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Rileggere Cirese. Tra “cosmo” e “campanile”: il caso delle comunità arbëreshe in Val Sarmento

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2021 @ 01:29 In Cultura,Letture | No Comments

 

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La Vallja a San Paolo Albanese (ph. Annibale Formica)

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di Ferdinando Mirizzi

Come più volte ricordato da Pietro Clemente [1], rileggere alcune pagine di Alberto M. Cirese [2] sui temi del “campanile”, della “coscienza dei luoghi”, delle “identità culturali” che si alimentano in uno spazio definito, quello della memoria, degli affetti e delle relazioni, in una dimensione che però non deroghi dalle connessioni con il mondo plurale, il “cosmo” nel lessico ciresiano, e non escluda mai l’assunzione di uno sguardo critico e riflessivo, ci consente oggi di leggere e provare a interpretare le vicende di piccoli paesi e delle rispettive comunità nel loro rapporto con i propri luoghi, lontani e vicini, immaginati e reali, mitici e storici.

Proverò qui a dare un breve contributo in tal senso tornando a riflettere, sulla base di una mia continuativa esperienza di frequentazione e di studio [3], su due piccole comunità arbëreshe stabilitesi nel corso  del XVI secolo in una valle interna della Basilicata meridionale, la Val Sarmento, a seguito della invasione della Morea da parte dell’esercito ottomano e della successiva conquista di Corone, nel 1532, città da cui secondo la pubblicistica arbëreshe si sarebbe originata la successiva diaspora dei gruppi albanesi verso le coste del Regno di Napoli [4]. È a tali eventi che è stata solitamente collegata la fondazione dei due paesi “gemelli” di San Costantino Albanese e San Paolo Albanese, le cui vicende ho progressivamente imparato a conoscere fin da una prima ricerca sul campo condotta a più riprese, tra il 1985 e il 1987, e finalizzata alla produzione di dati e conoscenze di contesto che sarebbero stati utili per la progettazione di un museo della cultura arbëreshe a San Paolo Albanese [5]. E soprattutto San Paolo è diventato nel tempo uno dei luoghi culturali di riferimento nel mio rapporto con la Basilicata come terreno privilegiato di studio e come spazio di plurime relazioni amicali e affettive.

Vorrei subito dire che il “centro”, storico e reale, delle due comunità si colloca proprio nell’area dove oggi sorgono i rispettivi paesi: è da qui che esse hanno sempre guardato all’esterno, in taluni momenti evidenziando il senso della propria diversità, in altri ricongiungendosi a mondi vicini e ad altri più lontani. Ciò consente di affermare che l’elaborazione di un patrimonio culturale, il quale è andato via via modellandosi sulla base dei continui cambiamenti di contesto, abbia trovato il suo punto di riferimento, in grado di produrre motivi di affezione e sensi di appartenenza e autoidentificazione, proprio nella relazione con i luoghi dello stanziamento dei gruppi provenienti dal territorio albanese nella penisola italiana e in cui, in particolare, le due comunità di San Costantino e San Paolo hanno vissuto prima in uno stato di sostanziale isolamento e poi in una condizione di scambio e ibridazione con le popolazioni “native” diffuse in Val Sarmento e residenti nei circostanti paesi di S. Giorgio Lucano, Noepoli, Cersosimo e Terranova di Pollino.

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Il gioco del falcetto durante la processione di S. Rocco, patrono di San Paolo Albanese (ph. Annibale Formica)

Poi, sì, c’è un “centro” mitico, il luogo delle origini al di là del mare Adriatico, da cui erano partiti i nobili e valorosi Coronei, strenui difensori della cristianità contro l’avanzata dei Turchi infedeli, accolti fraternamente e con grandi onori dal Papa e dall’imperatore Carlo V, su cui tanto aveva posto l’accento parte della letteratura arbëreshe di ispirazione ottocentesca e romantica, evidentemente interessata a esaltare i valori etici e civili che i profughi avrebbero portato con sé dalla madrepatria, nell’evidente tentativo di nobilitare la presenza dell’etnia albanese in una terra dove a lungo i profughi erano stati visti con ostilità e diffidenza e in una dimensione storica essenzialmente segnata da miseria, isolamento ed emarginazione. Ciò ha prodotto tra gli intellettuali arbëreshë una sorta di malinconico sentimento nostalgico per una terra mai conosciuta e per una condizione immaginata, ma ritenuta vera, che ha trovato la sua espressione nel canto Oj e bukura More (“O bella Morea”), diffuso peraltro a San Costantino e San Paolo Albanese solo a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso [6].

