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Raffaello a Mazara del Vallo. L’enigma irrisolto dello “Spasimo di Sicilia”

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2021 @ 02:45 In Città,Letture | No Comments

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Lo Spasimo di Sicilia, chiesa dei Cappuccini, Mazara del Vallo

di Leo Di Simone

Cos’ha a che fare Raffaello Sanzio con Mazara del Vallo? Il “divino” pittore delle Logge Vaticane, delle stanze della Segnatura Apostolica, delle Madonne senza numero che ebbe come committenti papi potenti e famiglie di alto lignaggio che lo resero ricco e famoso nella sua pur breve vita? Qualcuno potrebbe dirmi che avrei almeno potuto mettere un punto interrogativo al titolo di questo mio breve saggio, perché della presenza di un’opera di Raffaello a Mazara del Vallo non se ne è mai sentito parlare. Semmai di Tommaso Sciacca, di Orazio Ferraro, Giuseppe Testa, Giuseppe Felice, Sebastiano Conca, Giuseppe Velasco – da non confondere col Velázquez – Domenico La Bruna, di questi pittori siciliani che hanno lasciato opere pregevoli a Mazara, di questi sì s’è sentito parlare, anche senza per questo avere l’esatta cognizione delle opere pervenuteci, delle epoche in cui hanno lavorato e dei luoghi in cui esse si custodiscono.

Ma di Raffaello si conosce solo il “mito” e tutt’al più la Madonna della Seggiola, abbondantemente riprodotta sino ai nostri giorni per scopi commerciali, insieme a quei due puttini dallo sguardo sognante, anch’essi riprodotti serialmente perché simpatici e vendibili, senza sapere magari che stanno alla base della grande tavola della Madonna Sistina che i tedeschi ci hanno sottratto [1] e che provocò una sorta di estasi metafisica in Martin Heidegger che vi individuò «l’essere nel suo disvelante celarsi» [2]: un’ipostasi iconica della sua filosofia. E non è poco!

Nel corso di cinque secoli parecchie migliaia di mazaresi hanno sicuramente visto, recandosi nella Chiesa dei Cappuccini, la grande “pala d’altare”, costituita da una imponente struttura lignea, opera tipica dei frati, incorniciante un grande dipinto che raffigura l’andata al Calvario di Gesù e la sua caduta sotto il peso del legno della croce. Ricordo che fino a una trentina d’anni fa, seguendo una lunga tradizione ora interrotta, i mazaresi si recavano, il giorno di Pasqua, in pellegrinaggio ai Cappuccini, a venerare le reliquie dei santi frati lì sepolti; anticamente lì c’era una cripta come quella ancora esistente ai Cappuccini di Palermo. Al centro della chiesa si esponeva una teca con tre teschi. La scritta sottostante era emblematica: «Noi eravamo come voi, voi sarete come noi. Se Cristo è risorto risorgeremo anche noi».

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Raffaello, Madonna Sistina, 1513-14, Gemaldegalerie, Dresda

Confesso che da ragazzo non prestai molta attenzione a quella tela. Mi incuteva un senso di timore, e contemporaneamente esercitava su di me un certo fascino inspiegabile. Era un quadro antico come tanti, come gli altri custoditi in quella chiesa. Né ricordo che nessuno mai mi disse che a quel quadro si attribuisse il nome di “Spasimo di Sicilia” né che facesse capo a Raffaello d’Urbino, né che con quel cliché iconografico ce ne fossero tanti altri sparsi in Europa. Fu solo più tardi, a causa dei miei studi, che ne compresi l’importanza e cominciai ad interessarmene. Neanche gli storici locali gli hanno mai dato molta enfasi; semplici citazioni didascaliche tutt’al più. A Mazara la celebrità artistica è Antonello Gagini, l’autore del gruppo scultoreo della nostra cattedrale e in misura minore il concittadino Tommaso Sciacca che è stato più celebre a Roma e nel Polesine che nella sua patria. E che nessuno sia profeta in patria è una verità evangelica.

Lo Spasimo di Sicilia è una delle opere più belle e significative dell’Urbinate, un typos dell’iconografia cristiana realizzato per la Sicilia che con essa non rimase esclusa dall’influenza delle opere di Raffaello su tutto il territorio italiano. Artista veramente italiano Raffaello, la cui esemplarità creerà una moda persistente nel tempo tardorinascimentale, una “maniera” pittorica da imitare che perciò prenderà poi il nome di “manierismo”, senza che i “manieristi” lo sapessero. L’anno scorso, a 500 anni dalla morte di Raffaello, a Palermo si è tenuta una straordinaria performance raffaellesca che ha, per così dire, restituito lo Spasimo alla sua città e al luogo per cui era stato creato. Una operazione resa possibile dai sistemi più sofisticati di cui dispone l’attuale tecnologia, in grado di riprodurre un’opera d’arte rendendola «più vera del vero» stando all’entusiastica espressione di Vittorio Sgarbi [3].

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Lo Spasimo riproduzione da Factum Foundation, con cornice marmorea originaria di Antonello Gagini

Sembra che in realtà l’opera, una perfetta riproduzione realizzata con appositi software 3D da Factum Foundation, la fondazione dell’inglese Adam Low, non consentirebbe all’occhio umano di distinguerla da quella ritenuta originale e conservata attualmente al Museo del Prado di Madrid. Sì, perché lo Spasimo, nato per Palermo, fu risucchiato nel centro dell’orbita della potente nazione spagnola che dominava in Sicilia. Al tempo era un fatto normale e abituale. È la legge della sudditanza. Il suo ritorno a Palermo e la sua ricollocazione nell’antica chiesa dello Spasimo sono stati un prodigio della tecnologia che ha reso l’opera «più vera del vero perché realizzata su tavola come la volle Raffaello» come ha affermato Sgarbi alludendo al fatto che l’originale fu trasposto su tela quando, per effetto delle spoliazioni napoleoniche, dalla Spagna fu portato a Parigi dove rimase dal 1813 al 1822 prima di rientrare nelle collezioni spagnole; un’operazione che indebolì e deteriorò le condizioni del dipinto, rimasto a lungo in restauro fino alla sua ricomparsa nel 2012 in occasione della mostra El último Rafael.

