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Resilienza: l’azione umanitaria tra deresponsabilizzazione internazionale e ritorno al locale

copertinadi Lisa Riccio

Si può affermare che, durante quasi tutto il ’900, l’aiuto umanitario è stato dominato da un paradigma fondato su una lettura estremamente eccezionale delle crisi e della risposta che ne deriva[1]. Sin dalla sua prima codificazione, infatti, l’azione umanitaria ha costruito il proprio discorso attorno ad un nocciolo duro di princìpi etici ed operativi il cui uso strumentale era volto alla creazione di una spazio protetto, isolato e libero dalle influenze della politica, il cosiddetto spazio umanitario, in cui gli operatori potevano fornire un aiuto d’emergenza esclusivamente orientato alla soddisfazione dei bisogni creati ad hoc da una situazione eccezionale. Nel carattere di eccezione delle crisi – per cui esse rappresentano eventi totali, limitati da un inizio ed una fine ben precisi, che rompono il normale scorrimento della vita economica, sociale e istituzionale di un Paese[2] – si risolve il tradizionale carattere temporaneo, palliativo e apolitico dell’azione umanitaria nella sua accezione classica.

Da qui la classica distinzione fra aiuto umanitario e aiuto allo sviluppo. Se il primo appartiene alla sfera dell’emergenza – definita come «an urgent situation created by an abnormal event which a government cannot meet out of its own resources and which results in human suffering and/or loss of crops or livestock»[3]  – che fa dei princìpi di umanità, imparzialità, neutralità e indipendenza i capi-saldi della propria azione[4], il secondo si pone piuttosto quale strumento (politico) a lungo termine atto a rispondere a questioni più strutturali e sistemiche che si configurano come ostacoli allo sviluppo economico, istituzionale e sociale di un Paese[5]. D’altra parte, tale lente interpretativa è alla base dell’uso e dell’istituzionalizzazione di sistemi paralleli e internazionalizzati di assistenza tipici dell’umanitarismo classico. È in ragione dello stato di emergenza straordinario indotto da una crisi che si è sempre legittimato il ruolo che le agenzie umanitarie, nella maggior parte dei casi internazionali, svolgono nella prestazione di un’assistenza che in tempi “normali” sarebbe assicurata dalle istituzioni statali [6].

In questo contesto eccezionale, limitato tanto temporalmente quanto geograficamente – dal momento in cui le guerre furono combattute tra due o più eserciti regolari, che si affrontavano frontalmente e riconoscevano i princìpi umanitari – gli attori umanitari avrebbero dovuto, in primo luogo, ritagliarsi uno spazio neutrale in cui operare in perfetto isolamento dalla realtà politica, economica e sociale della crisi ed in linea con i princìpi di umanità, imparzialità e indipendenza così come sono stati delineati a partire dall’esperienza di Henry Dunant[7]. In questo spazio apolitico, la cui manifestazione fisica più emblematica è quella del campo rifugiati[8], gli attori locali (tanto quelli politici quanto le popolazioni coinvolte direttamente) non trovavano alcun tipo di spazio in ragione del loro essere considerati o come parte del problema o come mancanti delle capacità necessarie alla formulazione di una qualsiasi risposta alla crisi[9]. In questo contesto le persone colpite da uno shock erano trasformate in vittime passive bisognose di immediata assistenza[10]

Tuttavia, questa concettualizzazione della crisi e la temporaneità della risposta che ne deriva sono state messe progressivamente in discussione a partire dagli anni ’90 del secolo scorso grazie al riconoscimento non solo della natura complessa, dinamica e soprattutto protratta delle crisi umanitarie emerse con la fine del mondo bipolare, ma anche dalla conseguente inefficienza, inefficacia e contraddittorietà dell’azione umanitaria nella sua accezione classica [11]. Fu la catastrofica gestione delle crisi umanitarie degli anni ’90 in Paesi come la Somalia, l’ex-Yugoslavia e soprattutto il Ruanda a dare finalmente avvio ad uno sforzo di riflessione non solo sul ruolo dell’aiuto di relief ma anche e soprattutto sui suoi obiettivi e sugli strumenti attraverso cui raggiungerli.

Il sistema umanitario inizia a prendere coscienza del fatto che le buone intenzioni non bastano a produrre buoni risultati[12] e che anzi, casi come la Somalia e il Ruanda avevano chiaramente dimostrato come «The operational lens could no longer simply be ‘humanity’ in the sense of the alleviation of immediate suffering, since this may well reinforce settlement patterns that lead to much greater suffering in the longer term»[13]. La crisi Ruandese – considerata da molti come il nadir dell’umanitarismo classico[14] – sollevò la questione dell’assistenza umanitaria che, così come era stata concepita per tutto il corso del ‘900, era da ritenere responsabile del perpetrarsi della guerra civile in corso e dunque della stessa sofferenza che tentava di alleviare tramite il suo intervento. Per Fiona Terry, infatti, «the history of the Rwandan refugee camps graphically illustrates the paradox of humanitarian action: it can contradict its fundamental purpose by prolonging the suffering it intends to alleviate»[15].

