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Poesia e politica nel giovane Pasolini (1943-1949)

 

9788894911237_0_536_0_75di Francesco Virga

Fontana di aga dal me paìs.

A no è aga pì fres-cia che tal me pais.

Fontana di rustic amou[1].

Poesie a Casarsa è il titolo del primo libro di Pasolini, pubblicato a sue spese, dalla Libreria Antiquaria Landi di Bologna nel luglio 1942, quando il regime fascista è ancora solido. Pier Paolo ha appena vent’anni e studia Lettere nell’Università della sua città natale. In quegli anni non poteva aver letto Gramsci, allora ancora inedito; ma a Bologna ha studiato filologia romanza e ha avuto modo di conoscere gli studi del goriziano Graziadio Isaia Ascoli che, oltre a dare una chiara spiegazione delle ragioni storico-culturali che hanno condotto il fiorentino a diventare lingua nazionale, si era anche soffermato ad analizzare la posizione singolare delle diverse parlate friulane rispetto agli altri idiomi della penisola [2].

Casarsa è il paese friulano dov’è nata la madre del poeta e dove quest’ultimo trascorreva le vacanze estive. Ma Casarsa e il Friuli, fino a quel momento, sono più un mito che una realtà [3] per il giovane poeta. Lo ha riconosciuto lo stesso Pasolini: 

«Io scrissi i primi versi in friulano a Bologna senza conoscere neanche un poeta in questa lingua e invece leggendo abbondantemente i provenzali. Allora (nel ‘41-‘42) per me il friulano era un linguaggio che non aveva nessun rapporto che non fosse fantastico con il Friuli» [4]. 

51qpuoc7ml-_sx314_bo1204203200_Eppure questo libretto, che a prima vista sembra fatto a tavolino «col Pirona, dizionario friulano-italiano accanto»[5], colpì immediatamente l’attenzione di un lettore attento come Gianfranco Contini, allora docente di filologia romanza all’Università di Friburgo. Nella famosa recensione che ne fece, censurata dall’Italia fascista che mal tollerava le realtà regionali con i loro dialetti, e pubblicata dal Corriere di Lugano il 24 aprile 1943, il critico – «il solo critico italiano i cui problemi siano stati i problemi letterari di Gramsci», secondo il singolare e impegnativo giudizio che lo stesso Pasolini ne darà tanti anni dopo [6] – oltre a fiutare «l’odore […] della poesia, in una specie inconsueta, per di più in una di quelle non so se dire quasi lingue o lingue minori che era mia passione e professione frequentare», intravedeva profeticamente nell’opera del giovane autore lo «scandalo ch’esso introduce negli annali della letteratura dialettale».

Sarà lo stesso giovane Pasolini, in un articolo dell’aprile 1944 intitolato Dialet, lenga e stil a spiegare, col suo tipico stile pedagogico che ritroveremo intatto ancora negli ultimi anni della sua vita[7], la radicale novità rappresentata dal suo uso inedito della lingua friulana, rispetto alla tradizione dialettale, che nel Friuli aveva avuto come massimo esponente Pietro Zorutti. Ne riproponiamo di seguito i passi che mostrano, tra l’altro, come egli avesse perfettamente assimilato la lezione dell’Ascoli: 