Resta il fatto che, al di là delle suggestioni e del mito, lo spazio e il tempo di riferimento, “centro” o “campanile” a seconda del termine che si voglia utilizzare, per definire le effettive coordinate del sentimento comunitario e identitario delle popolazioni di San Costantino e San Paolo sono, nella realtà del vissuto, la Val Sarmento e l’arco temporale che va dal momento dell’arrivo dei migranti albanesi ai giorni nostri. È in tale spazio del lavoro e della quotidianità e in tale tempo di vita oscura, difficile, di isolamento ma anche di rapporti di scambio e integrazione continua con le limitrofe comunità “italiane” che si è costruita e consolidata una specifica coscienza della propria condizione culturale, caratterizzata sì da alcuni tratti storicamente rivenienti dall’originaria cultura albanese, ma definita in gran parte da elementi, concezioni, modi di vita e problemi esistenziali più specificamente e complessivamente riportabili alle dinamiche storiche e sociali che hanno analogamente e generalmente segnato la vita delle popolazioni stanziate nelle aree interne del Mezzogiorno d’Italia tra età moderna e contemporanea.

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Il Museo della Cultura Arbëreshe a San Paolo Albanese (ph. Annibale Formica)

La consapevolezza della diversità arbëreshe sta oggi, in primo luogo, in una lingua orale esibita orgogliosamente come elemento di distinzione, la cui conservazione sul piano locale è affidata all’uso corrente non solo nella dimensione privata e familiare, ma anche in quella sociale e pubblica: una lingua che unisce ed è fattore di coesione e auto-riconoscimento senza sostanziali differenze tra individui appartenenti a generazioni diverse. Proprio la lingua ha fin qui sostanzialmente consentito che non si verificassero situazioni di distacco e di dimenticanza in chi è dovuto andar via a causa della mancanza di risorse e di opportunità lavorative. Con la conseguenza che a San Costantino e a San Paolo Albanese si ritorna sempre e nel mese di agosto si assiste ogni anno al significativo moltiplicarsi dei residenti temporanei e alla riapertura di molte case che restano vuote nei rimanenti mesi dell’anno.

La lingua parlata dalle comunità arbëreshe della Val Sarmento, come delle altre stanziate nelle regioni dell’Italia meridionale, è un dialetto che non trova alcun riscontro in nessuno degli idiomi parlati nella terra di provenienza dei profughi. Infatti, «se da un lato, nei suoi elementi strutturali l’albanese d’Italia, così come l’albanese di Grecia, appartiene al tosco meridionale», manifestando «caratteristiche comuni con i dialetti albanesi del sud (Labëria e Ciamuria), dall’altro, per alcuni tratti conservativi», presenta elementi simili, sul piano fonetico, morfologico, sintattico e lessicale, «con la lingua degli antichi scrittori dell’Albania del nord, del XV e XVII secolo, specie con la lingua del Messale di Gjon Buzuku, pubblicato nel 1555».

Ma, «oltre a questi tratti conservativi, portati con sé dalla madrepatria, l’albanese d’Italia contiene dei tratti innovativi, specie in campo lessicale, determinati dal contatto linguistico con l’ambiente romanzo, iniziato già all’epoca dello stabilimento in Italia, nei secoli XV–XVI» [7]. Si tratta cioè di una lingua variamente formatasi nel corso del tempo attraverso l’adattamento dell’italiano e dei dialetti locali, lucani, calabresi, siciliani, alle strutture fonetiche, morfologiche e sintattiche di un albanese regionale del XV-XVI secolo, una lingua che, se è diversa dall’italiano, è però anche profondamente differente da quella attualmente parlata nelle zone da cui è partito il processo migratorio. Insomma, anche la lingua è il risultato del rapporto costante delle popolazioni arbëreshe con quelle dei territori romanzi circostanti e non può, emblematicamente e in senso assoluto, essere assunta come bandiera di una diversità etnica rispetto alle contigue comunità di origine italiana.

