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Ripensare Carlo Levi e la Sardegna

 

carlo-levi-tutto-il-miele-e-finitoil centro in periferia

di Costantino Cossu

C’è una linea di continuità tra Cristo si è fermato a Eboli (1945), l’opera maggiore di Carlo Levi, e Tutto il miele è finito (1964), il libro in cui lo scrittore torinese ricompone in un unico originale racconto i viaggi compiuti in Sardegna in tre occasioni (nel 1952, nel 1955 e nel 1962) per altrettanti reportage apparsi sul mensile L’Illustrazione italiana e sul quotidiano La Stampa.

In maniera molto più netta che in altri scritti di viaggio firmati da Levi (Le parole sono pietre del 1955 sulla Sicilia, Il futuro ha un cuore antico del 1956 sulla Russia sovietica e La doppia notte dei tigli del 1959 sulla Germania), in Tutto il miele è finito, come in Cristo si è fermato a Eboli (opere gemelle), è centrale la figura dell’osservatore. Centrale è la crisi dei riferimenti di valore dell’osservatore, l’intellettuale Levi, alla ricerca di un suo equilibrio esistenziale e di una sua funzione sociale nel rapporto con un’umanità arcaica in cui riconoscersi e dalla quale essere riconosciuto.

Orune, Sardegna, Vista con passante, 1959 (ph. Janos Reismann)

Orune, Sardegna, Vista con passante, 1959 (ph. Janos Reismann)

Con l’obiettivo di restituire la complessità di questo rapporto attraverso l’opera pittorica di Levi, il Museo Man di Nuoro diretto da Chiara Gatti ha allestito la mostra “Carlo Levi, Tutto il miele è finito: la Sardegna, la pittura”, curata da Giorgina Bertolino e aperta sino al 19 giugno. Il percorso espositivo è articolato in tre passaggi. Il primo, al piano terra del Man, ricostruisce il contesto storico dei viaggi in Sardegna di Levi con l’ausilio di  materiali fotografici che comprendono: una selezione degli scatti di Federico Patellani a corredo dei reportage di Levi in Sardegna; una serie di fotografie scattate dallo stesso Levi nel suo soggiorno nell’isola del 1952; un nucleo di istantanee del fotografo ungherese Janos Reismann datate 1959, alcune delle quali furono pubblicate in Aller Honig geht zu Ende, l’edizione tedesca di Tutto il miele è finito pubblicata nel 1965. I riferimenti fotografici sono accompagnati da un progetto audiovisivo intitolato “Ogni andare è un ritornare”, visibile al terzo piano e curato dalla video maker Vittoria Soddu, che tra moving image e sound sculture reinterpreta le tappe dei due viaggi di Levi in Sardegna, «restituendo – scrive nel catalogo dell’esposizione pubblicato da Allemandi l’ex direttore del Man Luigi Fassi – un percorso d’artista compiuto in osservazione partecipante del territorio e dei suoi abitanti».

carlo-levi-tutto-il-miele-e-finito-copertina-libroLa seconda articolazione della mostra si sviluppa al primo e al secondo piano del museo, dove sono raccolte novanta opere pittoriche di Levi che coprono un arco temporale compreso tra il 1925 e il 1975. È un percorso che approda a due esiti: da un lato permette di ricostruire le varie fasi stilistiche e concettuali che hanno segnato l’esperienza di Levi artista visivo; dall’altro l’attenzione parallela alle pagine di Tutto il miele è finito e alla pittura di Levi (asse del progetto curatoriale) illumina il rapporto dell’autore non solo con la Sardegna ma con l’universo più vasto delle civiltà contadine del Mediterraneo, al centro non solo dell’opera letteraria maggiore, Cristo si è fermato a Eboli, ma di tutto il lavoro di Levi. E se per il primo aspetto conta soprattutto il passaggio (tante volte rilevato e documentato) dalla maniera giovanile influenzata dalla lezione di Filippo Casorati alla rottura del secondo dopoguerra, quando Levi adotta canoni espressivi segnati da un marcato «recupero di realtà», è con il secondo aspetto che si tocca l’aspetto centrale dell’operazione allestita dal Man.