Un’opera della maturità del maestro, realizzata tra il 1516 e il 1517, qualche anno prima della sua morte prematura dunque, proprio per la chiesa monastica dello Spasimo di Palermo; con una storia rocambolesca alle spalle, dettagliatamente raccontata da Giorgio Vasari nelle sue Vite [4]. Fatto eclatante il naufragio nel mare di Genova della nave che la stava trasportando e il ritrovamento quasi prodigioso: «illesa e senza macchia o difetto alcuno, perciò che sino alla furia de’ venti e l’onde del mare ebbono rispetto alla bellezza di tale opera» annota il Vasari [5]. Seguì la difficile e costosa opera di restituzione da parte dei genovesi che volevano appropriarsene ma che dovettero desistere solo per l’intervento autorevole di Papa Leone X Medici, mecenate di Raffaello e nemico di Lutero.

Per Giorgio Vasari a Palermo il dipinto avrebbe eguagliato la fama dell’Etna e lì sarebbe stato ammirato e venerato fino a quando nel 1661 l’abate del Monastero di Santo Spirito – luogo nel quale, nel frattempo, il dipinto si era trasferito insieme ai monaci – non lo avrebbe donato, non si capisce se per amore della monarchia o per interesse personale, al sovrano spagnolo Filippo IV. Le sue traversie continuarono anche in Spagna: giunto all’Escorial di Madrid, lo Spasimo rischiò di bruciare in un incendio e continuò a girare di luogo in luogo tanto che la sua presenza si registra sincronicamente in luoghi differenti. Se ne erano già fatte delle copie in seguito al panico dell’incendio? Ci si voleva tutelare con ciò dal rischio della perdita dell’originale reputato “unico”? Non è difficile a credersi! Comincia così la storia degli “Spasimi”! [6]

In Sicilia lo Spasimo di Raffaello costituirà una sorta di febbre sacrale, di delirio emulativo, di contagio estetico, a partire dalle diverse riproduzioni già avviate sul continente da fanatici committenti che vollero avvalersi di quel formidabile schema iconografico per appagare la propria devozione religiosa, la loro più intima partecipazione al dolore “spasmodico” del cuore della Vergine Maria che assiste, impotente, al viaggio al Calvario di Gesù carico del legno della croce. Lo Spasimo sarà riprodotto in arazzi, incisioni, stampe, bassorilievi; tutti vorranno possederne in qualche modo una sorta di presenza vicaria e mistica. E da questo stesso tópos devozionale, proveniente dal Medioevo, nasce la storia rocambolesca della tavola dipinta da Raffaello per la chiesa dello Spasimo di Palermo in prima battuta. Questa chiesa, con l’annesso monastero di benedettini olivetani, nasce per adempiere la volontà testamentaria di una nobildonna, tale Eulalia Resolmini, seguace di quel filone devozionale che in Sicilia, per influsso spagnolo, venerava la “Madonna dello Spasimo” [7], ossia il cuore trafitto e addolorato di Maria da cui sfoceranno azioni cultuali e popolari autonome, quali sono le solennissime processioni dell’Addolorata in Spagna ancora ai nostri giorni e non del tutto scomparse in Sicilia.

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Palermo, Interno della chiesa di santa Maria dello Spasimo

La Spagna ha segnato fortemente la Sicilia con le sue espressioni religiose. Tradizioni che, stando agli studi specialistici del grande liturgista Josef Andreas Jungmann, provengono dall’area gallo-ispana che sin dal VII secolo, con san Ildefonso di Toledo, aveva privilegiato più una considerazione “carnale” e mortificante del cristianesimo, a partire dalla sofferenza patita dal Figlio di Dio, fino a mettere tra parentesi la dimensione gloriosa, gioiosa e liberante della Pasqua. In tale vita di “pietà” ebbe grande rilevanza il tema della Passione «che comincia ad apparire sempre più sensibilmente in primo piano anche nell’arte figurativa. Scene che fino ad allora non erano mai state rappresentate, ma che sono adatte a colpire il sentimento, ora divengono le preferite» [8].

Da qui nasce la costruzione della grande scena del nostro Spasimo che non è una invenzione di Raffaello. Lui semmai seppe interpretarla magistralmente, rivestendo lo spasmo della carne con i veli apollinei connaturati alla sua pittura emula della rinascenza ellenica, in quel Rinascimento che aveva guardato lontano per ripescare una bellezza che sembrava sepolta coi reperti stessi della statuaria greca; e il processo di acculturazione tra due concezioni, due forme, due idee creò il capolavoro.

La storia dell’arte non è solo storia degli oggetti ma di idee primariamente. Per la forma del soggetto religioso Raffaello rimase in Europa, nella grande area culturale dell’impero asburgico di Carlo V, tra Spagna e Germania dove la devozione cristiana aveva creato le sue icone di tristezza, buie come poco più avanti i sermoni di Lutero. Basti pensare alla truculenta Crocifissione di Matthias Grünewald, contemporaneo di Raffaello. In fondo non si può non concordare con Jaques Le Goff che legge il Rinascimento come un’importante corrente spirituale-culturale che fluisce all’interno del tardo Medioevo, per evidenziare la crisi profonda in cui si trovò il Medioevo a contatto col nuovo che avanzava. È l’imbarazzo delle grandi epoche di transizione, come la nostra. La sua proposta storica è pour un long Moyen-Age:

«Propongo di ridurre questa cesura alle giuste proporzioni; lungi dal segnare la fine del Medioevo, il rinascimento – i rinascimenti – è un fenomeno caratteristico di un lungo periodo medievale, di un Medioevo sempre alla ricerca di un’autorità del passato, di un’età dell’oro all’indietro. Non soltanto il “grande” rinascimento non possiede un’origine cronologica relativamente precisa – essa in Europa oscilla fra tre se non quattro secoli – ma esso è anche investito da numerosi importanti fenomeni storici» [9].

Tra questi ci limitiamo a ricordare la caduta di Costantinopoli in mano ai turchi, con tutti i timori e le paure provocati; l’assolutismo di papi come Giulio II e Leone X emuli del teocratico Innocenzo III, sotto i quali gravitarono artisti di corte come Bramente, Michelangelo e Raffaello; per non dire del fallimento della riforma della Chiesa cattolica da cui si originò la riforma protestante. L’arte registrò questi fenomeni omogeneizzandoli a suo modo, servendo sia la devozione che la smania carnascialesca delle corti, comprese le papali. Raffaello per lo Spasimo si ispirò ad Albert Dürer, anche lui suo contemporaneo, le cui incisioni xilografiche diventarono celebri e circolarono in tutta Europa. Nel 1497 questi cominciò a lavorare ad un ciclo della Passione di Cristo che lo impegnerà per tutta la vita, e il frutto più bello di questo lavoro sarà il quadro di Cristo che porta la croce, anzi Cristo che cade sotto la croce. Una xilografia che contiene tutti gli elementi, paesaggistici e posturali dei protagonisti che troviamo nello Spasimo di Sicilia del nostro Raffaello. Dürer poi seguì Lutero, e gli stessi temi e stilemi artistici furono presenti sia nel cattolicesimo che nella riforma protestante, con artisti liminali come Lucas Cranach il Vecchio che fu pittore di Lutero senza sapere di essere protestante [10].