«Di certo, paesani, non avete mai pensato ai rapporti che intercorrono fra le idee di “dialetto”, “lingua” e “stile”. Quando parlate […] adoperate quel dialetto che avete imparato da vostra madre […].E sono secoli che i bambini di questi posti succhiano dal seno delle loro madri quel dialetto […]. E per impararlo non servono sillabari, libri, grammatiche; lo si parla così, come si mangia o si respira. Nessuno di voi saprebbe scriverlo, questo dialetto, e, quasi quasi, neanche leggerlo. Ma intanto lui è vivo, […] nelle vostre bocche, […], nei petti dei giovanotti […].
Così il dialetto è la più umile e comune maniera di esprimersi, è solo parlato, a nessuno viene mai in mente di scriverlo.
Ma se a qualcuno venisse l’idea? Voglio dire l’idea di adoperare il dialetto per esprimere i propri sentimenti, le proprie passioni? No, tenetelo bene a mente, non per scrivere delle stupidate da far ridere, o per raccontare due tre storielle vecchie del proprio paese (perché allora il dialetto resta dialetto, e basta), ma con l’ambizione di dire cose più elevate, difficili, magari; se qualcuno, insomma, pensasse di esprimersi meglio con il dialetto della sua terra, più nuovo, più fresco, più forte della lingua nazionale imparata nei libri? Se a qualcuno viene quella idea, ed è buono a realizzarla, e altri che parlano quello stesso dialetto lo seguono e lo imitano, e […] si ammucchia una buona quantità di materiale scritto, allora quel dialetto diventa “lingua”. La lingua sarebbe così un dialetto scritto e adoperato per esprimere i sentimenti più alti e segreti del cuore.
Così, dovete sapere – […] che l’Italiano una volta, tanti secoli fa, era anche lui solo un dialetto, parlato dalla povera gente, dai contadini, dai servitori, dai braccianti mentre i ricchi e quelli che avevano studiato parlavano e scrivevano in latino.
Il latino era insomma come adesso è per noi l’Italiano (con il Francese, lo Spagnolo, il Portoghese) era un dialetto del Latino, come adesso, per noi, l’emiliano, il siciliano, il lombardo… sono dialetti dell’italiano. Ma ecco che saltano fuori, in Toscana, scrittori e poeti che vogliono sfogare con più sincerità e vivacità i loro affetti, e in modo che li capiscano: e così si mettono a scrivere nel loro dialetto toscano. In dialetto toscano Dante scrive la sua Divina Commedia, in dialetto toscano Petrarca scrive le sue poesie, e così quel dialetto un poco per volta diventa lingua e sostituisce il Latino. E siccome tutti gli altri dialetti non danno né documenti scritti né poeti, la lingua toscana si impone su tutti e diventa lingua italiana. […].
Purtroppo il Friuli, per tante ragioni, non ha avuto in nessun tempo un gran poeta che cantasse nella sua lingua e che gli desse splendore e rinomanza; il Friuli ha sempre dovuto adoperare quella parlata per i poveri lavori dei contadini, dei montanari […] per ordinare o chiedere di mangiare, di bere, di fare l’amore […]. Con questo non voglio dire che il friulano non sia mai stato scritto, che non abbia avuto neanche un poeta; tanti ne ha avuti, ma quasi tutti […] con poca fantasia, che non andavano più in là di quelle poesiole sentimentali, paesane e insipide, […]. Ma, […], scrittori di quelli che fanno diventare, scrivendolo, il dialetto lingua il Friuli non ne ha avuti. Non è detto però che non debba averli! […]. Verrà bene il giorno in cui il Friuli si accorgerà di avere una storia, un passato, una tradizione! […]. Quando un dialetto diventa lingua, ogni scrittore adopera quella lingua conforme le sue idee, il suo carattere, i suoi desideri. Insomma ogni scrittore scrive e compone in maniera diversa e ognuno ha il suo “stile”. Quello stile è qualcosa di interiore, […], individuale. Uno stile non è né italiano né tedesco né friulano, è di quel poeta e basta» [8]. 

9788811815570_0_536_0_75Oltre che un’«ottima lezione di filologia romanza»[9], il testo, che abbiamo voluto riproporre quasi per intero, è uno dei primi documenti in cui il giovane Pasolini espone la sua poetica. Da esso trapela, insieme alla fede romantica nella naturale forza educatrice della poesia, la convinzione che il dialetto, usato per esprimere grandi sentimenti, si trasforma naturalmente in lingua e quindi in poesia [10].

Sul periodo vissuto in Friuli il poeta tornerà più volte negli anni della maturità. Queste sue dirette testimonianze vanno tenute presenti, non tanto per la ricostruzione obiettiva dei fatti, quanto piuttosto per capire il senso e il valore che queste esperienze intellettuali rivissute hanno avuto per lui. Particolarmente significativo appare, da questo punto di vista, quello che dirà, alla fine degli anni ‘60, a Duflot: 