Operazione per comprendere la quale aiutano i materiali del catalogo che accompagna la mostra. Tra i quali particolarmente utile appare il saggio della storica Valeria Deplano “Cristo non si è fermato a Cagliari. La Sardegna degli anni Cinquanta e Sessanta di fronte a Carlo Levi”. Prima di arrivare all’isola e alle reazioni dei suoi ambienti intellettuali sardi a Cristo si è fermato a Eboli e poi a Tutto il miele è finito, Deplano richiama le perplessità e anche le critiche radicali che, nel panorama nazionale, accompagnarono la pubblicazione del volume sull’esperienza lucana. «Il lavoro di Levi – scrive Deplano – sollecitò una nuova attenzione nei confronti dei contadini, che contrassegnava una diversa fase nel dibattito sul Meridione. Allo stesso tempo però l’immobilismo e la separatezza con cui gli stessi contadini venivano descritti, e ancora di più la proposta emancipatoria che ne conseguiva e che non prevedeva la collaborazione con gli operai e con gli intellettuali, nel dibattito del tempo valsero a Levi diverse critiche e prese di distanza, specialmente in ambienti marxisti».

5000000040883_0_0_536_0_75Sono ben note a chiunque si sia occupato di Levi sul versante della critica letteraria gli appunti rivolti a Levi da Carlo Muscetta (Realismo e contro realismo, 1958), da Mario Alicata (Il meridionalismo non si può fermare a Eboli, 1954) e da Alberto Asor Rosa (Scrittori e popolo, 1965). Ma altrettanto note sono le riserve avanzate, in un ambito disciplinare e ideologico non coincidente con quello dei tre studiosi di scuola marxista, dall’antropologo Alberto Maria Cirese, critico rispetto al concetto di “cultura contadina” e ai presunti tratti di arcaicità e di astoricità che la caratterizzerebbero. Contro l’illusione dell’immobilità che contraddistingue alcuni approcci contemporanei alle società tradizionali in generale e alla società tradizionale sarda in particolare, nel 1963 Cirese scriveva: «Il carattere conservativo della fisionomia sarda e il suo profilo arcaico non nascono da un’assenza di storia: sono invece il risultato di uno modo particolare di essere nella storia mediterranea. […] In Sardegna nulla è rimasto immutato nel tempo. Ogni età ha aggiunto qualche cosa e ne ha cancellata o trasformata qualche altra; la vita interna ha accolto o rifiutato ciò che giungeva dall’esterno e ha sempre ridimensionato e adattato ciò che accoglieva, producendo inoltre forme e sviluppi propri. Non è quindi possibile appiattire ogni cosa sul livello più arcaico […] Le ragioni della tipicità e della singolarità della tradizione sarda non vanno ricercate in un’improbabile autoctonia o in una spesso incerta antichità. La fisionomia “sarda” nasce invece dal modo di reagire agli apporti esterni e dalle capacità di sviluppo interno» (Mario Alberto Cirese, “Sardegna tra mito e realtà storica”, raccolto in All’isola dei sardi, 2006).  

cireseTra gli intellettuali sardi, e in particolare tra i collaboratori della rivista “Ichnusa” diretta e fondata da Antonio Pigliaru, a questi motivi diciamo generali di avversione o di dubbio verso la visione che Levi manifestava delle società tradizionali si aggiungeva – ricorda Deplano – un altro motivo di dissonanza. L’idea di civiltà contadina come motore unico e immutabile della trasformazione non convinceva il gruppo di “Ichnusa” soprattutto in base all’osservazione della specificità della realtà sarda, «che gli intellettuali raccolti intorno a Pigliaru ritenevano – scrive Deplano – molto diversa da quella descritta da Levi». In Sardegna i contadini non erano mai stati slegati dal resto della società e gli intellettuali sardi, per le loro peculiari caratteristiche sociali, ben lungi dal rappresentare – come nel Meridione d’Italia – un fattore regressivo potevano essere al contrario un soggetto centrale nel processo di emancipazione dell’isola, specie nel contesto di un Piano di rinascita appena avviato (con la legge nazionale del 1962) che, avvertiva Pigliaru, rischiava altrimenti di divenire competenza esclusiva di tecnici e di imprenditori (vedi in particolare Antonio Pigliaru, Il problema della cultura in Sardegna, 1956). Non solo, quindi, Cristo non si è fermato a Cagliari (Cirese), ma anche Cagliari non è Matera (Pigliaru).