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Albrecht Durer, La grande Passione, salita al Calvario, xilografia

L’arte in genere, anche la più grande, rende giustizia al detto del Qohèlet: nihil sub sole novum. È fatta di citazioni, di accostamenti, di ricostruzioni, di svisature, di reinterpretazioni; come un libro che è sempre fatto di libri, o la musica che usa solo dodici note… e dalle citazioni nascono nuovi capolavori come le trenta Variazioni Goldberg di Bach o le trentatré Variazioni su un valzer di Anton Diabelli di Beethoven.

Non mi sono dimenticato del tema di questo mio saggio, né ne sto uscendo fuori non riuscendo a centrarlo. Sto guardando ciò che gli sta intorno, il Sitz im Leben direbbero i tedeschi. Sto semplicemente fornendo elementi culturali utili a comprendere come Raffaello, in qualche modo, sia finito a Mazara del Vallo. C’è potuto arrivare come ci sono arrivati i Gagini, i Mancini, i Berrettaro, e qui mi sto riferendo a “tribù” di scultori noti che hanno inondato il nostro territorio con una selva di sculture mirabili che costituiscono l’orgoglio della Sicilia. Questo profluvio di arte sublime lo si spiega con altri fattori culturali. Anzitutto la crisi finanziaria provocata dalla dissennata amministrazione di Alfonso il Magnanimo che morendo, nel 1458, lasciò i possedimenti spagnoli in un grave stato di prostrazione economica. In Sicilia si assistette al fenomeno dell’immigrazione di fiamminghi e spagnoli, ma anche di toscani, genovesi e lombardi che operarono nel campo del commercio, della finanza ed anche dell’arte. Si creò una nuova struttura di committenze artistiche che unitamente ad una nobiltà autoctona ancora arroccata nei suoi privilegi feudali permise alle “botteghe degli artisti” di assicurarsi da vivere ed anche agiatamente.

Ricordiamo che simultaneamente alla commissione della tavola dello Spasimo a Raffaello, si incaricò Antonello Gagini di scolpire una sontuosa cornice marmorea che rendesse giustizia alla tavola dipinta. Anche questa cornice è stata pazientemente ricostruita dopo la sua svendita e il suo smembramento, e ha fatto la sua comparsa nella performance dell’anno scorso reincorniciando lo Spasimo riprodotto tecnologicamente [11]. Antonello Gagini era allora impegnato nella ciclopica impresa della grande Tribuna marmorea della Cattedrale di Palermo, iniziata nel 1510 e che lo impegnerà fino alla fine della sua vita nel 1536. Raffaello, dal suo canto, era impegnato nella non meno faraonica impresa degli affreschi del palazzo pontificio. Doveva, «seguitare l’ordine che egli aveva cominciato delle camere del papa e delle sale […] e sopperiva con tutti quelli aiuti migliori che egli più poteva ad un peso così fatto» annota il Vasari [12].

Come per i marmi, anche le pitture non potevano essere realizzate senza “aiuti di bottega”. Le botteghe dei grandi artisti producevano anche arte seriale. Al maestro competeva la realizzazione del disegno, dei cartoni, al resto provvedevano alunni provetti e altri artisti di supporto, salvo poi il ritocco finale di volti, mani e pochi altri dettagli sia di statue che di dipinti. Noi adesso attribuiamo in toto a questi grandi artisti opere che materialmente non avrebbero mai potuto realizzare neanche in dieci vite. Michelangelo, che era un solitario, del megaprogetto della tomba di papa Giulio II riuscì a eseguire solo il Mosè. Come ho già spiegato altrove [13] Antonello Gagini riuscì forse a mettere mano soltanto al volto del Cristo trasfigurato della Cattedrale di Mazara. Il vescovo Giovanni Omodei, che veniva da Palermo, e dunque lo aveva lì incontrato, gli commissionò la Trasfigurazione nel 1535 e l’anno appresso Antonello morì senza aver realizzato la Tribuna palermitana che sarà portata a termine dalla sua “bottega” solo nel 1574. Non sono pochi gli storici dell’arte che hanno pensato e pensano che anche lo Spasimo sia opera di bottega con qualche ritocco del Maestro.

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Spasimo, Agostino Musi, stampa a bulino, 1517

Per tutto il Cinquecento ed oltre lo Spasimo di Raffaello fu il cimento e il chiodo fisso di pittori e incisori, di suoi discepoli che continuarono a riprodurre l’opera con le dovute varianti e di incisori e tipografi che diffusero l’opera su carta stampata. Cominciò Agostino Musi che produsse ben due edizioni di stampa a bulino nel 1517 e nel 1519. Due edizioni così ravvicinate fanno pensare ad un veloce esaurimento della prima tiratura, quindi ad una notevole diffusione dell’opera. Nella cultura artistica del Cinquecento la stampa ha avuto un grande ruolo. Ha raccorciato le distanze tra luoghi e maniere, tra scuole ed artisti che nei diversi punti dell’Europa del tempo hanno ricevuto stimoli nuovi e conosciuto nuove tendenze espressive. L’arte è anche mescolamento e cresce per processi di acculturazione. La stampa, inoltre, diede molto risalto al disegno che nella concezione rinascimentale costituì la genesi e la struttura stessa dell’opera d’arte, la sua causa formale ed intellettuale; ha costituito il materiale di ricerca e di esercitazione nelle botteghe e ha fornito gli elementi per nuove e sempre più ricercate sintesi compositive che hanno animato la pratica manieristica.

Al disegno autografo dello Spasimo di Raffaello è seguito sicuramente l’intervento di Giulio Romano, suo braccio destro all’interno dell’affollata bottega. Esiste un corpus di dipinti e disegni di discussa attribuzione tra lui e Raffaello, e in tante altre opere del Maestro la critica ha riconosciuto la mano di Giulio Romano, specie nei particolari di ambientazione. Anche Giulio sarà un grande della pittura e dell’architettura e darà il meglio di sé alla corte dei Gonzaga a Mantova. Raffaello era dunque circondato da allievi che avevano metabolizzato appieno gli insegnamenti e la tecnica del maestro. L’opera risultante era dunque di pregio, sotto ogni aspetto, e stilisticamente unitaria.