Insieme alla lingua, patrimonio vivo di San Costantino e San Paolo Albanese è il rito greco-ortodosso, con il ricorso alla liturgia di San Giovanni Crisostomo e la comunione somministrata con il pane e il vino. E secondo il rito bizantino sono celebrati i matrimoni, con il coinvolgimento ancora oggi dell’intera collettività locale. A tale universo cerimoniale rimandano poi alcune espressioni della cultura coreutico-musicale arbëreshe, come la prevalente polivocalità o la vallja, ballo in cerchio derivato forse dalla danza pirrica diffusa in area balcanica.

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Il Museo della Cultura Arbëreshe a San Paolo Albanese (ph. Annibale Formica)

Ma, più complessivamente, il patrimonio culturale delle due comunità dell’Arberia lucana della Val Sarmento è l’esito di cinque secoli di rapporti di dialogo e integrazione con i paesi presenti nel resto della valle e – come ha scritto Annibale Formica, con riferimento a San Paolo, delle cui politiche culturali è stato ed è instancabile ispiratore e animatore, già sindaco del paese e poi direttore del Parco Nazionale del Pollino – esso «si può sintetizzare in Jeta e Shën Paljit, cioè il mondo e la vita di San Paolo Albanese. Jeta è una parola che esprime mirabilmente la realtà fisica, naturale, paesaggistica, ecologica e la comunità, le sue tradizioni, la sua memoria, le sue radici, la sua etnia; rappresenta il patrimonio demo-etno-antropologico del paese dentro al più vasto sistema ecologico dell’area» [8].

Un patrimonio complesso, frutto di un rapporto empatico con il paesaggio della Val Sarmento ed esito di molteplici contaminazioni e di continui processi di produzione culturale, che per gli arbëreshë è caratterizzato da una mai sopita vitalità, sorretta dalla consapevolezza della sua ricchezza e dall’orgoglio della diversità, ma che nella realtà contemporanea è sempre più minacciato dalla difficoltà della sua trasmissione sul piano intergenerazionale e dal fatale decremento demografico che accompagna l’esistenza di comunità sempre più inesorabilmente invecchiate.

Eppure, nell’Italia dai tanti campanili, le minoranze arbëreshe della Val Sarmento sono tra quelle più radicalmente attaccate alle proprie tradizioni culturali e alla propria diversità storico-linguistica e, proprio per questo, esse cercano di rendere viva la coscienza dei luoghi promuovendo le proprie feste e le proprie espressioni patrimoniali, con l’organizzazione di eventi e l’allestimento di musei, pur nella consapevolezza delle odierne difficoltà, delle vigenti condizioni di precarietà sul piano economico, della mancanza di progettualità soggettive. E puntando però alla costruzione di reti con gli altri paesi arbëreshë dell’area del Vulture, nella parte settentrionale della Basilicata, e con quelli, ben più numerosi, della Calabria, ma anche stringendo relazioni sempre più strette e solidali con le altre popolazioni della Val Sarmento e di tutta l’area delimitata dal Parco Nazionale del Pollino.

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Il Museo della Cultura Arbëreshe a San Paolo Albanese (ph. Annibale Formica)

Naturalmente anche qui, come evidenzia Pietro Clemente riferendosi ad altre situazioni da lui considerate [9], è sempre una minoranza di individui ad assumere iniziative e a investire sulle capacità dei luoghi e delle culture di essere attrattive verso l’esterno, allo scopo di far diventare il proprio paese “centro” anche per altri, in modo da creare le condizioni perché più ampie “comunità patrimoniali” e di “pratica” possano formarsi e rendersi protagoniste di processi di salvaguardia, valorizzazione e trasmissione dei patrimoni locali.