A cavallo fra i due secoli, la crescente evidenza dei fenomeni di dipendenza dall’assistenza, di manipolazione dell’aiuto, di inibizione delle capacità di ripresa locali e degli ostacoli in termini di sviluppo quali inevitabili conseguenze di un’assistenza umanitaria fondata sull’idea di una rigida neutralità ed indipendenza, combinato alla presa di coscienza dell’insostenibilità finanziaria di quest’ultima in contesti di crisi prolungata, hanno portato l’intero apparato umanitario a cercare di istituire una continuità tra lo stato emergenza e quello di normalità, tra l’aiuto umanitario e l’aiuto allo sviluppo, tra un approccio a breve termine ed uno a lungo termine. L’idea per cui ci fosse la necessità di collegare i due campi raggiunse, infatti, un certo consenso basato sull’assunto per cui «better “development” can reduce the need for emergencies relief, better “relief” can contribute to development, and better “rehabilitation” can ease any remaining transition between the two»[16]. Da questa affermazione sarebbero emersi due approcci principali. Il primo è il continuum relief-Rehabilitation-development ed il secondo, nato a seguito delle critiche volte a quest’ultimo, è rappresentato dal contiguum relief-Rehabilitation-development.

L’idea del continuum si basava essenzialmente sulla successione lineare e cronologica di tre fasi consecutive, ossia la fase d’emergenza, quella di riabilitazione e, infine, la fase di sviluppo. L’aiuto internazionale, infatti, si era articolato sino a questo momento in tre fasi nettamente distinte l’una dall’altra[17]. Ad una prima e breve fase di emergenza acuta durante la quale i progetti umanitari avevano una durata di circa sei mesi e in cui l’obiettivo principale era quello di salvare vite umane a rischio senza considerazioni in termini di effetti a lungo termine, seguiva una seconda fase detta di riabilitazione e ricostruzione durante la quale la programmazione doveva focalizzarsi su obiettivi a breve e medio termine che potessero gettare le basi per la ripresa della normale vita economica ed istituzionale del Paese. Alla fine di questa fase seguiva quella definita di sviluppo in cui le azioni di relief non erano più comprese e lasciavano definitivamente il posto a una progettazione a lungo termine finalizzata ad un più ampio miglioramento delle condizioni di vita e di accesso al welfare pubblico.

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Esodo dal Ruanda, 1994 (UNHCR)

Quest’ultima fase, detta anche di normalizzazione[18], era dominio della cooperazione internazionale allo sviluppo il cui principale interlocutore erano le istituzioni statali ed i governi e non gli individui direttamente beneficiari dell’azione di relief [19]. Questa netta separazione temporale, che come vedremo si dimostra superficiale di fronte a emergenze di natura ciclica e protratta, si rifletteva e veniva rafforzata negli anni ‘90 da ciò che la letteratura chiama il “Funding Gap” [20], ossia l’assenza di finanziamenti per una programmazione che non si focalizzava né sulla fase d’emergenza, né su quella di sviluppo ma piuttosto su quella “zona grigia”[21] che è considerata la fase di riabilitazione e ricostruzione[22]. Ciò risulta essere la ragione principale per cui spesso, specie nel contesto delle Emergenze Complesse, nel momento in cui la fase d’emergenza sembrava aver lasciato il posto a quella di post-conflitto, i finanziamenti alle azioni di relief venivano tagliati dando origine ad un’improvvisa interruzione dell’assistenza per poi essere ripristinati all’inizio di un nuovo ciclo di conflitto[23]. Tuttavia, lungi dal proporre una soluzione effettiva al problema della compartimentazione dell’aiuto, il continuum tentava semplicemente di facilitare i meccanismi di coordinazione e di “passa mano” tra le agenzie specializzate nella fase di emergenza e quelle focalizzate su obiettivi più a lungo termine (il trasferimento della gestione dei progetti dalle ONG straniere a quelle locali o dall’UNHCR all’UNDP) e di porre il focus più importante sulla fase di ricostruzione e riabilitazione[24]. Il problema principale risiedeva, ancora una volta, nella visione estremamente convenzionale dei concetti di sviluppo e di crisi che la nozione portava con sé.

Per quanto riguarda il primo aspetto, il continuum risentiva di una visione evoluzionisticamente e teleologicamente classica dello sviluppo per cui esso era inteso come un processo lineare di progressiva crescita economica e miglioramento delle condizioni di vita e in cui la crisi rappresentava una sua interruzione momentanea, un evento eccezionale con un inizio improvviso ed una fine ben precisa e a seguito del quale il processo di sviluppo avrebbe potuto riprendere. Similmente, per quanto riguarda il secondo aspetto, il continuum relief-development rifletteva la formula politica attraverso cui la comunità internazionale a seguito della Guerra Fredda aveva tentato di promuovere la transizione dallo stato di guerra a quello di pace, il cosiddetto “continuum politico” degli anni ’90[25]. Quest’ultimo, infatti, presupponeva un ciclo di fasi ben definite (negoziazione, cessazione delle ostilità, transizione e consolidamento del nuovo status quo) che, in realtà, si rivelava completamente estraneo alle traiettorie delle Emergenze Politiche Complesse caratterizzate piuttosto per essere «non-linear, but highly dynamic and periodically shifting from periods in which transition appears possible back to full-fledged armed hostilities»[26] e in cui, dunque, i bisogni delle popolazioni non solo non sono omogenei ed uguali in tutte le zone coinvolte nella crisi ma la necessità di aiuti di relief può protrarsi per anni e non per mesi.