A fronte della ricostruzione del dibattito nazionale e regionale su Cristo si è fermato a Eboli e su Tutto il miele è finito, il catalogo della mostra ospita un intervento di un’altra storica, Francesca Congiu, che seguendo il filo dei postcolonial studies prova a compiere un’operazione esattamente opposta a quella messa in atto a suo tempo dai critici della visione arcaicisticica e astorica attribuita a Levi, secondo una percorso argomentativo nel quale quelli che negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento furono denunciati come punti deboli della visione elaborata da Levi nel fuoco di un rapporto contradditorio con le culture subalterne diventano invece punti di forza: «Leggere Levi da una prospettiva postcoloniale – annota Congiu – porta a riconoscere questo protagonista della scena politica e intellettuale italiana dagli anni Trenta alla fine degli anni Sessanta come un precursore delle questioni fondamentali inerenti il discorso postcoloniale in Italia: il complesso collegamento tra nazione e narrazione, l’emergere di un individuo la cui emancipazione interroga e mette in discussione l’autorità, il concetto di «coesistenza dei tempi storici» quale sfida a una Storia indifferenziata. La ragione di un tale tardivo riconoscimento ha a che vedere con i pregiudizi ideologici e i diktat culturali dell’Italia postbellica, che portarono alla marginalizzazione di Levi e del suo ruolo di scrittore di intellettuale».

Pagina da L'Illustrazione italiana, 7 luglio 1952

Pagina da L’Illustrazione italiana, 7 luglio 1952

A sostegno della tesi secondo cui Levi può essere coerentemente associato al pensiero postcoloniale, Congiu cita lo scrittore Dominique Fernandez, che di Levi fu amico ed estimatore: «L’intera opera di Carlo Levi si spiega partendo dalla protesta contro l’uomo occidentale […] Se egli ha scoperto e compreso l’Italia del Sud come nessun altro è perché ha trovato in quel mondo arcaico e primitivo il necessario contrappeso all’Europa. Se egli scrive libri di viaggio è per contrapporre all’idea delle nazioni chiuse l’ideale di un pianeta senza confini. Inoltre Levi non viaggia a caso, ma sempre verso il Sud (Napoli, Lucania, Sicilia, Sardegna) e verso l’Est (Germania, Russia); mai verso il Nord-Ovest, verso quelle nazioni come la Francia, l’Inghilterra, gli Stati Uniti, che pongono quale regola di vita la distinzione individualistica» (Uomini-dei o uomini-piante. Omaggio a Carlo Levi, 1967).

In sintonia con Fernandez, la voce di Filippo La Porta: «Levi scorgeva nella civiltà lucana – arcaica, preistorica, magica, fiabesca – non solo e non tanto un mondo da emancipare, da restituire al Progresso, quanto un modello alternativo di civiltà, e cioè un’alternativa all’“homo oeconomicus” della civiltà borghese, urbano-industriale, al culto della Storia» (Un pensiero meridiano e illuminista, 2017). In questo Levi era vicino a un altro protagonista della cultura italiana del secondo Novecento, Pier Paolo Pasolini. Da un lato i contadini lucani, dall’altro il sottoproletariato romano: per entrambi gli scrittori, nota La Porta, «il mondo che si presume arretrato, o arcaico, o appena sfiorato dalla modernità non è un mondo da redimere, da correggere, ma contiene una sua verità preziosa, che getta un dubbio su qualsiasi magnifica sorte e progressiva». Sullo stesso versante interpretativo, un’altra voce vicina a Levi, quella di Goffredo Fofi, ha a più riprese segnalato nell’opera dello scrittore piemontese un contrafforte dal quale opporsi a un processo storico di lunga durata, che ha preteso e ancora pretende, in una logica di dominio e di asservimento, di ridurre l’intero pianeta a un unico paradigma.