«Il friulano non è la mia “lingua” materna […]. In effetti, si parlano tre “lingue” in Friuli: il vecchio friulano, che è una lingua completa, autonoma, come può essere il catalano o il bretone; il veneziano, parlato dalla piccola borghesia; e l’italiano. Io mi sono imbevuto del dialetto friulano in mezzo ai contadini, senza mai però parlarlo veramente a mia volta. L’ho studiato da vicino solo dopo aver iniziato a fare tentativi poetici in questa lingua. Qualcosa come una passione mistica, una sorta di felibrismo, mi spingevano ad impadronirmi di questa vecchia lingua contadina, alla stregua dei poeti provenzali che scrivevano in dialetto, in un paese dove l’unità della lingua ufficiale si era stabilita da tempi immemorabili. Il gusto di una ricerca arcaica… Avevo diciassette anni. Scrivevo queste prime poesie friulane quando era ancora in piena voga l’ermetismo, il cui maestro era Ungaretti […]; in poche parole, tutti i poeti ermetici vivevano nell’idea che il linguaggio poetico fosse un linguaggio assoluto. […]. Presi molto ingenuamente il partito di essere incomprensibile, e scelsi a questo fine il dialetto friulano. Era per me il massimo dell’ermetismo, dell’oscurità, del rifiuto di comunicare. Invece è successo ciò che non mi aspettavo. La frequentazione di questo dialetto mi diede il gusto della vita e del realismo. Per mezzo del friulano, venivo a scoprire che la gente semplice, attraverso il proprio linguaggio, finisce per esistere obiettivamente, con tutto il mistero del carattere contadino. All’inizio ne ebbi una visione troppo estetica, fondavo una specie di piccola accademia di poeti friulani… Col passare del tempo avrei imparato ad usare il dialetto quale strumento di ricerca obiettiva, realistica»[11]. 

Questa testimonianza – che conferma l’altra «I primi anni più importanti della mia vita sono contadini, come lo sono, nel significato letterale della parola, le mie prime prove poetiche nel periodo friulano»[12] – è illuminante anche perché consente di capire meglio come la scoperta del mondo contadino in Pasolini è mediata dalla lingua e come tutto ciò abbia contribuito a creare il primo nucleo del mito della civiltà contadina nella sua opera.

In questo contesto va inserita la fondazione della Academiuta di lenga furlana nel febbraio del 1945. Nell’atto costitutivo si ritrova l’ennesimo rimando alle teorie linguistiche ascoliane e all’ideologia delle “Piccole Patrie”: 

«Stabilito filologicamente (cioè con un volontario ritorno alle teorie ascoliane) che il nostro friulano non può essere considerato un dialetto […]. Il Friuli si unisce, con la sua sterile storia e il suo innocente, trepido desiderio di poesia, alla Provenza, alla Catalogna, ai Grigioni, alla Rumania e a tutte le Piccole Patrie di lingua romanza». 

Nonostante il nome altisonante dato a questa sua ultima iniziativa, in polemica con il circolo filologico di Udine, Pasolini si proponeva di rompere con la tradizione friulana folcloristica, nel senso deteriore del termine, per favorire la nascita di una nuova coscienza civile e culturale. Lo spirito è, quindi, quello antiaccademico di sempre. Con il cugino Naldini, il pittore Zigaina ed altri, continua a registrare le parlate locali in interminabili uscite in bicicletta, curioso di conoscere culture diverse da quella piccolo borghese in cui è stato educato. Così lo stesso poeta – iniziato “per nascita” al «mistero di quella lingua speciale ch’è la lingua letteraria»[13], ovvero «il nuovo latino»[14] – s’impegna attivamente a dare dignità di lingua al dialetto parlato dai contadini di Casarsa fino ad usarlo, come vedremo tra poco, per comunicare e scrivere, anche in manifesti murali, le sue nuove convinzioni politiche.

30665278343Nonostante il suo sempre maggiore radicamento nella realtà friulana, Pasolini non perde i contatti con il suo primo recensore, Gianfranco Contini, e con la cultura europea. Così nel giugno del 1947 pubblica il Quaderno romanzo che accoglie una antologia di poesia catalana, inviatagli dal monaco antifranchista Carles Cardò, conosciuto tramite il Contini. Si tratta di uno dei documenti che meglio spiegano come la giovanile passione per la filologia avesse in nuce un risvolto politico. Particolarmente eloquente appare la presentazione che ne fa: 

«La dittatura fascista di Franco ha condannato la lingua catalana al più duro ostracismo, espugnandola non solo dalla scuola e dai tribunali, ma dalla tribuna, dalla radio, dalla stampa, dal libro e perfino dalla Chiesa. Ciò nonostante, gli scrittori catalani seguitano a lavorare nelle catacombe in attesa del giorno […] in cui il sole della libertà splenderà di nuovo su quella lingua, erede della provenzale, che fu la seconda in importanza – dopo l’italiana – nel Medio Evo e che oggi è parlata in Spagna, in Francia […] e in Italia […] da non meno di sei milioni di persone»[15]. 

