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Quando le città sono palinsesti. Una guida per l’Utopia

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2016 @ 00:23 In Cultura,Letture | No Comments

copertinadi Maria Rosa Montalbano 

«Una città infelice può contenere, magari solo per un istante, una città felice; le città future sono già contenute nelle presenti come insetti nella crisalide». Così in un’intervista concludeva Italo Calvino a proposito delle “città nascoste” descritte nel suo libro Le città  invisibili:  le città impossibili  pensate e immaginate dallo scrittore non sono altro che un’utopia, che nasce dall’osservazione delle città moderne, città in trasformazione e luoghi di passaggio di etnie diverse. Di conseguenza, le sue città invisibili sono un sogno che muove dal cuore delle città invivibili, alla ricerca di un modello che superi il presente perchè l’uomo, da sempre, si è caratterizzato non soltanto come Homo sapiens ma anche come Homo utopicus [1], in quanto solo a lui è consentito desiderare e diventare ciò che vuole. Se il desiderio, poi continua ad essere presente e persistente, allora si trasforma in un bisogno.

Ma l’uomo non è un individuo isolato, vive con i suoi simili e tramite la socialità, dunque, progetta e costruisce se stesso e la società: la polis appunto. E così come l’uomo ha bisogno di auto-costruirsi e auto-progettarsi, allo stesso modo la città ha bisogno di essere continuamente riprogettata e ricostruita, per soddisfare e adattarsi alle nuove necessità che insorgono di generazione in generazione. Ognuna delle quali, prendendo coscienza che la realtà così come si presenta non risponde più alle proprie esigenze, avverte l’impulso, quasi naturale, di elaborare un nuovo progetto, in linea con i bisogni dell’uomo e quindi dei desideri emergenti [2].

Dalla riflessione di Calvino sulla città moderna, oggi, a pochi mesi della pubblicazione del volumetto di Fabio Isman Andare per le città ideali della collana “Ritrovare l’Italia” edita da Il Mulino, non si può fare a meno di “ritornare” a riflettere sul concetto della città e in particolare, sul paradigma di città ideale.

Una città ideale è un insediamento urbano utopico, realizzato o solo progettato, la cui realizzazione urbanistica risponde a dei criteri filosofici, scientifici e razionali. Ma ancora prima di parlare di città utopica, è bene spiegare, seppur in sintesi, il concetto e il significato della parola utopia. Il termine  ha un significato che oscilla tra Ou-topia (non luogo) ed Eu-topia (buon luogo, luogo felice) e più che fluttuare tra i due significati, potremmo dire che li contiene entrambi. L’utopia è il luogo felice che non c’è; ma questo non essere è puramente fattuale, perché significa che non è qui e ora, ma nulla vieta che non possa realizzarsi. Il non essere non è, dunque, il nulla, ma ad esso è connessa la speranza che Ernst Bloch considera del non ancora [3].

La prima grande “utopia” fu quella delineata da Platone nella sua Repubblica [4]. Già prima di lui si incontrano scritti di carattere utopico nelle opere di Teopompo, Zenone, Ecateo e Senofonte, ma  Platone aveva pensato la città ideale descrivendo non tanto la sua struttura edilizia quanto quella politica, delineando il tipo di cittadino ideale senza immaginarlo in una vera e propria realtà urbana. Tutta la Repubblica è costruita sul paragone sistematico tra la città-stato e l’uomo: la città, infatti, deve essere progettata come una estensione dell’individuo, una riproduzione su scala sociale della sua struttura e quindi immaginata come un corpo, un organismo vivente.

L’utopia, trattata marginalmente nel Medioevo se non come ripresa di motivi escatologici in opere patristiche, ad esempio, come nel De civitate Dei di Agostino, raggiunge però l’apice dello sviluppo e della riflessione nel Rinascimento. Il neologismo nasce nella mente di Thomas More [5] nel 1516, quando scrive, appunto, la sua opera Utopia (titolo originale in latino: Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), e descrive un’isola immaginaria in cui radicali innovazioni nelle istituzioni e nei costumi sociali creano uno Stato perfetto, in grado di esprimere l’ideale di una società giusta e felice, la quale in virtù della sua organizzazione riesce a liberarsi da tutti i mali che affliggono la convivenza umana.

