libero), Collana Oscar Saggi. Sapiens, Milano : Mondadori. 
Riferimenti Bibliografici 
Ahmed, S., The promise of Happiness, Duke University Press, Durham and London, 2010.
 Crenshaw, K., Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, University of Chicago Legal Forum, 1989: 139-167. 
Dyer, H., The little book of feminism; Understanding Feminism: A Beginner’s Guide to Gender Equality, UK : Summersdale Publishers, 2016. 
Delap, L., Femminismi. Una Storia Globale (trad. Chiara Libero), Collana Oscar Saggi Sapiens : Mondadori, Milano, 2023. 
Ehrenreich, B., Una storia della gioia collettiva (trad. Elena Cantoni), Elèuthera, Milano, 2024. 
Fraser, N., Arruzza, C., Bhattacharya, T., Femminismo per il 99%. Un manifesto, Roma: Laterza, Bari, 2022.
Habermas, J., The Inclusion of Others, Mass. : The Mit Press, Cambridge, 1998. 
Hooks, B., Feminist Theory. From margin to center, cap. 2 “Feminism: a movement to end sexist oppression”, South End Press, Boston, 1984. 

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Mariangela Vitrano, neolaureata magistrale in Cooperazione Internazionale e Protezione dei Diritti Umani all’Università di Bologna; precedentemente laureata in Lingue e Letterature moderne e Mediazione Linguistica all’Università degli Studi di Palermo. Tra le aree di maggior interesse prevalgono l’antropologia, il femminismo intersezionale e i diritti umani, seppur l’approccio tenda a mantenersi multidisciplinare.

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