Ci fu un altro allievo di Raffaello che dopo la sua morte si trasferì in Sicilia, a Messina: Polidoro da Caravaggio. Il Vasari s’è sentito in dovere di dedicargli lusinghiere pagine nelle Vite [14]. Dopo la morte del Maestro la bottega era stata ereditata e diretta da Giulio Romano, ma nel 1527 i lanzichenecchi di Carlo V misero a ferro e a fuoco Roma. Gli artisti di Raffaello fuggirono e si dispersero, cercando fortuna altrove. Polidoro approdò in Sicilia e con lui comincia la storia delle riproduzioni spurie dello Spasimo in terra sicula. Con non pochi buchi neri che ne rendono piuttosto caotica la ricostruzione. Perché, in definitiva, le riproduzioni dello Spasimo possono ridursi a due grandi filoni, uno dei quali iniziato proprio da Polidoro. Il mondo adesso ha come modello lo Spasimo del Prado, quello che si ritiene donato dai monaci palermitani al re di Spagna, ma questo modello è subito messo in dubbio se si tiene conto della descrizione dettagliata del Vasari che sembra invece avere sott’occhio un altro Spasimo che, originato da Polidoro, ha prodotto tutta una serie di varianti. Dice il Vasari descrivendo formalmente la tavola:

«Fece poi Raffaello per il monasterio di Palermo, detto Santa Maria dello Spasmo dei frati di Monte Oliveto, una tavola di un Cristo che porta la croce, la quale è tenuta cosa meravigliosa, conoscendosi in quella empietà de’ crocifissori che lo conducono alla morte al monte Calvario con grandissima rabbia, dove Cristo appassionatissimo nel tormento dello avvicinarsi della morte, cascato in terra per il peso del legno della croce e bagnato di sudore e di sangue, si volta verso le Marie che piangono dirottissimamente. Evvi fra loro Veronica che stende le braccia porgendogli un panno, con un affetto di carità grandissima. Oltre che l’opera è piena di armati a cavallo et a piede, i quali sboccano fuora dalla porta di Gierusalemme con gli stendardi della giustizia in mano, in attitudini varie e bellissime» [15].

La discrepanza che salta subito agli occhi risiede nella menzione e nella descrizione della Veronica «che stende le braccia porgendogli un panno, con un affetto di carità grandissima». Questa figura, almeno in questa postura, è completamente assente nello Spasimo del Prado che dovrebbe essere prototipo di tutti gli altri. Questo ha fatto pensare che Raffaello ne avesse realizzato, inizialmente, un diverso esemplare poi copiato da allievi. Io comunque non vedo in Polidoro segni di autenticità originaria, anche perché, ed è un fatto evidentissimo, il suo Spasimo è sostanziato da stilemi fiamminghi sicuramente assorbiti nella città dell’altro grande Antonello. Ma Polidoro introduce nella scena la Veronica, per cui viene da pensare che il Vasari non vide mai l’opera di Raffaello e neanche quella di Polidoro data la posizione diversa che la Veronica assume nel suo quadro, non con le braccia stese verso Cristo ma collocata alle sue spalle. Vasari avrà visionato qualche stampa o qualche altra opera che intanto aveva rimodulato la postura della Veronica, e Polidoro può aver riproposto, alla sua “maniera”, un bozzetto o un quadro di Raffaello poi scomparso. Restando nell’ambito di queste ed altre innumerevoli congetture che per brevità non cito, qualcuno ha pensato che lo Spasmo del Prado non sia l’originale e che l’originale avesse uno schema iconografico contenente la Veronica come la descrive con sicurezza il Vasari e come la dipinge Polidoro.

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Polidoro da Caravaggio, Andata al Calvario, 1534

Personalmente penso che possano essere altri i motivi che invalidano l’autenticità dello Spasimo di Madrid; ma penso anche che il suo schema iconografico sia coerente con la genialità di Raffaello. A ben vedere la Veronica c’è nella tavola raffaellesca, ma è presente in maniera discreta, criptica, ed è indicata da un particolare su cui nessuno, almeno tra tutti gli autori che ho letto, ha mai soffermato la sua attenzione. Dimenticarsi della Veronica sarebbe stato un grave errore d’omissione; nell’iconografia della Passione questa donna ha sempre avuto un ruolo simbolico molto importante sin dal Medioevo. Raffaello l’ha vista nell’incisione del Dürer, col velo in mano e ne ha anche copiato la postura. Pur trattandosi di figura apocrifa è celebre per quel velo di bisso su cui si sarebbe impresso il volto di Cristo asciugandolo, realizzando così la sua “vera icona” – da cui il nome “veronica” – non fatta da mano d’uomo.

Nella scena dello Spasimo c’è una sola donna che ha a che fare con un velo, ed è quella in basso a destra, in ginocchio, quasi accovacciata sui talloni, che con indice e pollice sta per sollevare il velo dal capo di Maria, per usarlo, in mancanza di altro velo, e compiere così il rito pietoso della tersione del volto e restituire alla madre l’immagine del figlio. Del figlio che ha preso la sua immagine d’uomo dalla carne della madre. Il velo nella simbologia cristiana è anche simbolo nuziale dello Spirito che ammanta come ammantò Maria facendole concepire il Verbo sine semine come canta una antifona liturgica.

La Veronica sta indicando in Maria il luogo del disvelamento, della ri-velazione, dell’ἀλήθεια. Ri-velazione come togliere il velo e rimettere il velo: il «disvelante celarsi» di Heidegger. Un significato simbolico di alta pregnanza, come vedremo più avanti. Sono, queste, sottigliezze da teologi raffinati, ma non si pensi che i grandi artisti che lavoravano in Vaticano si inventassero di sana pianta tutto ciò che dipingevano o scolpivano. Nella Sistina, nelle Logge o nelle Stanze della Segnatura si sono dipinti soggetti talmente complicati e talmente elaborati che né Michelangelo né Raffaello avrebbero potuto escogitarli. C’era sicuramente un teologo suggeritore in quegli anni di febbrile lavoro iconografico in Vaticano. Gli storici dell’arte lo hanno individuato, con beneficio d’inventario, nel monaco agostiniano Egidio da Viterbo [16], amico di Pico della Mirandola e di Marsilio Ficino. Uomo di erudizione sconfinata in campo filosofico, teologico e biblico, oltre che di santa vita, il che per il tempo non era poco; creato cardinale propugnò la necessità di riformare la Chiesa dopo lo scisma luterano.