foto1È noto che a More si ispirarono, successivamente, il frate italiano Tommaso Campanella [6] nella sua Città del Sole (1623), il  filosofo inglese Francis Bacon [7] ne La Nuova Atlantide (1627) e molti altri studiosi. Al centro di questi racconti vi è sempre un viaggio, nel corso del quale il protagonista finisce su un’isola sconosciuta o lontana, dove scopre una società perfettamente governata. Fu proprio durante l’epoca rinascimentale che, tramite la rivalutazione dell’arte classica e la relativa scoperta della trattatistica antica, si attuò la prima  vera e propria teorizzazione urbanistica e architettonica della città ideale [8] e l’approccio di Platone divenne spunto degli architetti del XV secolo per un nuovo modo di pensare la città, intesa come un medio-cosmo cioè a metà tra micro-cosmo uomo e macro-cosmo. La nuova centralità assunta dall’uomo generò un processo di trasformazione urbana che, contrapponendosi alla città medievale, perviene ad una funzione identitaria e diventa, di fatto, l’espressione politica e civile di un particolarismo storico e culturale.

Fu così che, a partire dal Quattrocento, la città ideale rispose ad esigenze funzionali con soluzioni ordinate e razionali, distribuendo nel tessuto cittadino i punti cardine della vita politica e sociale, con schemi e proporzioni ben precisi. Nel corso del Settecento il significato di utopia si trasformò e dallo spazio si trasferì nel tempo: essa non è più un luogo immaginario ma una società giusta e felice che, grazie al progresso, attende l’uomo nel futuro. Ispirate al socialismo, le utopie non si limitano a immaginare una società più giusta, ma contengono un progetto socioeconomico della sua trasformazione, che ha come fine ultimo la felicità dei popoli. Tra Ottocento e Novecento, da Owen a Fourier, solo per citare qualche nome, ci si spinge a proporre modelli di società fondate su sistematiche e articolate teorie sociopolitiche. Nel Novecento, l’utopia viene affrontata in diversi contesti: letterari, architettonici, scientifici e urbanistici ma assume maggiori connotati di carattere sociale e politico perché l’insoddisfazione della realtà presente conduce l’uomo a pensare a qualcosa da dover imitare e realizzare.

Prima di addentrarsi tra le città ideali dell’Italia, Isman ci introduce alla metafora biblica della Torre di Babele. Mossi dall’eterno desiderio delle vette irrangiungibili, gli uomini vollero costruire «una città e una torre la cui cima tocchi il cielo», ma Dio non essendo d’accordo operò in modo da far collassare la torre, punendo quel popolo dall’unica lingua e facendolo disperdere sulla terra, confuso nella pluralità delle lingue diverse. Da quel momento, l’uomo sognerà, immaginerà, progetterà, e in parte realizzerà agglomerati urbani, che facilitino in qualche modo la comunicazione con il divino. La narrazione di Isman continua con esempi di alcune città ideali realmente esistite nell’Antico Egitto, ove  furono realizzati insediamenti operai sul Nilo, necessari per ospitare la manodopera utile per la costruzione delle piramidi e delle tombe. Tra gli esempi, il villaggio di Deir El-Medina, noto anche come il luogo in cui si svolse il primo sciopero della storia, ad est di Luxor ed Heil el-Ghurab che si trovava nell’area monumentale di Giza. Seguono le colonie greche, fondate tra l’VIII e il V secolo a. C., in Italia peninsulare e in Sicilia: da Pithecusa, Cuma, Gallipoli, Napoli, Akragas, Himera, a Naxos, giusto per fare qualche esempio.

Un capitolo a parte è dedicato a due città ideali soltanto progettate e mai costruite: la Sforzinda del Filarete con una Casa del Vizio e della Virtù, alta dieci piani già nel Quattrocento, e il Colosseo di Sisto V, il cui progetto –  si apprende da un documento contenuto nel libro II di Domenico Fontana: Della trasportatione dell’obelisco vaticano – che doveva trasformare il Colosseo in una filanda abitata, con 36 mini appartamenti composti da un salone e due stanze. Dopo un’accurata descrizione dei due progetti, il racconto prosegue mettendo da parte le teorizzazioni e i progetti mancati e descrivendo la morfologia urbana di Aquileia, famosa per la sua posizione strategica e il suo tessuto  ancora oggi leggibile. Sorta nel 186 a.C. come colonia militare, la città si caratterizzava per le sue strade ortogonali con isolati di diversa misura e abitazioni composte al massimo da due piani. Famosa anche per i suoi mosaici fitomorfi e mitologici, dal 1998 fu dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità.