La nozione di contiguum Relief-Rehabilitation-development, nata nella seconda metà degli anni ’90 a seguito di tali critiche, tenterà di tenere conto di queste criticità riconoscendo che diversi strumenti di assistenza devono essere utilizzati simultaneamente e devono essere integrati nel più ampio piano di sviluppo del Paese in cui vengono implementati. Con le parole di Armiño

«il collegamento implicherebbe che, in qualsiasi momento, sia necessario combinare diverse forme di intervento, sia di emergenza a breve termine, sia di riabilitazione a medio termine, sia di sviluppo a lungo termine, nel quadro di una strategia integrata e coerente, che sia lungimirante e sempre orientata alla riduzione della vulnerabilità e al rafforzamento delle capacità»[27].

Nonostante negli anni ’90 le nozioni di continuum e contiguum rimanessero confinate al dibattito teorico senza trovare alcuna significativa applicazione pratica, esse risultano di fondamentale importanza in quanto rappresentano un primo passo verso una concezione dell’aiuto che smette di trincerarsi nei princìpi di neutralità e indipendenza per stabilire un nuovo tipo di relazione tanto con gli attori allo sviluppo quanto con gli attori locali. Nel momento in cui si vuole sviluppare e rafforzare un sistema piuttosto che sopperire ai bisogni immediati di un gruppo, emerge, infatti, con forza la necessità di un approccio che comprenda il valore del dialogo e della collaborazione sia con le istituzioni politiche del Paese che con i rappresentanti della società civile e gli individui direttamente coinvolti nella crisi. È in questa fase che inizia ad emergere una certa responsabilizzazione degli attori locali e un discorso che spinge l’apparato umanitario a lavorare non più sulle conseguenze di una crisi ma sui fattori che rendono una popolazione maggiormente esposta alle conseguenze distruttive di uno shock (le vulnerabilità individuali, comunitarie e sistemiche) nonché sul rafforzamento delle capacità locali di adattamento, ripresa e reazione autonoma tramite un approccio maggiormente partecipativo, un’azione di negoziazione e di coinvolgimento delle popolazioni direttamente colpite dallo shock nella formulazione di una risposta.

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Burkina Faso (ph. Marwa Awad)

Tuttavia, mentre negli anni ’90 si parlava di “building capacity” (e dunque si presupponeva l’assenza di capacità su cui poter contare) oggi, si parte piuttosto dall’assunto per cui «people, communities and societies (can) have the capacity to adapt to or to spring back from tragic life events and disaster»[28]. Questa assunzione, che come vedremo a breve è alla base del paradigma della resilienza, solleverà questioni importanti come quella relativa al focus sull’agency e all’interrogativo capitale se la strategia di  attenzione alle capacità locali rappresenti realmente un tentativo di rendere l’aiuto umanitario più efficace nel suo obiettivo di alleviare la sofferenza umana o sia piuttosto il riflesso di una logica neo-liberale che tenta a tutti costi di responsabilizzare gli attori locali in ragione dell’insostenibilità finanziaria dell’azione umanitaria in un contesto il cui la crisi, lungi dal essere un evento eccezionale, è diventata la nuova normalità[29].

A partire dai primi anni 2000, saranno in particolare le crescenti preoccupazioni, in conseguenza delle sempre più frequenti catastrofi naturali legate al cambiamento climatico, a dare slancio alla ripresa del dibattito linking relief-development nel nuovo quadro concettuale ridefinito dalla nozione di resilienza[30]. All’inizio del nuovo secolo resilienza e “building resilience” irrompono e si impongono nel vocabolario delle Nazione Unite, espressioni adottate dai Paesi donor e da varie ONG internazionali quale nuovo principio organizzativo principale in grado di ripensare e rinnovare la pratica umanitaria in modo più efficiente ed efficace[31]. In realtà, già alla fine degli anni ’80, partendo dall’impossibilità di prevedere con accuratezza e rispondere prontamente a tutti pericoli futuri, Wildavsky suggeriva la resilienza – definita come «the capacity to cope with unanticipated dangers after they have become manifest, learning how to bounce back» [32] – quale strumento di gestione dei rischi rispetto a strategie di anticipazione e prevenzione. È in quest’ottica che all’inizio degli anni 2000 la resilienza diviene una componente fondamentale delle cosiddette politiche di “Disaster Risk Reduction”.  La riduzione dei rischi derivanti dal sopraggiungere di disastri naturali e l’integrazione della loro analisi all’interno delle politiche di sviluppo sostenibile dei Paesi “fragili”, attraverso un lavoro volto alla riduzione delle vulnerabilità e al rafforzamento delle capacità locali di autonoma gestione e rapida ripresa da uno shock, diventano fattori fondamentali della strategia di “resilience building” contenuta all’interno del Hyogo Framework For Action (2005-2015) [33].

Basandosi sul riconoscimento delle capacità locali di adattarsi e resistere ad una catastrofe, l’Action Plan afferma chiaramente il ruolo primario che da questo momento in poi gli attori nazionali avrebbero giocato non solo nell’organizzazione e nel controllo della risposta umanitaria ai disastri naturali, ma anche nell’integrazione coerente di quest’ultima del proprio piano di sviluppo sostenibile[34]. Le idee di  resilienza della nazione e della sua popolazione iniziavano ad implicare un importante spostamento di focus dagli attori umanitari internazionali – protagonisti nel paradigma classico dell’azione umanitaria – a quelli locali in ragione del riconoscimento dell’incapacità del sistema umanitario di continuare ad intervenire in un numero crescente di catastrofi causate dal cambiamento climatico e dell’insostenibilità di un approccio basato unicamente su un aiuto d’emergenza in un contesto in cui le crisi sono più frequenti e durature. Tuttavia, sarà solo alla fine degli anni 2000 che la nozione di resilienza, grazie alla sua integrazione all’interno delle politiche umanitarie e allo sviluppo di alcuni dei principali donor, si aggiudicherà l’etichetta «the sexiest new buzzword»[35].