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Raffaello, Spasimo di Sicilia, La Veronica, particolare, 1517, Museo del Prado, Madrid

Ora, dato per coerente lo schema iconografico che abbiamo esaminato, con la postura di questa suggestiva e criptica Veronica, si può fare un breve giro d’orizzonte sui dipinti più significativi che si attengono a tale modulo per capire se ci sono fondati motivi per dubitare se lo Spasimo del Prado sia l’originale o meno [17]. Già in origine, a partire dal naufragio, si avverte una certa confusione di “copie autentiche” che non rendono la questione facilmente districabile. Una situazione simile a quella narrata nella novella dei “tre anelli” raccontata dal Boccaccio nel Decamerone [18]: Un padre aveva tre figli e possedeva un anello con una pietra preziosa che era la più bella al mondo. Ciascuno dei tre figli supplicava il padre affinché, morendo, lasciasse questo anello a lui solo. Il padre allora si rivolse a un abile orafo e gli commissionò due anelli uguali a quello in suo possesso, mettendo in ciascuno una pietra simile a quella incastonata nell’originale. L’orafo fabbricò gli anelli in modo tale che solo il proprietario sapeva quale fosse l’originale. Il padre quindi consegnò un anello a ciascuno dei tre figli, separatamente e in gran segreto, in modo tale che ognuno era convinto di aver ricevuto l’anello originale in esclusiva. Solo il padre era al corrente di quale fosse l’anello archetipo, di cui gli altri due erano copie. Ciò vale anche per le copie dello Spasimo che hanno una somiglianza stretta con l’esemplare del Prado e la cui differenziazione è costituita unicamente dalle misure che variano da esemplare a esemplare. Alcuni sono stati allargati o decurtati, per adeguarli alle cornici, e non ce ne sono due di identica misura. Quali fossero le misure originarie della tavola non ci è dato sapere [19].

La presenza di esemplari dello Spasimo a Genova e nel savonese ingenera subito il sospetto che chi in Liguria si occupò di quest’opera, prima di restituirla, ebbe tutto il tempo per farne copie esemplari. A Genova una copia risultava registrata nell’inventario settecentesco della collezione di Palazzo Fosca e datata al 1526. A Palermo come facevano a sapere se ciò che i genovesi avevano restituito era veramente l’originale? La tavola non l’avevano mai vista. Dovettero fidarsi. Una sostituzione in partenza renderebbe lo Spasimo del Prado “copia di una copia”; e abbiamo già detto del sospetto che i monaci palermitani rifilarono al re una copia credibile, come gli anelli della novella boccaccesca. In Spagna la ricognizione di un originale è allo stato attuale molto difficile. Intanto una copia era già stata inviata nel 1578 a Filippo II da don Juan de Cardona, capitano generale delle galee siciliane, come captatio benevolentiae. Altra copia molto bella e attendibile è quella commissionata nel 1674 dal re di Spagna a Juan Carreno Miranda, discepolo di Velázquez che mettendo tra parentesi il proprio stile seguì fedelmente la colorazione e il disegno dello Spasimo del Prado, mostrando la possibilità e la capacità di eseguire una copia inappuntabile e degna dell’originale. Si discute molto, infine, se la copia razziata dall’esercito napoleonico e portata a Parigi fosse l’originale o meno e si continua facendo congetture senza poter approdare a una conclusione.

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Juan Carreno Miranda, Copia dello Spasimo, 1674

In Sicilia la situazione non è meno caotica. Anche qui ci sono parecchi buchi neri nella storia che documenta le numerose riproduzioni pittoriche dello Spasimo; alcune pedestri e da non tenere in nessuna considerazione; alcune non banali, sorta di variazioni su tema sulla scorta di Polidoro da Caravaggio; altre invece, poche in verità, particolarmente belle, tanto che nell’assenza di un originale certificato possono assumere esse stesse il ruolo di originale. A mia esperienza una delle repliche più fedeli dello Spasimo di Raffaello esistenti in Sicilia, sia in termini di formato, di disegno e di resa pittorica è certamente la tavola eseguita dal pittore cremonese Giovanni Paolo Fonduli (o Fondulli), su commissione di don Carlo d’Aragona e Tagliavia per la chiesa di San Domenico a Castelvetrano. Dico a mia esperienza perché l’ho custodita negli anni in cui sono stato parroco a Castelvetrano e ho poi potuto assistere alla sua ricollocazione nella chiesa di san Domenico che rientrava nelle mie pertinenze. La tavola comparve a Castelvetrano nel 1574 e testimonia la fecondità dei rapporti che intercorrevano tra la Sicilia e la Lombardia, ambedue facenti parte dei domini spagnoli in Italia. Don Carlo infatti fu anche governatore di Milano oltre che Ammiraglio e gran Connestabile del Regno dal 1566. Fu inoltre anche Presidente del Regno di Sicilia per due mandati [20] ed era a Palermo con tale ruolo quando ci fu la solenne traslazione dello Spasimo nel 1573:

«L’Arcivescovo di Palermo Giacomo Lomellino di Rodi, unitamente al Capitolo e Clero, trasportò la famosa tavola di Raffaello dallo Spasimo a S. Spirito. Detta insigne pittura fu collocata sull’altare maggiore che venne decentemente adornato colli marmi stessi di come era situato allo Spasimo; collocandovi li sei mezzi busti di Profeti ne’ due pilastroni accanto. Così rammenta Gioacchino di Marzo» [21].

Giacomo Lomellino del Campo da Rodi, padre sinodale al Concilio di Trento, era stato vescovo di Mazara fino al 1571 e poi traslato a Palermo. Una vecchia conoscenza del principe dunque che da quell’evento cittadino avrà preso visione dello Spasimo facendoselo subito riprodurre dal Fonduli per portarselo a Castelvetrano, dove giungerà appena l’anno dopo.