FOTO2 Pienza

Pienza

Un’altra città annessa ai beni protetti dall’Unesco è Pienza, ovvero l’antica Corsignano, ribattezzata tale da papa Pio II. Le tappe successive sono: a pochi chilometri da Lecce, il borgo fortificato di Acaya, che Isman descrive ancora miracolosamente intatta nell’ordinato dispiegarsi dei suoi spazi, e la nota Palmanova, la “fortezza perfetta”. Seguono, ancora, tra le città rinascimentali, Sabbioneta,  da piccola rocca evoluta a ducato rinascimentale e la Città del Sole, nata poco dopo la metà del Cinquecento nei pressi di Castrocaro. Tra le città ideali del Seicento Isman cita San Martino al Cimino, nei pressi di Viterbo, pianificata da Francesco Borromini, su commissione della principessa Olimpia Maildachini detta “Pimpaccia”. L’autore continua il suo viaggio nella geografia dell’Italia ideale nella successione temporale, addentrandosi tra i villaggi industriali come la settecentesca filanda borbonica di San Leucio a Caserta, Crespi dell’Adda in Lombardia e Rosignano Solvay fino ad arrivare alle città fondate dal regime fascista come Latina e Sabaudia nel Lazio e Arborea e Fertilia in Sardegna.

Dalla descrizione che Isman compie di queste città, «fatte per pensare più che per viverci», emerge una profonda passione per l’arte e l’archeologia classica da parte degli urbanisti – artisti, architetti, filosofi e politici delle diverse età storiche –  che hanno progettato le città inseguendo un preciso modello ideale di bellezza. Isman ne ripercorre le strade e le piazze, ci guida per gli spazi materiali e immateriali dell’Utopia e ne restituisce l’idea di armonia, in molti casi ancora visibile, in altri irrimediabilmente perduta. Ma il merito dell’autore è quello di farci conoscere questi siti così unici, spesso rimasti in ombra e penalizzati dalle grandi mete tradizionali del turismo e, forse, proprio per questo ben conservati. Città cristallizzate nella loro dimensione mitica proprio perché furono concepite e realizzate per volontà di uomini e donne, e rimaste tali nel tempo dopo la loro morte o il loro allontanamento. Ne sono esempio Pienza e San Martino del Cimino. La prima, divenuta in soli cinque anni da piccolo borgo uno degli esemplari complessi urbani del Rinascimento, ha vissuto il suo periodo di massimo splendore grazie alla ristrutturazione voluta da papa Pio II che ne commissionò i lavori all’architetto Bernardo Rossellino, ma, venuti meno il pontefice e il suo architetto, il progetto venne realizzato solo parzialmente, facendo ricadere la città nell’oblio dei secoli. San Martino del Cimino conobbe un periodo di splendore limitato a soli cinque anni, gli stessi in cui la “Pimpaccia” si adoperò per farla popolare e abbellire, ma anche essa sprofonderà nell’abbandono dopo la scomparsa della sua Principessa.

Palma, detta poi Palmanova da Napoleone, formata da una stella a nove punte, non era solo una città fortezza. Incaricato della sua fondazione fu Marcantonio Barbaro, ambasciatore di Venezia, il quale, dopo un acceso dibattito su dove farla sorgere, sul progetto e sulla realizzazione riuscì ad ottenere la pianificazione dell’intero abitato facendo in modo che alla macchina militare si accompagnasse anche la città. Terra del Sole, infine, “scoperta” trent’anni fa dall’autore, per puro caso, è da considerare un angolo di Firenze in mezzo alla Romagna. Essa, definita città unica e incomparabile, è sede, tra l’altro, del più completo archivio criminale oggi esistente, con notizie dal 1579 al 1772, da cui Isman seleziona alcuni interessanti resoconti lasciati dai boia. «Terra del Sole – scrive – non è soltanto un piacere assoluto per gli occhi, ma anche un’angoscia per la mente e il cuore», dal momento che il sogno umanistico si piega e degenera nel bieco esercizio del potere. Osservando più da vicino le funzioni militari a cui alcune città ideali sono state  convertite, c’è da chiedersi se al trionfo dei principi della geometria spaziale e ambientale, con canoni e stili perfettamente regolati e astrattamente organizzati, finisca col corrispondere l’oppressione dell’uomo e la soppressione delle libertà individuali. Una riflessione che dalla filosofia urbanistica ci conduce alle torsioni dei regimi politici, dal momento che la bellezza può essere ostaggio delle più potenti e odiose oligarchie e l’utopia può tralignare in cupa e rovinosa distopia.