Come si vede Pasolini, seguendo una tradizione consolidata, fonda il diritto all’autonomia politica della Catalogna sull’autonomia della lingua catalana rispetto a quella castigliana. Così come il diritto all’autonomia politica del suo Friuli – su cui si era già pronunciato, un anno prima, con diversi articoli pubblicati in giornali e periodici friulani – si giustifica con la scoperta del ladino fatta dall’Ascoli verso la fine dell’800.

Il 1947 è l’anno in cui Pasolini, non solo aderisce al PCI, ma diventa segretario della sezione comunista di San Giovanni a Casarsa. Anche se le ricostruzioni autobiografiche vanno sempre prese con il beneficio dell’inventario, ci sembra attendibile quello che Pasolini ha scritto di sé a proposito della decisione d’iscriversi al PCI nel 1947, due anni dopo l’uccisione del fratello Guido da parte di un gruppo di partigiani comunisti [16]: 

«Ciò che mi ha spinto a essere comunista è stata una lotta di braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra (I giorni del Lodo De Gasperi doveva essere il titolo del mio primo romanzo, pubblicato invece nel 1962 col titolo Il sogno di una cosa). Io fui coi braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci»[17]. 

Anche se c’è chi dubita dell’effettiva partecipazione di Pasolini alla lotta dei braccianti del dopoguerra, rimane un dato di fatto il continuo rimando a questa esperienza che il poeta, in più luoghi, fa e che costituisce lo sfondo de Il sogno di una cosa. Particolarmente sincera ci sembra, fra tutte, quella riferita l’8 luglio 1961 su Vie Nuove, soprattutto perché rivela il percorso lungo e complicato seguito dal giovane: 

«Allora io vivevo in Friuli, che era un po’ un paese ideale, quasi fuori dallo spazio e dal tempo, una specie di sentimentale e poetica Provenza, per me, che scrivevo poesie rimbaudiane o verlainiane o lorchiane in friulano. Quei mesi di lotte contadine, a cui ho fisicamente partecipato, occhi e orecchi ben tesi, hanno trasformato il Friuli in un paese reale, e i suoi abitanti da antichi provenzali in esseri viventi e storici. Sembrerebbe una cosa così semplice: invece è stata lunga e complicata: ho dovuto compiere con la ragione tutto un viaggio di ritorno dal territorio in cui mi ero addentrato con la più folle, turbata e univoca delle fantasie […] è stata la diretta esperienza dei problemi degli altri che ha trasformato radicalmente i miei problemi: e per questo io sento sempre alle origini del comunismo di un borghese una istanza etica, in qualche modo evangelica»[18]. 

41oeuwcbd-l-_sx279_bo1204203200_Tra i pochi documenti della breve ma intensa militanza di Pasolini nelle file del PCI ci sono rimasti alcuni manifesti, scritti di suo pugno in friulano, verso la fine degli anni ‘40, per le campagne elettorali condotte dalla sezione che dirigeva.

La cosa più sorprendente che salta agli occhi leggendoli è constatare come in essi si ritrovi, tra l’altro, la prima espressione di un tema particolarmente caro al Nostro – il rapporto che lega il cristianesimo al comunismo – ripreso lungo tutti gli anni ‘60 fino agli ultimi suoi scritti. Si ripropone di seguito il testo di uno di questi manifesti, intitolato L’anima nera, scritto nella lingua parlata realmente dai contadini di Casarsa, ben lontana da quella concepita in laboratorio per scrivere le sue prime poesie: 

Se e sia duta sta pulitica ch’a fan i predis cuntra di nualtris puares?
A saressin lour cha varesin da vei il nustri stes penseir;
a ni par che i nustri sintimins a sedin abastanza cristians!
Sers democristians a si fan di maraveja se i Comunisc a van a Messa
quant che i comunisc a podaressin fasì a mondi di pì maraveja par jodi
che i democristians ch’a van a Messa cu l’anima nera coma il ciarbon [19]. 