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Nel 2011, ad esempio, il Regno Unito – sostenendo la necessità di un uso simultaneo dell’aiuto umanitario e allo sviluppo in vista di una riduzione del primo sul lungo periodo[36] – pone la resilienza «at the heart of our approach both to longer-term development and to emergency response. […] engaging more closely with local people and institutions so as to strengthen local capacity»[37]. A fine 2011, la United States Agency for International Development (USAID) pubblica il documento “Building Resilience in Recurrent Crisis”[38] nel quale si afferma che, poiché «We can not stop shock from happening, [la U.S. Agency for International Development] can – and must – do more help to withstand them»[39], il “building resilience” è visto come un più efficiente ed efficace modo di prestare assistenza alle popolazioni colpite da una crisi tramite l’integrazione di un focus a lungo termine che, pur non tralasciando la necessità di fornire un aiuto di relief, si concentra su ciò che potrà rendere quella popolazione più resiliente e meno fragile sul lungo periodo, ossia il rafforzamento delle capacità locali (comunitarie e nazionali) di adattamento, risposta autonoma alla crisi di oggi e anticipazione e preparazione alle crisi future[40]. A partire dal 2012, sarà l’Unione Europea (UE) a riformulare le proprie politiche umanitarie sulla base del nuovo principio organizzativo[41].

A seguito delle gravi crisi alimentari verificatesi nel Corno dell’Africa e nella regione del Sahel nel 2011, l’UE pubblica la prima comunicazione al parlamento focalizzata sulla nozione di resilienza, “The EU Approach to Resilience: Learning from Food Security Crisis”[42]. La resilienza è qui definita come «the ability of an individual, a household, a community, a country or a region to withstand, to adapt, and quickly recover from stress and shocks»[43]. Nonostante questa pubblicazione sia esplicitamente focalizzata sulla riduzione della vulnerabilità delle comunità di fronte a crisi indotte dal cambiamento climatico e non di origine umana, risulta importante sottolineare come in linea con la concettualizzazione del “resilience building” dell’Action Plan di Hyogo e con quelle contenute nelle politiche di altri Paesi donor, anche in questo caso l’idea di resilienza si traduce in primis nella responsabilità delle comunità e dello Stato colpito dalla crisi di adattarsi alle nuove sfide, resistendo e riprendendosi velocemente dallo shock.

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Esodo dal Sahel

Nel 2013, tramite la pubblicazione delle ‘Conclusioni del Consiglio dell’Unione Europea sull’Approccio alla Resilienza dell’UE’ tale approccio viene esteso anche a contesti caratterizzati dalla presenza di conflitto aperto o dalla fragilità dello Stato e delle sue istituzioni. Riprendendo la precedente comunicazione della Commissione, il Consiglio riafferma la necessità dell’adozione di un approccio basato sulla resilienza presentandolo come «an opportunity to bring together political dialogue, humanitarian and development work and priorities in a comprehensive, coherent and effective approach to achieve better results on the ground»[44]. Emerge dunque un elemento centrale del dibattito LRRD degli anni ’90 al quale l’UE aveva contribuito con le due fondamentali pubblicazioni sul continuum e contiguum nel 1996 e nel 2001, ossia la complementarietà di interventi a breve e lungo termine in contesti di crisi protratta. Tuttavia il dibattito LRRD viene ripreso e anzi rafforzato anche da un secondo punto di vista. Non solo il documento afferma che «analysis and solutions are rooted in local ownership»[45] e che in ragione di ciò il nuovo approccio si basa su una forte collaborazione con le comunità e le autorità locali e gli attori della società civile ma prosegue affermando che «it is primarily the national government’s responsibility to build resilience»[46].

Questo focus sullo Stato colpito dalla crisi quale primo responsabile nella gestione della stessa sarebbe emerso con forza anche nel Action Plan for Resilience in Crises Prone Countries pubblicato nello stesso 2013 [47]. Ribadendo che l’integrazione dell’azione umanitaria e della promozione allo sviluppo – viste ora nella loro complementarietà – all’interno delle strategia di sviluppo nazionale è una precondizione alla loro stessa sostenibilità, l’Action Plan ribadisce che una programmazione basata sulla nozione di resilienza si caratterizza per essere «strategically and jointly planned by the people affected or at risk, communities, governments (at the local, sub-national and national levels) and civil society»[48]. Emerge chiaramente come nel nuovo quadro concettuale rappresentato dal paradigma della resilienza la nozione di agency emersa negli anni ‘90 viene portata alle sue estreme conseguenze, non solo enfatizzando il ruolo dello Stato ma anche quello delle collettività e dei singoli nell’affrontare e resistere ad una crisi in modo quanto più autonomo possibile.