In questo contesto, in particolare, si coglie il senso dell’iniziativa di progettare e realizzare, fin dagli anni Settanta del ’900, un Museo della Cultura Arbëreshe a San Paolo Albanese, che ha come principale obiettivo un suo radicamento nella memoria della comunità, trovando il suo specifico orizzonte di senso nella esistenza concreta delle persone che costituiscono la comunità di quel piccolo paese, dove oggi risiedono stabilmente poco più di 200 persone. Ma, pur avendo personalmente avuto un ruolo riconoscibile e riconosciuto nella progettazione e nell’allestimento della struttura museale [10], vorrei chiudere lasciando alle parole di Annibale Formica il compito di comunicare dall’interno quale sia, per la popolazione di San Paolo, il significato del Museo, che è stato peraltro recentemente oggetto di una specifica segnalazione in occasione della Giornata Nazionale del Paesaggio, il 14 marzo 2021, da parte del Ministro della Cultura:

«Il Museo è un luogo di valori tradizionali e un quadro di vita del passato, mantenuti integri tra le nuove tecnologie e le comunicazioni di massa globalizzate. È il territorio e il suo paesaggio rurale; è il borgo abitato e il suo tessuto edilizio ed urbanistico; è la comunità e la sua cultura; è il contenitore di memorie e il laboratorio di futuro. Le attività svolte riguardano la lingua, la storia, le tradizioni, la cultura arbëreshe, l’ecologia, l’etno-demo-antropologia, l’eco-antropologia, l’architettura spontanea, il paesaggio identitario. Sono attività laboratoriali di educazione al patrimonio culturale arbëresh, di lingua madre, l’“aljbërisht”, di momenti di vita della comunità, di lavorazione della ginestra, di interpretazione naturalistica, di cibi tipici. Sono lavori di cura, di accudimento, di manutenzione, di restauro, di tutela e di valorizzazione, che consentono di prendere contatto immediato con il patrimonio, di rivisitarlo, di reinterpretarlo e di produrre nuova cultura e nuova economia. Si rivisita in tal modo il passato e si progetta il futuro, mediando, in questo piccolo angolo di mondo, i contrasti tra civiltà contadina di ieri e vita globalizzata e ipertecnologica di oggi, che trovano difficoltà a parlarsi e ad incontrarsi; si restituiscono i “saperi” della comunità ai giovani e agli interessi, agli interrogativi, alle aspirazioni di una nuova civiltà; si proietta la storia del paese verso nuovi orizzonti, nuovi confini, senza che siano omologate, spoliate, espropriate, colonizzate le sue diversità» [11].
 Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Note
[1] Si veda, ad es. P. Clemente, Ibridazioni e riappropriazioni. Indigeni del XXI secolo, in Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, a cura di A. De Rossi, Roma, Donzelli, 2018: 365-380; ma anche Id., Antropologia e piccoli paesi. Inconri, problemi, esperienze, in «Dialoghi Mediterranei», 2018, n. 11.
[2] Il riferimento, in particolare, è ai saggi contenuti in A.M. Cirese, Tra cosmo e campanile. Ragioni etiche e identità locali, a cura di P. Clemente, G. Molteni, E. Testa, Siena, Protagon Editori Toscani, 2003.
[3] Citerò qui per tutti, tra i miei scritti dedicati alle comunità arbëreshe della Val Sarmento, uno dei primi e l’ultimo, in ordine cronologico, dei saggi a esse dedicati: Problèmes de définition d’une identité culturelle entre tradition littéraire et réalité historique. Les cas de San Costantino et de San Paolo Albanese en Basilicate, in Memory and multiculturalism. VIII International Oral History Conference (Siena Lucca, 25-28 February 1993), Siena, Comitato Internazionale di Storia Orale – Università degli Studi di Siena, 1993: 503-512; e Lingue e culture locali nei processi contemporanei di patrimonializzazione e di costruzione identitaria, in The Intricacy of Languages, a cura di F. Feliu and O. Fullana, Amsterdam, John Benjamins Publishing Company, 2019: 82-97.
[4] In verità non ci sono prove certe della presenza di albanesi nella Val Sarmento negli anni successivi all’immigrazione successiva alla caduta di Corone nel 1532. Al di là del mito, la realtà storica è più probabilmente quella di un movimento migratorio di gruppi solo parzialmente costituiti da guerrieri e, in realtà, essenzialmente composti da pastori, mercenari, domatori di cavalli, donne destinate alla servitù, uomini disposti a qualunque occupazione precaria e alla ricerca di mezzi che potessero garantire loro le soglie minime di sussistenza. Ne sarebbero testimonianza i luoghi assegnati dalle autorità del Regno alle comunità provenienti dall’Albania, generalmente impervi e isolati, non facili da raggiungere e dotati di terreni in gran parte improduttivi; e, inoltre, alcune segnalazioni provenienti da fonti che descrivono gli albanesi come «facinorosi e sanguinari», individui da cui stare lontani, con cui non mescolarsi, da marginalizzare in quanto portatori di alterazione di equilibri nella esistenza delle comunità locali viventi nei territori in cui avveniva lo stanziamento dei gruppi di nuova immigrazione.
[5] Cfr. F. Mirizzi, Indagini preliminari al progetto per un museo della cultura arbëreshe a San Paolo Albanese, in «Lares», LIX, 1993: 211-260.
[6] N. Scaldaferri, Musica arbëreshe in Basilicata, Lecce, Editrice Adriatica Salentina, 1994: 39 e 190. Scaldaferri riferisce che il canto fu registrato, probabilmente per la prima volta, da Diego Carpitella a San Costantino Albanese il 23 aprile 1954: la voce era quella di un giovane, Nicola Chiaffitella, che lo aveva ascoltato e imparato presso la Badia di Grottaferrata, dove egli aveva condotto i suoi studi.
[7] F. Altimari, Profili storico-letterari, in L’esilio della parola. La minoranza linguistica albanese in Italia, in F. Altimari, M. Bolognari e P. Carrozza, Pisa, ETS Editrice, 1984: 1–31: 21.
[8] A. Formica, Il patrimonio culturale della comunità etnico-linguistica arbëreshe di San Paolo Albanese (Shën Palji), in «Basiliskos», III, 2016: 53-66: 54-55.
[9] P. Clemente, Ibridazioni e riappropriazioni cit.
[10] Cfr. F. Mirizzi, Scrivere di musei: su alcune recenti esperienze museografiche in Puglia e Basilicata, in «Books seem to me to be pestilent things». Studî in onore di Piero Innocenti per i suoi 65 anni, Promossi da Varo A. Vecchiarelli, Raccolti, ordinati e curati da C. Cavallaro, Tomo terzo, Manziana (Roma), Vecchiarelli Editore, 2011: 1159-1168.
[11] A. Formica, Il patrimonio culturale cit.: 61. 