In queste parole di denuncia dell’ipocrisia dei preti democristiani del tempo noi intravediamo la stessa motivazione etica della critica serrata che, negli anni successivi, Pasolini condurrà contro l’intera classe dirigente nazionale.

Questi manifesti pare che siano stati particolarmente efficaci se, come ha rilevato Enzo Siciliano, hanno contribuito a far vincere le elezioni ai comunisti di San Giovanni, in una regione dove la DC aveva la maggioranza assoluta. Al contempo hanno suscitato invidie e malevoli attenzioni. Così il 15 ottobre del 1949 Pasolini viene segnalato ai carabinieri di Cordovado per presunta corruzione di minorenni. Prima ancora della sentenza giudiziaria che lo assolverà, arriva l’espulsione dal partito per indegnità morale con un comunicato pubblicato su l’Unità: 

«Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altrettanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese». 

Decisa e puntuale sarà la replica del poeta: 

«Non mi meraviglio della diabolica perfidia democristiana; mi meraviglio invece della vostra disumanità; […] parlare di deviazione ideologica è una cretineria. Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico della parola»[20]. 
Autoritratto

Autoritratto

Secondo Roberto Roversi questa dolorosa esperienza va considerata «nodale» nella storia di Pasolini [21]. L’essere stato messo al bando della società civile, l’aver perso il lavoro, l’essere stato espulso dal partito nel quale militava, l’aver sentito su di sé la condanna e l’esclusione dalla sua classe di appartenenza, hanno sicuramente contribuito a farlo sentire particolarmente vicino al mondo del sottoproletariato romano negli anni ‘50, al residuo mondo contadino sopravvissuto nel Meridione d’Italia degli anni ‘60, e a tutti i “dannati della terra” fino all’ultimo dei suoi giorni. 

Questa sommaria ricostruzione della vita e dell’opera del giovane Pasolini lascia in ombra altri aspetti della sua complessa e sfaccettata personalità. Al riguardo vanno segnalati, tra i tanti, almeno due importanti recenti studi: il primo si deve alla compianta Angela Felice [22] ; il secondo all’originale monografia di Claudia Calabrese, Pasolini e la musica, la musica e Pasolini. Correspondances. Roma 2019, che abbiamo recensito in questa stessa rivista nel n. 44 del luglio 2020 [23]. 