Carlo Levi, Autoritratto, 1945

Carlo Levi, Autoritratto, 1945

Tutto questo però non basta. Non basta a definire Levi e non basta a definire – per stare alle coordinate sia della nuova linea meridionalista inaugurata da Cristo si è fermato a Eboli sia del pensiero post coloniale – il rapporto di Levi con la Sardegna e con i Sud del mondo. Amico di Gobetti e tra i fondatori di Giustizia e libertà, cresciuto alla scuola del liberalismo torinese dentro una cornice di valori illuministici, democratici e progressisti, da scrittore Carlo Levi testimonia del senso di inadeguatezza storica, se non di sconfitta, di quegli stessi valori. Ma ciò che conta di più in Cristo si è fermato a Eboli come in Tutto il miele è finito non è il versante sociologico, antropologico, politico, ovvero il Levi intellettuale democratico che riscatta culture marginali e si batte per gli ultimi. Il cuore del racconto è altro. È la volontà di accedere, attraverso la scrittura, a quella «regione ignota, prima dell’infanzia, piena di selvatica grandezza» di cui lo stesso Levi parla nelle prime pagine del libro sulla Sardegna, che non a caso descrivono l’inabissamento del viaggiatore-osservatore nel grembo buio di un nuraghe millenario.

La narrazione dei contadini lucani e dei pastori sardi è il ritratto di un’alterità radicale. Radicale proprio in quanto astorica. Un’alterità che nel momento stesso in cui viene alla luce sulla pagina destruttura irrimediabilmente il soggetto che osserva imponendosi come la rivelazione di un assoluto che suscita, insieme, seduzione e orrore. La seduzione di un nuovo orizzonte di senso, l’orrore della perdita del sé Narciso dell’individuo borghese.

Carlo Levi, Narciso rovesciato, 1974

Carlo Levi, Narciso rovesciato, 1973

Lo stesso è per il Levi pittore. Le due opere chiave dell’esposizione nuorese sono “Narciso rovesciato” e “Mia madre è morta”, entrambe molto tarde, composte nel 1973, un anno prima della morte dell’autore. Nella stagione ultima della vita, Levi risale alla propria nascita in due tele di grande intensità drammatica, in cui il soggetto (il titolare del “cogito ergo sum” protagonista della tradizione filosofica della modernità occidentale) si annulla, si slabbra, diventa inutile residuo di fronte al mistero dell’Altro, della Morte, della Madre. In un certo senso, due opere manifesto. Ma non c’è lavoro, tra quelli esposti al Man, in cui non si avverta, sia pure con differenti livelli di intensità, una propensione incoercibile a oltrepassare le soglie razionali del reale.

Che il ritratto, sulla pagina scritta o sulla tela, destrutturi il soggetto che osserva agendo sul piano dell’analisi storica e dell’azione politica (la civiltà contadina contro quella borghese) conta relativamente. Così come conta relativamente che su quel piano Levi sia più o meno convincente. Conta molto di più che quel ritratto – quell’autoritratto, quel Narciso rovesciato impresso oltre che sulla tela nelle pagine di Cristo si è fermato a Eboli e di Tutto il miele è finito – mostri inaridite, morte, le radici culturali e psicologiche dell’individualismo borghese e  nullifichi il mito, a quelle radici correlato, di un illimitato progresso; per provare a gettare, invece, le fondamenta di un nuovo pensiero, non violento, inclusivo verso ogni cultura, ogni lingua, ogni identità, ogni  forma di vita, lungo un cammino sul quale, a ben vedere, per l’intero Novecento e sino ad oggi Carlo Levi è stato tutt’altro che solo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
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Costantino Cossu, laureato presso l’università “Carlo Bo” di Urbino (facoltà di Sociologia e Scuola di giornalismo), è giornalista professionista dal 1985, cura le pagine di Cultura del quotidiano la Nuova Sardegna. Collabora con il quotidiano Il manifesto e con la rivista “Gli Asini”. Ha scritto i libri: Sardegna, la fine dell’innocenza (Cuec, 2001), Gramsci serve ancora? (Edizioni dell’Asino, 2009). Ha curato il volume di autori vari La Sardegna al bivio (Edizioni dell’Asino, 2010) e il testo di Salvatore Mannuzzu, Giobbe (Edizioni della Torre, 2007).

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