Il Fonduli fu invitato a lavorare in Sicilia dal viceré Francesco Ferdinando d’Avolos, marchese di Pescara e rimase attivo nell’Isola dal 1568 al 1600. La bellezza e la fedeltà della copia del Fonduli testimoniano il fatto che il pittore venne necessariamente in contatto con una copia dello Spasimo esemplare; non sappiamo se in Lombardia o in Sicilia. La tavola adesso è tornata ad occupare il suo posto centrale nella chiesa di san Domenico che gli Aragona Tagliavia avevano eretto per destinarla a mausoleo di famiglia. Questa copia fedele del Fonduli fu certamente conosciuta da Orazio Ferraro da Giuliana, membro della famosa famiglia-bottega che lavorò ai celebri stucchi della chiesa di san Domenico. Orazio nel 1604 realizzò un dipinto analogo per il monastero benedettino mazarese di Santa Veneranda che oggi si conserva nel palazzo vescovile. La scena dello Spasimo non può dirsi eccelsa, anche se di ottima fattura. È già un’opera di maniera ed anche di devozione, in quanto contornata da formelle che raffigurano le scene della via crucis.

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Giovan Paolo Fonduli, Spasimo di Raffaello, copia, Chiesa di San Domenico, Castelvetrano, 1574

Veniamo ora allo Spasimo che costituisce l’oggetto di questo mio saggio collocato nella chiesa dei Cappuccini di Mazara del Vallo e ora denominata Parrocchia Cristo Re in san Martino. Opera quanto mai trascurata nel novero degli “Spasimi” e dunque non tenuta in considerazione nel catalogo delle copie candidate all’originalità, ad essere cioè, in maniera presunta ma con molte chances, della mano di Raffaello d’Urbino. Dopo aver tratteggiato la situazione logistica delle “copie d’autore” attualmente credibili, dopo aver sostenuto il ragionevole dubbio che la tela del Prado possa non essere l’originale di Raffaello, perché, mi sono chiesto, non inserire nella lista dei candidati anche lo Spasimo mazarese? A mio modesto giudizio – ma potrebbe essere un giudizio di parte, lo confesso – la tela dei Cappuccini di Mazara ha tutti i requisiti estetici per poter gareggiare con opere decisamente più bruttine per ottenere il crisma dell’autenticità. Certamente lo Spasimo mazarese versa in non buone condizioni di salute, ma dati i suoi quasi cinque secoli di vita è ancora capace di mostrare bellezza e reca tutti i tratti della delicatezza apollinea di cui era capace il maestro urbinate. Manca sicuramente dei colori smaglianti che fregiano lo Spasimo di Madrid e la tavola del Fonduli, ma ci ricordiamo dei colori della Cappella Sistina prima dei restauri? Nessuno avrebbe mai creduto che sotto quei toni cupi e austeri si celassero le tinte forti che Michelangelo aveva voluto. Anche lì, come qui, cinque secoli di polvere, di fumo di candele e di incensi, oltre gli agenti patogeni della tela e del legno dell’ancona e del telaio hanno intristito tinte e forme mortificandone il fascino. Cosa si cela sotto lo strato di sporco che riveste quest’opera? Adesso che abbiamo tirato in ballo lo Spasimo mazarese dovremmo cercare di capire come questo ulteriore ragguardevole esemplare sia potuto giungere in città, o almeno sul territorio di questa antica Diocesi. Si possono mettere in parallelo alcune date e approntare delle ipotesi di lavoro.

La grande macchina lignea, o ancona, o pala che incornicia il nostro anonimo Spasimo è sicuramente d’impronta seicentesca, di quel protobarocco sobrio se non altro in ragione del fatto che tale opera artigianale fu realizzata dagli stessi frati cappuccini, secondo una loro tradizione che ne ha propagato il modello in tutte le loro chiese. Non marmi, non stucchi, non ori e decori ma semplice legno d’abete verniciato a segno della loro povertà, secondo il loro motto: Nisi satis memento paupertatis! I Cappuccini, come ramo dell’Ordine francescano, nascono nel generale clima controriformistico sorto dopo il Concilio di Trento. Alcuni ordini religiosi esistenti vollero ritornare al clima delle origini per contribuire alla riforma della chiesa cattolica. Basti ricordare la riforma del Carmelo ad opera di santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce.

I Cappuccini vollero ritornare alla sobrietà di vita e alla povertà dettate dalla regola di san Francesco seguendo una via più contemplativa di solitudine, mortificazione e penitenza. Seguirono in questo quel filone penitenziale che ho descritto più sopra come tema culturale e religioso del Cinquecento. Fondati intorno al 1525 da fra Matteo da Bascio si diffusero rapidamente in tutta Italia e poi oltre. Sbarcati a Messina nel 1533 vi fondarono il primo convento siciliano; a Mazara si insediarono nel dicembre del 1584 per volontà del vescovo don Bernardo Gasch, spagnolo di Toledo, che cedette loro l’antica chiesetta normanna di san Martino, fuori le mura ed in aperta campagna, per assecondare il loro desiderio di solitudine e di povertà. Il loro convento fu intitolato non a caso al “Monte Calvario” [22].

La fondazione del convento è dunque successiva di dieci anni alla collocazione dello Spasimo del Fonduli a Castelvetrano e si può ragionevolmente ritenere che l’ampliamento e ristrutturazione della chiesa di san Martino con la relativa costruzione di un sobrio convento richiesero alcuni anni. Si arriva così alla fine del Cinquecento o agli inizi del Seicento, data che sembra congrua per giustificare lo stile della macchina lignea che accolse lo Spasimo proveniente non si sa da dove. Può darsi che la tela fosse già nella disponibilità dei frati, per via di quel fra Alfio da Palermo che tenne la predica nella cattedrale di Mazara prima del loro insediamento in san Martino [23]; oppure che sia giunta successivamente provocando la costruzione dell’ancona lignea; nell’uno o nell’altro caso nulla cambia circa l’origine della tela che collochiamo tra fine Cinquecento e inizi del Seicento, salvo prova contraria emergente da un restauro che potrebbe far emergere una firma e una data [24]. Credo ci siano due vie che possano condurre alla paternità della committenza della grande tela. Quella del Vescovo di Mazara o quella di Giovanni III Tagliavia Aragona e Pignatelli principe di Castelvetrano.