Palmanova

Palmanova

Andare per le città ideali è sicuramente una originale guida d’autore da leggere come un romanzo e da studiare come un saggio di storia urbana, di critica d’arte e di filosofia dell’estetica. Nell’impianto stellare o a scacchiera, con il  tracciato viario che si apre su piazze ariose e armonicamente disegnate, le città rispecchiavano un mito, una teoria, una tesi ambiziosa, incarnavano una sorta di ragione cartesiana, di paradigma cristallino. Nell’attraversare l’Italia, tra citazioni e aneddoti, tra divagazioni sul passato e allusioni al presente, Fabio Isman, seguendo un percorso cronologico, ha selezionato alcune città-palinsesto, concepite e poi edificate secondo un progetto ideale, e ne ha ricostruito il loro particolare profilo storico, artistico e architettonico. L’obiettivo è quello della salvaguardia del patrimonio culturale e ambientale e della valorizzazione dei luoghi e dei paesaggi urbani densi di storia e di memorie e tuttavia ancora poco noti o poco apprezzati dai flussi turistici convenzionali. Isman avrebbe potuto scrivere di città ideali più conosciute come Sforzinda, Urbino o  Ferrara ma ha preferito richiamare la lezione antica dell’Utopia,  intesa come critica del presente e invito alla costruzione o ricostruzione della bellezza perduta. Perché, come afferma Cosimo Quarta, «senza l’utopia, ossia senza quella naturale e radicata tensione che spinge l’uomo ad andare sempre oltre il suo immediato presente, alla ricerca del buon luogo, dell’eutopia appunto, l’umanità si sarebbe già estinta; dunque l’uomo è costretto a progettare se stesso e la polis, una “nicchia” che non ha trovato già pronta e in cui si è limitato ad adattarsi, ma che si è autonomamente costruito e che è infinitamente costretto a modificare per adattarla ai propri bisogni» [9].

Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
Note

[1] C. Quarta, Homo utopicus, Dedalo Bari 2015.
[2] Ibidem: 21-23.
[3] C. Quarta, Paradigma, Ideale, Utopia: tre concetti a confronto in A. Colombo (a cura di), Utopia e Distopia, F. Angeli Milano 1987: 189-190.
[4] Platone, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, Rizzoli Milano 2007.
[5] T. Moro, Utopia, Laterza Bari 2006; Utopia in U. Nicola, Atlante illustrato di filosofia, Giunti Firenze 1999: 276.
[6] T. Campanella, La città del Sole, Milano 1963 e disponibile in formato digitale all’indirizzo: http://www.liberliber.it/mediateca/libri/c/campanella/la_citta_del_sole/html/la_citta.htm
[7] F. Bacone, Nuova Atlantide, Carocci Roma 2000.
[8] G. C. Sciolla (a cura di), La città ideale del Rinascimento, Utet Torino 1975; M. L. Scalvini, F. Mangione, Città e architettura in V. Fortunati, R. Trousson, A. Corrado (a cura di), Dall’utopia all’utopismo. Percorsi tematici, Cuen Napoli 2003: 355; V. Fortunati, L’utopia come città e la città come utopia, in M. Billi, L. Curti, E. Di Piazza, D. Corona (a cura di),  Le aperture del testo, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia Palermo 1995: 79-87; V. Fortunati, Il Rinascimento e la città ideale in Italia tra architettura e utopia, Procedings of the conference Le corti e la Città ideale, Urbino 2002; V. Fortunati, Le città utopiche tra immaginazione e storia, in “Prospero”, X,  2003: 15-32.
[9]  C. Quarta, Homo utopicus, cit: 60. 
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Maria Rosa Montalbano, ha conseguito la laurea magistrale in Beni archeologici con lode presso l’Alma Mater di Bologna con una tesi dal titolo Incastellamento e cultura materiale di età medievale. Il suo interesse è rivolto alla storia urbana e del territorio nel Medioevo e si dedica alla consultazione di documenti d’archivio, soprattutto quelli della Diocesi di Mazara del Vallo. Ha partecipato a diverse attività promosse dall’Università di Bologna, dalla Società Cooperativa Lilybaeum Archeologica presso il Museo Civico e il Museo Archeologico di Marsala nonché dal Museo Diocesano di Mazara del Vallo.

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