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Ferdinando Mirizzi, professore ordinario di Discipline demoetnoantropologiche presso l’Università degli Studi della Basilicata, Dipartimento di Culture Europee e del Mediterraneo: Architettura, Ambiente, Patrimoni Culturali (DiCEM), di cui è stato direttore dal 2012 al 2020. Fa parte del collegio docenti del Dottorato di Ricerca in “Cities and Landscapes: Architecture, Archaeology, Cultural Heritage, History And Resources”. È presidente della Società Italiana di Antropologia Culturale (SIAC) e, inoltre, dell’Osservatorio Scientifico Regionale “Edward C. Banfield” per la salvaguardia del patrimonio etno-antropologico della Basilicata e del Comitato Tecnico Scientifico del Museo della Cultura Arbëreshe di San Paolo Albanese (Pz). È componente del Consiglio Scientifico presso l’Istituto Centrale per i Patrimoni Immateriali, ha fatto parte del Comitato Tecnico Scientifico per la redazione delle Linee Guida finalizzate alla progettazione del Museo Demoetnoantropologico dei Sassi a Matera ed è socio fondatore della Società Italiana per i Musei e i Beni Demoetnoantropologici (SIMBDEA) e del Centro Internazionale di Ricerca e Studi sul Carnevale, la Maschera e la Satira. È direttore responsabile della rivista «Archivio di Etnografia» e della Collana «Etnografie» ed è componente dei Comitati Scientifici della Collana “Antropologia Culturale e Sociale”, edita dalla Casa Editrice Franco Angeli, e “delle riviste «Antropologia» e «Lares». 

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