Don Bernardo Gasch non era un ecclesiastico comune. Toledano di origine era stato lettore nella celebre università di Salamanca, inquisitore del regno di Catalogna e poi in Sicilia. Filippo II lo nominò vescovo dell’importante sede di Mazara nel 1578 e papa Gregorio XIII lo consacrò a Roma l’anno successivo [25]. Era stato un uomo di corte e di mondo, con vaste frequentazioni in virtù dei suoi incarichi reali. Avrà potuto incrociare alla corte di Madrid la copia dello Spasimo inviata nel 1578 a Filippo II da don Juan de Cardona, come abbiamo detto più sopra, o altre sia in Spagna che in Sicilia durante i suoi viaggi da inquisitore. Dovette comunque essere un amante dell’arte se dopo il suo insediamento a Mazara fece giungere dalla Spagna il gruppo scultoreo che fu posto nel frontone del vecchio campanile della cattedrale e che rappresenta san Giacomo Matamoros, o di Compostela, icona mitica della Spagna cattolica; gruppo scultoreo ora collocato sulla porta della cattedrale e che tutti hanno ritenuto o ritengono essere il granconte Ruggero che atterra il saraceno. Fu il vescovo Gasch ad accompagnare i Cappuccini in solenne processione con clero e popolo dalla Cattedrale alla chiesa di san Martino dove sarebbe sorto il convento del Monte Calvario [26]. Sarebbe rientrata nello spirito di munificenza del vescovo la donazione di un’opera d’arte consona al titolo del nuovo convento, per la maggior gloria di Dio e per il maggior decoro della chiesa conventuale.

Ricco di munificenza nei confronti dei Cappuccini fu anche il principe di Castelvetrano Giovanni III. I Cappuccini erano giunti a Castelvetrano nel 1546, sotto il patrocinio del primo principe Carlo che costruì per loro ex novo un convento fuori città, su terreno di sua proprietà. Il nipote Giovanni, anche lui Grande di Spagna, fu talmente legato ai cappuccini che morendo nel 1624 dispose di essere sepolto con un loro logoro abito in una tomba della loro chiesa e senza nessun fasto [27]. Tra il convento di Castelvetrano e quello di Mazara c’era un legame spirituale costituito dal Servo di Dio fra Pietro La Rocca, Cappuccino mazarese della famiglia degli Emmanuelli, morto nel 1550 in fama di santità e sepolto nella chiesa del convento di Castelvetrano [28]. Non è impensabile che il munifico principe fornisse il convento mazarese, anche per onorare fra Pietro La Rocca, di una copia dello Spasimo tratta dalla tavola del Fonduli, chiedendone la realizzazione magari a Orazio Ferraro allora attivo a Castelvetrano.

Queste committenze non sono dimostrabili e restano ipotetiche. Ciò che invece si può fare è mettere in sinossi la tela del Prado, la tavola del Fonduli e lo Spasimo mazarese. Le somiglianze sono innegabili; nonostante evidenti varianti nelle cromie, delle tinte delle vesti e di altri dettagli secondari, i tre dipinti seguono una identica struttura costruttiva dove i personaggi vengono inseriti con identiche posture e proporzioni. Il dipinto mazarese, su tela, a differenza degli altri due non è mai stato restaurato. Cinque secoli di polvere, fumo di candele e di incensi lo hanno scurito notevolmente. La pellicola pittorica a causa di vernici foto-ossidate che sono state applicate nel tempo si presenta ingiallita e ricoperta da depositi superficiali di diversa natura che impediscono la lettura globale del dipinto. È possibile che i volti di alcune figure siano stati ritoccati nel tempo maldestramente, mentre il volto di Maria e di Gesù conservano una elegante bellezza tutta raffaellesca. Né è più visibile, nella parte inferiore della tela, quel mistico laghetto formato dalle lacrime di Maria di cui parlò il poeta messinese coevo Scipione Herrico in un suo madrigale [29] contemplando l’opera di Raffaello:

«Oh con qual nobil arte
Le lagrime formò diffuse e sparte
Il divin Raffaello
De la mesta Maria far quasi un lago».

Nella tela del Prado si vede bene il velo d’acqua trasparente che si estende dalle ginocchia di Maria ai piedi dell’energumeno di spalle che cerca di scavalcarlo per non bagnarsi. Nella simbolica teologica di Egidio da Viterbo è il peccato che teme l’acqua della grazia, l’ostinata irredenzione del male.

Questo dipinto, pensato per il culto, nato dalla devozione di un secolo a noi lontano, merita di essere tenuto in vita e in buona salute, non solo per il tema e i rimandi storici e semiotici che lo coinvolgono, ma per il patrimonio culturale di ampio raggio che gli sta dietro. Quando osserviamo un’opera d’arte non stiamo mai solo davanti ad essa per comprenderla, dobbiamo starle dietro, per capire che fa parte della nostra storia più di quanto sia possibile immaginare. L’arte ci insegna che la contemplazione della bellezza nasce anche dalle contraddizioni della storia, dai travagli, dalle lotte, dalla presunzione umana, senza contraddizione; la ricerca della bellezza è in fondo desiderio di riscatto dal male, suo superamento ideale che può diventare reale.

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Lo Spasimo di Sicilia e la grande ancona lignea, chiesa dei Cappuccini, Mazara

Dal dramma universale della Croce di Cristo nasce il riscatto per la bellezza piena e definitiva della Risurrezione. Raffaello non ha dipinto tanto il “servo sofferente” di Isaia, il Messia dolorante e sfigurato che troviamo nella pittura di Grünewald, ma “il più bello tra i figli dell’uomo” di cui parla il salmista e da cui solo si può attingere bellezza. La scena dolorosa e drammatica non è un invito alla compassione o alla ricerca del dolore per santa emulazione, ma rivelazione della bellezza, rivelazione in quanto ἀλήθεια; verità, non in quanto concetto, ma in quanto disvelamento di ciò che è. E per questa rimodulazione del termine ἀλήθεια siamo ancora debitori nei confronti di Heidegger che aggiunge: “non nascosto”, “non dimenticato” è il suo significato.