Secondo l’Action Plan, infatti, il nuovo approccio si focalizza sulle categorie più vulnerabili della popolazione non solo al fine di rafforzare le loro capacità di “assorbimento” e “gestione” ma anche e soprattutto al fine di trasformare la crisi in «an opportunity for transformation, in terms of adaptation to changing environments, empowerment, improved livelihoods and economic opportunities»[49]. Quest’idea può essere considerata come un’anticipazione della teorizzazione delle popolazioni rifugiate come una risorsa economica e dunque come un’opportunità di sviluppo per i Paesi ospitanti contenuta all’interno di pubblicazioni successive come ad esempio Lives in Dignity: from Aid-dependence to Self-reliance: Forced Displacement and Development[50]. Partendo dalla constatazione che cinque delle maggiori crisi di rifugiati (Siria, Afghanistan, Somalia, Sudan e Sud Sudan) sono di natura protratta, che i fenomeni di migrazione forzata durano oggi in media 25 anni per le popolazioni rifugiate e 10 per il 90% di quelle sfollate e che l’86% della popolazione rifugiata mondiale vive in “Lest Developed Countries” (LDC)[51], la Comunicazione afferma che la risposta umanitaria derivante non possa più esser basata sul modello «care and maintenance»[52]  ma debba piuttosto creare le opportunità e le condizioni necessarie affinché tanto le popolazioni rifugiate quanto le comunità d’accoglienza divengano resilienti e auto-sufficienti, in inglese self-reliant.

A questo scopo, sono due gli aspetti fondamentali messi in rilievo dalla comunicazione. In primo luogo, riprendendo la retorica e i contenuti del dibattito LRRD, si riafferma la necessità «[of] a strong humanitarian-development nexus»[53]. In secondo luogo, viene riaffermata l’importanza del coinvolgimento attivo dei governi ospitanti e delle autorità locali nella formulazione di una qualsiasi risposta alla crisi. Se da una parte è chiaro come la pubblicazione faccia propria la retorica del contiguum degli anni ’90, d’altra parte ciò che differisce rispetto a tale discorso è l’importanza accordata al secondo aspetto messo in evidenza dalla comunicazione, ossia la concettualizzazione delle popolazioni rifugiate come «individuals with skills and asset»[54] e opportunità di sviluppo per il Paese di accoglienza sino al momento di un ritorno volontario o di reinsediamento. I rifugiati sono in questo modo descritti come «potential workers, professionals, business people and development agents»[55] in grado di contribuire attivamente allo sviluppo del Paese a condizione, tuttavia, che essi siano effettivamente integrati all’interno del piano di sviluppo di quest’ultimo.

È in ciò che lo Stato colpito dalla crisi, il suo governo e le sue autorità giocano un ruolo di primaria importanza nella gestione della risposta umanitaria. Se da una parte, infatti, per poter essere resilienti e auto-sufficienti la Comunicazione riconosce la necessità per i rifugiati di avere accesso effettivo ai servizi di base, all’educazione, alla sanità, e soprattutto al mercato del lavoro locale, d’altra parte sottolinea il ruolo centrale del Paese ospitante che, integrando la risposta umanitaria all’interno delle esistenti strutture del welfare pubblico, avrebbe accresciuto e consolidato le proprie capacità sia di resistere alla crisi in corso, che di rispondere a possibili crisi future. In quest’ottica, dunque, l’accesso delle popolazioni rifugiate al sistema dei diritti sociali e civili è strumento fondamentale in grado di ridurre non solo la dipendenza dall’aiuto esterno attraverso in particolare l’autonomia e l’indipendenza economica, ma anche i rischi di tensioni sociali[56]. A questo fine, lungi dal creare sistemi paralleli e internazionalizzati di assistenza per i rifugiati, l’obiettivo è piuttosto quello di garantire che i governi e le autorità locali abbiano le capacità e le risorse necessarie alla fornitura di servizi (istruzione, sanità, servizi igienico-sanitari etc.) tanto alla popolazione d’accoglienza quanto a quella rifugiata[57].

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Interventi di cooperazione nello Sri Lanka

Tuttavia, la questione di primaria importanza che emerge dall’analisi di quest’approccio è relativa al modo in cui esso possa essere attuato ed implementato in Paesi e regioni già caratterizzati da alti tassi di disoccupazione, dalla carezza dei sistemi di welfare e servizi nazionali e dal rifiuto o dalla resistenza dello Stato coinvolto di includere la popolazione rifugiata all’interno del suo piano di sviluppo. Da quanto affermato sino ad ora, infatti, un approccio basato sulla resilienza si basa sull’intima collaborazione non solo tra attori umanitari e agenti dello sviluppo ma anche tra questi ultimi e le autorità locali, che restano le prime responsabili nel garantire la strutturazione di una risposta umanitaria focalizzata sulla resilienza dello Stato e delle comunità coinvolte e sull’autosufficienza dei rifugiati tramite la loro inclusione in seno alla fabbrica sociale del Paese d’accoglienza[58].