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022 
Note
[1] Con questi versi friulani, intitolati Dedica, si aprono le Poesie a Casarsa, scritte da Pasolini ventenne, che tanto colpirono Gianfranco Contini. Nella revisione del 1974 questi stessi versi, con lo stesso titolo, diventeranno “Fontana di aga di un paìs no me. / A no è aga pì vecia che ta chel paìs. / Fontana di amòur pur nissun”. Cfr. P.P. Pasolini, La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Einaudi 1975, I edizione. Noi abbiamo utilizzato la ristampa del 2002, arricchita da un saggio filologico di Furio Brugnolo. Le poesie citate si trovano, rispettivamente, nelle pp. 7 e 167. Il significato letterale degli ultimi versi – dedicati ancora a G. Contini, «e sempre con amor de loinh».
[2] G.I. Ascoli (I829-1907) è stato uno dei primi studiosi delle tre isole linguistiche che caratterizzano il Friuli Venezia Giulia. Il giovane Pasolini mostra di conoscere i suoi Saggi ladini del 1873, frutto di una accurata ricerca sul campo, ed applicherà le stesse tecniche di rilevazione del famoso glottologo negli anni del suo soggiorno a Casarsa. Pasolini tornerà ad evidenziare l’importanza dell’Ascoli nella rubrica che curerà, nei primi anni ‘60, sul settimanale Vie Nuove e nei famosi saggi linguistici che nel 1972 raccoglierà in Empirismo Eretico. È probabile che, proprio tramite l’Ascoli, Pasolini abbia iniziato ad avere quella particolare sensibilità nei confronti del valore sociale dei problemi linguistici. D’altra parte è stato ampiamente documentato da Franco Lo Piparo – in Lingua intellettuali egemonia in Gramsci, Laterza 1979 – quanto sia stata decisiva l’influenza dell’Ascoli nella formazione del concetto gramsciano di egemonia.
[3] Quanto sia stretto in Pasolini il rapporto tra realtà e mito è abbastanza noto. Giuseppe Zigaina ha dimostrato che, per l’amico poeta, decisiva è stata la lettura del libro Mito e realtà di Mircea Eliade, dove si afferma che il mito è alla radice del linguaggio. Meno convincenti risultano però altre ipotesi avanzate da Zigaina in Pasolini e l’abiura. Il segno vivente e il poeta morto, Saggi Marsilio, Venezia 1993.
[4] P.P. Pasolini, Lettera dal Friuli, in La Fiera letteraria, 29 agosto 1946, ora in Saggi sulla letteratura e sull’Arte (d’ora in poi abbreviato con SLA) Tomo I, Meridiani, Mondadori: 173-174.
[5] E. Siciliano, Vita di Pasolini, Rizzoli, Milano 1978: 73. Sarà, comunque, lo stesso Autore, a riconoscere che il friulano del suo primo libro non era quello realmente parlato a Casarsa ma «un friulano inventato sul Pirona». Cfr. P.P. Pasolini, Al lettore nuovo Introduzione a Poesie, Garzanti, Milano 1970. Questo testo, concepito dall’Autore appositamente per la pubblicazione in edizione economica di una parte della sua produzione poetica, è uno dei documenti più ricchi di dati ed informazioni utili per la ricostruzione della biografia intellettuale del poeta.
[6] P.P. Pasolini, recensione di G. Contini, La letteratura italiana, tomo IV, ora in SLA, Tomo II: 2204. La recensione di Contini, che fece ballare di gioia il giovane poeta, venne pubblicata dal Corriere di Lugano il 24 aprile 1943. Tre anni dopo sarà lo stesso Pasolini a ricordare che quella recensione era stata respinta dalla rivista romana “Primato” per la nota ostilità del regime fascista nei confronti dei dialetti.
[7] Basti pensare all’incompiuto Trattatello pedagogico pubblicato postumo in Lettere luterane, Einaudi 1976.
[8] L’articolo pubblicato nell’aprile del 1944 dalla rivista Stroligut di cà da l’Aga, oggi si trova riprodotto, anche in versione friulana, nel primo volume dei SLA.: 61-67.
[9] C. Segre, Introduzione a SLA, op. cit.: XVIII.
[10] Il carattere romantico dell’articolo in questione è provato, soprattutto, dal suo ancoraggio al mito delle origini, che trapela già dall’epigrafe di Shelley che lo apre: «Nell’infanzia della società ogni autore è necessariamente un poeta, perché il linguaggio stesso è poesia».
[11] P.P. Pasolini, Il sogno del centauro, a cura di Jean Duflot, Editori Riuniti, Roma II ediz. 1993: 11-12. D’ora innanzi questo testo, che raccoglie una delle più importanti interviste rilasciate da Pasolini, tra la fine degli anni 60 ed i primi anni 70, sarà citato con l’abbrev. Duflot.
[12] Ibidem: 18. Corsivo mio. Vedi pure P.P. Pasolini, Le belle bandiere, Editori Riuniti, Roma: 108. Gli anni trascorsi in Friuli, ininterrottamente dal 1943 al 1949, sono decisivi per la sua formazione. Qui riscopre «il gusto della vita e del realismo». Per una puntuale ricostruzione de quegli anni si rimanda al libro di Nico Naldini, Un paese di temporali e di primule, Guanda, Parma 1993. Molto utile risulta, inoltre, la lettura dell’epistolario di Pasolini pubblicato in due volumi da Einaudi a cura dello stesso Naldini.