Questo saggio ha voluto essere una provocazione. Chi mi conosce sa che sono un provocatore, ma nel giusto senso del pro-vocare, del chiamare in favore. Ciò che vorrei provocare è lo svelamento della bellezza, il non nasconderla, il non dimenticarla… E il nostro Spasimo mazarese, l’ho mostrato, è celato dall’oblio culturale prima che dal velo di fumo e di polvere che ne ottunde la bellezza. Perché bellezza si fa le sue ipostasi, i suoi luoghi rivelativi che sono sorgenti di vita per l’umanità. Quando il mio confratello e amico don Daniele Donato, giovane parroco di Cristo Re e custode pro tempore dello Spasimo mi ha chiesto di aiutarlo a scostare la coltre dell’oblio dallo “Spasimo dei Cappuccini” ho accolto volentieri il suo invito. Lieto per la sua sensibilità ho redatto queste note per mostrare, scorrendo la cronologia e le vicende degli “Spasimi”, che non è Raffaello in sé e per sé che ci interessa, trovare la sua firma e certificare la sua opera. Abbiamo compreso che questo è impossibile anche per gli altri Spasimi. Ci interessa piuttosto il messaggio che i suoi “Spasimi” ci trasmettono e che le istituzioni preposte alla salvaguardia e alla tutela dei beni culturali devono fare in modo che si trasmetta ancora. Si tratta in fondo di un bene culturale pubblico, patrimonio della nostra travagliata e ricchissima cultura siciliana. Questo Spasimo, per inciso, è di proprietà dello Stato italiano. Fa parte di quei beni che nel 1866 la neonata monarchia sabauda, per battere cassa, espropriò alla Chiesa e agli ordini religiosi; beni che oggi vengono “gestiti” dal Ministero dell’Interno cui compete la loro salvaguardia e tutela. Se dopo la pulitura ed il restauro si trovasse una firma, un particolare che rivelasse Raffaello? O un legame forte con la sua bottega e suoi valenti discepoli che hanno operato in Sicilia? E se non si trovasse nulla? Sarebbe la stessa cosa! Nulla cambierebbe! Ciò che è più importante è non occultare la bellezza! Per noi cristiani l’ἀλήθεια che è Gesù Cristo.

Ciò che ho narrato mostra come la bellezza ama diffondersi e moltiplicarsi con qualsiasi mezzo, come il bene, il vero, il giusto dai quali non si disgiunge. Per cui se lo Spasimo di Palermo nato dalla tecnologia si può reputare «più vero del vero», anche il nostro, dopo rivelativo restauro potrà essere «più vero del vero» e senza tema di smentita potremo dire che Raffaello è a Mazara del Vallo.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Note
[1] Oggi esposta alla Gemälde Galerie di Dresda.
[2] M. Heidegger, Sulla Sistina, in Aus der Erfahrung des Denkens, tredicesimo volume della Gesamtausgabe, Frankfurt am Main, 1983, trad. Italiana di Vincenzo Cuomo: http://www.kainos.it/Pages/Articolo%20disvela03.html.
[3] S. Bucci, Palermo ritrova Raffaello. Così rinasce lo «Spasimo», in “Corriere della Sera”, 20 luglio 2009: https://www.corriere.it/cultura/20_luglio_09.
[4] G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri, a cura di L. Bellosi e A. Rossi, Einaudi, Torino 1986, 2 voll.: 639-640.
[5] Ivi: 640.
[6] Sul Web si trova documentazione abbondantissima con riferimenti bibliografici che non occorre citare nei dettagli. Si tratta di informazioni ormai di dominio pubblico.
[7] Culto dell’Addolorata che in Spagna sarà chiamata anche Nuestra Señora de la Soledad o Nuestra Senora de los Dolores;  in Sicilia, ad opera dei Cappuccini sarà chiamata Madonna della Confusione. Nella Diocesi di Mazara del Vallo due esemplari si trovano nelle chiese dei Cappuccini di Salemi e di Mazara del Vallo.
[8] J.A. Jungmann, Eredità liturgica e attualità pastorale, Edizioni Paoline, Roma 1962: 95.
[9] J. Le Goff, Pour un long Moyen-Age, in L’imaginaire médiéval essais, Gallimard, Paris 1982: 13.
[10] Cito qui, a proposito, un mio saggio redatto dopo un viaggio di studio in Germania dal titolo: Cranach e l’anima di Lutero, in Il fiore azzurro. Viaggio nella Germania romantica e oltre, Edizioni Feeria, Panzano in Chianti-Firenze 2012: 63-83.
[11] L’operazione di anastasis della cornice la si deve alla perizia e alla tenacia della storica dell’arte Maria Antonietta Spadaro che muovendo da una vecchia foto d’archivio l’ha ritrovata smembrata censendone 50 frammenti.
[12] G. Vasari, cit., II: 640.
[13] Cfr. L. Di Simone, Trasfigurazione. Teologia, iconografia, iconologia, in L. Di Simone (a cura di), Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto arte e storia, Il Colombre, Mazara del Vallo 2006: 58.
[14] G. Vasari, cit.: 786-796.
[15] Ivi: 640.
[16] Cfr. F. Zeri, Dietro l’immagine. Conversazioni sull’arte di leggere l’arte, Longanesi, Milano 1987: 146.
[17] È la tesi di Maria Emilia Graziani esposta in una documentatissima tesi un poco farraginosa e carente dal punto di vista metodologico: Lo spasimo di Sicilia copia od originale ? Indagine sullo spasimo di Sicilia di Raffaello esposto al Prado, dalla quale emergono numerosi spunti che ne contestano l’originalità. Il testo è reperibile al seguente indirizzo: http://lospasimodisiciliacopiaodoriginale.blogspot.com/2018/02/spasimo-di-sicilia-copia-od-originale.html.
[18] Terza novella della prima giornata.
[19] La tela del Prado misura 318×229 cm.
[20] Dal 1556 al 1568 e dal 1571 al 1577.
[21] G. Di Marzo, Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI; memorie storiche e documenti, Conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana Lazelada di Bereguardo, Volume I e II, Palermo, Stamperia del Giornale di Sicilia, Palermo 1880-1884: 278.
[22] Cfr. P. Safina, La Mazara sacra. Illustrazione storico ecclesiastica della chiesa mazarese, Scuola Tip. Boccone del povero, Palermo 1900: 51.
[23] Ivi.
[24] Come dimensioni è più grande della tela del Prado. Misura 405×250 cm.
[25] G. B. Quinci, Fonti e notizie storiche sul Seminario Vescovile di Mazara, Scuola Tip. Boccone del povero, Palermo 1937: 45. Il Vescovo Gasch fu il fondatore del Seminario e per questo il Quinci ne tratteggia la biografia.
[26] P. Safina, cit.: 51.
[27] Cfr. A. Curti Giardina, La chiesa conventuale di sant’Anna dei PP. Cappuccini in Castelvetrano, Tipolitografia Rago, Castelvetrano 2015: 15.
[28] V. Pugliese, Selinunte rediviva, pro manuscripto 1810. Stampata per Cored Edizioni – Mazara, Mazara del Vallo 1987: 160.
[29] Per l’immagine della Madonna dello Spasimo fatta da Raffaele da Urbino, in Madrigali di Scipione Herrico, In Messina, Per Pietro Brea, 1613. Ad instanza di Gioseppe Matarozzi. 

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Leo Di Simone, teologo, scrittore, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo e docente stabile di teologia presso la Scuola Diocesana di Teologia. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per i Migranti. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti – Firenze): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003)Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas MertonUn umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018).

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