Nel momento in cui un tale approccio viene applicato in un contesto caratterizzato da grave crisi economica e finanziaria oltre che da tensioni sociali di lunga data, emerge in tutta evidenza come la sua applicazione possa in realtà costituire una questione molto sensibile per lo Stato colpito dalla crisi. Garantire l’autosufficienza delle popolazioni rifugiate, che in ultima analisi dovrebbe portare ad una riduzione della dipendenza dagli aiuti esterni e al rafforzamento delle capacità statali, significa, come abbiamo visto, facilitarne l’autosufficienza finanziaria tramite la garanzia dell’accesso al mercato del lavoro locale. Ciò significa prendere delle decisioni – come rilasciare la documentazione necessaria per lavorare e muoversi legalmente nel Paese d’accoglienza o anche aprire/non aprire dei campi rifugiati sul proprio territorio – che possono avere delle importanti conseguenze sul piano politico e sugli equilibri di potere del Paese[59].

È chiaro che dalla deresponsabilizzazione statale e da una rappresentazione vittimistica delle popolazioni coinvolte in una crisi che il paradigma classico portava con sé, con il paradigma della resilienza si è passati ad un’estrema responsabilizzazione sia degli Stati che delle popolazioni coinvolte. Una responsabilizzazione che – accompagnata da un progressivo ritiro dell’impegno internazionale nella formulazione e nella gestione della risposta alle crisi umanitarie – si esprime innanzitutto nell’appropriazione dell’organizzazione, del controllo e della gestione della risposta da parte degli attori locali. Lo spostamento dell’attenzione dagli attori internazionali (istituzioni il cui ruolo era legittimato e giustificato dal discorso eccezionale ed emergenziale dell’umanitarismo classico) a quelli nazionali è infatti presentato nell’odierno discorso umanitario come la soluzione più efficace ed efficiente per far fronte tanto alle esigenze immediate create dalla crisi quanto ai bisogni in termini di sviluppo sul lungo periodo.

Tuttavia, alla luce di quanto detto sin ora, restano aperti alcuni interrogativi: siamo sicuri questo approccio possa rappresentare il modo più efficace ed efficiente di alleviare la sofferenza umana e non il riflesso di una logica neo-liberale che tende a responsabilizzare eccessivamente le popolazioni colpite da uno shock in ragione dell’insostenibilità finanziaria dell’assistenza? In che modo un tale approccio può essere applicato ed implementato in un contesto in cui è assente una volontà politica tale da assumersi le responsabilità preconizzate nel dibattito teorico? In questo caso, quali sono le conseguenze e i rischi in particolare per la popolazione rifugiata? Può quest’ultima essere vista come una comunità resiliente, autonoma ed autosufficiente in un contesto di completa illegalità e marginalità?

 Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Note

[1] D. Hilhorst, Classical Humanitarianism and Resilience Humanitarianism: Making Sense of Two Brands of Humanitarian Action, Journal of International Humanitarian Action 2018
[2] Ibidem; C. Calhoun, A world of Emergencies: Fear, Intervention, and the Limits of Cosmopolitan Order, Canadian Review of Sociology and Anthropology, 41.4 (November 2004): 373-95
[3] J. Fearon, The Rise of Emergency Relief, in M. Barnett e T. G. Weiss, Humanitarianism in question. Politics Power, Ethics, Cap. 4, Cornell University Press, New York 2008, Cap.2. C. Calhoun, A world of Emergencies: Fear, Intervention, and the Limits of Cosmopolitan Order, Canadian Review of Sociology and Anthropology, 41.4 (November 2004): 373-95.
[4] Per i principi dell’azione umanitaria, per una loro critica e più in generale per un approfondimento dell’umanitarismo classico vedi: M. Barnett, Empire of humanity: A History of Humanitarianism, Cornell University Press, New York 2011; H. Slim, The Humanitarian Ethics. A guide to the Morality of Aid in War and Disaster, Oxford University Press, New York 2015; H. Slim, Relief Agencies and Moral Standing in War: Principles of Humanity, neutrality, Impartiality, and Solidarity, Development in Practice 7(4): 342-52, 1997; S. Gordon e A. Donnini, Romancing Principles and Human Rights: are Humanitarian Principles Salvageable?, International Review of the Red Cross 2016; M. Clarke e B. W. Parris, The humanitarian Principles: New Principles for a New Environment, The Center for humanitarian Leadership, Working Paper 001, 2019; M. Bradley, Protecting Civilians in War. The ICRC, UNHCR and their limitations in internal armed conflict, Oxford University Press, Oxford 2016
[5] H. Slim e M. Bradley, Principled Humanitarian Action & Ethical Tension in Multi-Mandated Organizations in Armed Conflict, World Vision 2013; K. Pérez de Armiño, La Vinculaciòn Ayuda Humanitaria-cooperaciòn al desarollo. Objetivos, puesta en pràctica y crìticas, Hegoa Instituto des Etudios Sobre Desarrollo y Cooperaciòn International, 2002
[6] Vedi gli interventi di D. Hilhorst in occasione della conferenza “Humanitarianism: Past Present and Future”, organizzata da Humanitarian and Conflict Response Institute, University of Manchester, tenutasi tra l’8 e il 10 novembre. Interventi: D. Hilhorst “Crisis and Normality”, M. Barnett. Disponibile al link seguente: https://www.youtube.com/watch?v=HcZT_I8VvHg&t=3475s; e in occasione della conferenza “Beyond the Traditional Humanitarian Aid Model”, organizzata dall’ Institute of Development Studies, tenutasi il 24 maggio 2018  alla University of Sussex, singolo intervento di D. Hilhorst, disponibile al link seguente: https://www.youtube.com/watch?v=eWwSwxo9L8o&t=219s
[7] M. Barnett e J. Snyder, The Grand Strategies of Humanitarianism, in M. Barnett e T. G. Weiss, Humanitarianism in Question. Politics, Power, Ethics, Cornell University Press, New York 2008, Cap.6: 147.
[8] D. Hilhorst, Arenas, in T. Allen, A. Macdonald, H. Radice, Humanitarianism: a Dictionary of Concepts, 2018: 35
[9] D. Hilhorst, Classical Humanitarianism and Resilience Humanitarianism: Making Sense of Two Brands of Humanitarian Action, Journal of International Humanitarian Action 2018t
[10] D. Hilhorst, Aid Society Relations in Humanitarian Crisis and Recovery, International Institute of Social Studies, 2016.
[11] M. Barnett, Empire of humanity: A History of Humanitarianism, Cornell University Press, New York 2011; D. Nascimento, One Step Forward, Two Steps Back? Humanitarian Challenges and Dilemmas in Crisis Settings, The Journal of Humanitarian Assistance, 2015;
[12]M. Barnett, Empire of humanity: A History of Humanitarianism, Cornell University Press, New York 2011
[13]M. Clarke e B. W. Parris, The humanitarian Principles: New Principles for a New Environment, The Center for humanitarian Leadership, Working Paper 001, 2019: 6.
[14] M. Duffield, Global Governance and the New Wars, Zed Book, New York 2001: 81.
[15]F. Terry, Condemned to Repeat?: The Paradox of Humanitarian Action,  Cornell University Press, New York 2002: 15.
[16] Commissione Europea, Communication from the Commission to the Council and the European Parliament on Linking Relief, Rehabilitation and Development (LRRD), Bruxelles 1996, disponibile al link seguente : http://aei.pitt.edu/3984/1/3984.pdf ; oltre a questa prima comunicazione della Commissione Europea, altra pietra miliare del dibattito Linking Relief, Rehabilitation and Development è la seconda Comunicazione della Commissione Europea in materia (2001), disponibile al link seguente: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=celex:52001DC0153; in proposito vedi anche M. Buchnan-Smith e S. Maxwell, Linking Relief and Development: an Introduction and an Overview, IDS Bulletin vol. 25 n.4, 1994
[17]K. Pérez de Armiño, La Vinculaciòn Ayuda Humanitaria-cooperaciòn al desarollo. Objetivos, puesta en pràctica y crìticas, Hegoa Instituto des Etudios Sobre Desarrollo y Cooperaciòn International, 2002; S. Naraghi Anderlini e J. El-Bushra, Conflict Prevention, Resolution and Reconstruction, Hunt Alternatives Fund and International Alert, 2004.
[18] S. Naraghi Anderlini e V. Stanski, Conflict Prevention, Resolution and Reconstruction, Hunt Alternatives Fund and International Alert, 2004:51.
[19] Ibidem
[20] I. Smillie, Relief and Development. The Strugle for Sinergies, Institute for International Studies, 1998; M. C. Ercolessi, L’aiuto umanitario e la cooperazione allo sviluppo, in V. Ianni, Verso una Nuova Visione dell’Aiuto, Progetto Solaria ANCI-DGCS/MAE, Roma 2004: 27-41
[21] Ibidem
[22] M. Bidder, Linking Relief and Development, a Conceptual Outline, UN Emergency Unit for Ethiopia, 1994.
[23]K. Kiddenbrock e M. Büttner, The Will To Bridge? European Commission and U.S. Approach to Linking, Rehabilitation and Development, in J. Steets e D. S Hamilton, Rising the Bar: Enouncing Transatlantic Governance of Disaster Relief and Preparedness, Cap.8, Global Public Policy Institute, disponibile al link seguente: http://www.disastergovernance.net/publications/research_volume/
[24]V. Ramet, Linking relief, rehabilitation and development: Towards more effective aid, Parlamento Europeo, Policy Briefing 491.435, 2012, disponibile al link seguente: https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/briefing_note/join/2012/491435/EXPO-DEVE_SP%282012%29491435_EN.pdf; K. Pérez de Armiño, La Vinculaciòn Ayuda Humanitaria-cooperaciòn al desarollo. Objetivos, puesta en pràctica y crìticas, Hegoa Instituto des Etudios Sobre Desarrollo y Cooperaciòn International, 2002.