[13] Pasolini, Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1960: 164.
[14] Pasolini, Al lettore nuovo, cit.: 8.
[15] Pasolini, La letteratura catalana, in Quaderno romanzo, ora in L’Academiuta friulana e le sue riviste, a cura di N. Naldini, Neri Pozza, Vicenza 1994: 31. In questa stessa pagina si trova un bel profilo storico della lingua Catalana che di seguito trascriviamo: «La lingua catalana, distaccatasi dalla provenzale verso la metà del sec. XIII, fu per tre secoli il verbo culturale dell’antica corona d’Aragona, che signoreggiò tutto il mediterraneo. Il suo contatto con la cultura italiana fu sì profondo che i migliori scrittori catalani imitarono i sommi poeti e prosatori italiani di quel tempo: Ramon Llull fu figlio di San Francesco come poeta, di San Bonaventura come filosofo, Bernart Metge imitò il Boccaccia, Jordi de Sant Jordi ed il grande Ausiàs March furono seguaci del Petrarca, e catalana fu la prima traduzione […] della Divina Commedia. L’unione delle Corone di Aragona e Pastiglia e la conseguente formazione della Spagna sotto l’egemonia casigliana, diede alla lingua catalana un colpo che sarebbe stato mortale se mortali fossero le lingue parlate da popoli forti e coscienti. Il catalano scese lentamente alla categoria di dialetto, subendo una sorte simile a quella dei suoi fratelli di oltre Pirenei, i dialetti dell’antica gloriosa lingua d’Oc». Per l’approfondimento dell’analisi dei rapporti tra Pasolini e la cultura spagnola si rimanda alla monografia di Francesca Falchi, EI Juanero. Pasolini e la cultura spagnola, Atheneum, Firenze 2003.
[16] A proposito di questa dolorosissima esperienza che ha segnato nel vivo il giovane Pasolini, il poeta tornerà più volte. A noi qui piace rimandare alla sobria ricostruzione dei fatti che farà nel 1961 su Vie Nuove, e ricordare la sua chiosa finale: “nulla è semplice, nulla avviene senza complicazione e sofferenze”. Ora in Le belle bandiere, op. cit.: 110-112.
[17] P.P. Pasolini, Al lettore nuovo (1970), op. cit.: 10.
[18]P. P. Pasolini, Le belle bandiere, op. cit.: 108.
[19] «Che cos’è tutta questa politica che fanno i preti contro noi poveri? Dovrebbero essere loro ad avere il nostro stesso pensiero; ci sembra che i nostri sentimenti siano abbastanza cristiani! Certi democristiani si meravigliano se i Comunisti vanno a Messa quando i comunisti potrebbero meravigliarsi di più a vedere quei democristiani che vanno a Messa con l’anima nera come il carbone».
[20] L’intera vicenda è ben ricostruita nella biografia di Enzo Siciliano, op. cit.: 140-144.
[21] Roberto Roversi, «La tenerezza vitale di Pasolini», in Aa.Vv., Per conoscere Pasolini, Atti del Convegno svoltosi al Teatro Tenda di Roma, dicembre del 2007, Roma: Bulzoni & Teatro Tenda editori, 1978:59-63
[22] nAngela Felice, Narcisi, Turchi, fanciulli, elfi, ‘frus’. Mitologie della gioventù nel Pasolini friulano. Ora in Aa.Vv. “L’ora è confusa e noi come perduti la viviamo”. Leggere Pasolini quarant’anni dopo. Roma Tre-Press, 2017
[23] https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/pasolini-tra-incanto-e-disincanto/ 

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Francesco Virga, laureato in storia e filosofia con una tesi su Antonio Gramsci nel 1975, fino al 1977 lavora con Danilo Dolci nel Centro Studi e Iniziative di Partinico. Successivamente insegna Italiano nelle scuole medie della provincia di Palermo. Nel 1978 crea il Centro Studi e Iniziative di Marineo che continua ad animare anche attraverso un blog. È stato redattore delle riviste «Città Nuove», «Segno» e «Nuova Busambra». Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Il concetto di egemonia in Gramsci (1979); I beni culturali a Marineo (1981); I mafiosi come mediatori politici (1986); Cosa è poesia? (1995); Leonardo Sciascia è ancora vivo (1999); Pier Paolo Pasolini corsaro (2004); Giacomo Giardina, bosco e versi (2006); Poesia e storia in Tutti dicono Germania Germania di Stefano Vilardo (2010); Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini (2011); Danilo Dolci quando giocava solo. Il sistema di potere clientelare-mafioso dagli anni cinquanta ai nostri giorni (2012); Giuseppe Giovanni Battaglia, un poeta corsaro, in Aa. Vv. Laicità e religiosità nell’opera di G.G. Battaglia (2018).

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