[25] J. Macrae, Aiding Peace… and War: UNHCR, Returnee Reintegration, and Relief-Development Debate, Overseas Development Institute, Working Paper n.14, 1999
[26] I. Smillie, Relief and Development. The Strugle for Sinergies, Institute for International Studies, 1998:122.
[27]K. Pérez de Armiño, La Vinculaciòn Ayuda Humanitaria-cooperaciòn al desarollo. Objetivos, puesta en pràctica y crìticas, Hegoa Instituto des Etudios Sobre Desarrollo y Cooperaciòn International, 2002:13.
[28] D. Hilhorst, Classical Humanitarianism and Resilience Humanitarianism: Making Sense of Two Brands of Humanitarian Action, Journal of Humanitarian Action 2018: 5.
[29] D. Hilhorst, Arenas, in T. Allen, A. Macdonald, H. Radice, Humanitarianism: a Dictionary of Concepts, 2018: 35.
[30] I. Mosel e S. Levine, Remaking the Case for Linking Relief, Rehabilitation and Development. How LRRD Can Become a Practically Useful Concept for Assistance in Difficult Places, Overseas Development Institute, Humanitarian Policy Group, Londra 2014.
[31] Ibidem
[32] A. Wildavsky, Searching for Safety. Social Theory and Social Policy, Routledge Taylor & Francis Group, Londra 1988: 85.
[33] Hyogo Framework for Action 2005-2015: Building the Resilience of Nations and Communities to Disasters, disponibile al link seguente: https://www.unisdr.org/2005/wcdr/intergover/official-doc/L-docs/Hyogo-framework-for-action-english.pdf 
[34] Alla seconda priorità dell’Action Plan si legge “each State has the primary responsibility for its own sustainable development and for taking effective measures to reduce disaster risk, including for the protection of people on its territory, infrastructure and other national assets from the impact of disasters”, Hyogo Framework for Action 2005-2015: Building the Resilience of Nations and Communities to Disasters: 4.
[35] M. Hussain, Resilience: Meaningless Jargon or Development Solutions?, The Guardian 5 marzo 2013, disponibile al link seguente: https://www.theguardian.com/global-development-professionals-network/2013/mar/05/resilience-development-buzzwords
[36] UK International Department for International Development, Saving Lives, Preventing Suffering and Building Resilience. The UK  Government’s Humanitarian Policy, 2012, disponibile al link seguente:  https://assets.publishing.service.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/67579/HERR.pdf
[37]UK International Department for International Development, Humanitarian Emergency Response Review 2011: 4, disponibile al link seguente: https://assets.publishing.service.gov.uk/government/uploads/ system/uploads/attachment_data/file/67579/HERR.pdf 
[38] USAID, Building Resilience in Recurrent Crisis, USAID Policy and Program Guidance, 2012, disponibile al link seguente: https://www.usaid.gov/sites/default/files/documents/1870/USAIDResiliencePolicyGuidanceDocument.pdf 
[39] Ibidem: 5
[40] Ibidem: 5
[41] Sino alla Comunicazione Europea del 2012, infatti, il termine viene utilizzato solo una volta e fa riferimento alle politiche di DRR. Lo European Consensus on Humanitarian Aid del 2007 non fa alcun riferimento al termine resilienza e il termine viene usato una sola volta in riferimento alle politiche di Disaster Risk Reduction nella Joint Declarations on European Consensus on Humanitarian Aid del 2008, R. Anholt e G. Sinnati, Under the Guise of Resilience: the EU Approach to Migration and Forced Displacement in Jordan and Lebanon, Contemporary Security Policy, 2019.
[42] Commissione Europea, Communication from the Commission to the European Parliament and the Council, The EU Approach to Resilience: Learning from Food Security Crises: 3, Bruxelles 2012,disponibile al link seguente: https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2012:0586:FIN:EN:PDF
[43] Ibidem: 5.
[44] Consiglio dell’Unione Europea, Council Conclusions on EU Approach to Resilience, Bruxelles, Maggio 2013: 1.
[45] Ibidem: .3
[46]Ibidem: 2
[47] Commissione Europea, Action Plan for Resilience in Crisis Prone Countries 2013-2020, Bruxelles 19 giugno 2013, disponibile al link seguente: https://ec.europa.eu/echo/files/policies/resilience/com_2013_227_ap_crisis_prone_countries_en.pdf  )
[48] Ibidem: 3 
[49]Ibidem: 3
[50] Anholt e G. Sinnati, Under the Guise of Resilience: the EU Approach to Migration and Forced Displacement in Jordan and Lebanon, Contemporary Security Policy, 2019
[51] Commissione Europea, Lives in Dignity: from Aid-dependence to Self-resilience, Communication from the Commission to the European Parliament, the Council, The European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions, Brussels 26 aprile 2016, disponibile al link seguente : https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=celex:52016DC0234
[52] Ibidem: 4
[53] Ibidem: 6
[54] Ibidem: 4
[55] Ibidem:14
[56] Ibidem; R. Anholt e G. Sinnati, Under the Guise of Resilience: the EU Approach to Migration and Forced Displacement in Jordan and Lebanon, Contemporary Security Policy, 2019.
[57] Commissione Europea, Lives in Dignity: from Aid-dependence to Self-resilience, Communication from the Commission to the European Parliament, the Council, The European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions, Brussels 26 aprile 2016.
[58] Filippo Grandi, Comprehensive Refugee Response Framework. https://www.unhcr.org/comprehensive-refugee-response-framework-crrf.html
[59]S. Bailey e V. Barbelet, Towards a Resilience Based Approach to the Syrian Crisis. A Critical Review of Vulnerability Criteria and Frameworks, UNDP, Overseas Development Institute, 2014

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Lisa Riccio, ha conseguito il titolo di Laurea in Lingue e Comunicazione, con focus sulle lingue inglese e araba, presso l’Università di Cagliari discutendo una tesi sul ruolo dei social network nella rivoluzione tunisina del 2011. Dopo aver vissuto per motivi di studio e lavoro in Marocco, Egitto, Regno Unito e Francia si è laureata in Relazioni e Istituzioni dell’Asia e dell’Africa con una tesi sui paradigmi dell’azione umanitaria e sulla gestione della crisi rifugiati in Libano. Attualmente svolge il Servizio Civile Universale con un progetto di Ritorno Volontario Assistito e reintegrazione in Marocco.

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