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Plus de Charlie! Note sulla mediamorfosi del sentimento contemporaneo

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2015 @ 00:18 In Attualità,Cultura | No Comments

Inserzione su eBay del 14.1.2015

Inserzione su eBay del 14.2.2015

di   Valentina Rametta

Bisogna scrollarsi di dosso secoli di servitù, ma
non c’è Storia che non sia quella delle emozioni.
(Derek Walcott, La voce del crepuscolo)
 
 

 1178. Non è un intervallo di tempo particolare della storia, né il rimando cronologico a qualche evento epocale del passato dell’Occidente. E non rievoca nemmeno qualcosa da recuperare nella memoria collettiva. Eppure è un numero che ha già fatto epoca, a cominciare dell’editoria cartacea contemporanea, esangue e in crisi nel mondo digitalizzato. È il numero della rivista Charlie Hedbo pubblicato una settimana dopo gli attentati di Parigi del 7 e 9 gennaio 2015. La vignetta disegnata in copertina è un Maometto dall’aria inadeguata per l’occasione, che con un certo pudore, rivolgendosi come un “io” allo spettatore, esibisce il cartello con l’hashtag #jesuischarlie, e sopra la cui testa pende una specie di assoluzione, di remissione dei peccati: «Tout est pardonné».

Cifre e numeri da record, un caso editoriale. In un solo giorno sono state vendute circa 7 milioni di copie, edizioni limitate distribuite da alcuni quotidiani esteri e ristampe moltiplicate nei giorni successivi. Il giorno dopo si aprivano le aste su eBay. Molte persone, accanto alla partecipazione spontanea nelle piazze subito dopo gli eventi, hanno fiutato la partecipazione al business dell’evento mediatico epocale come merce di consumo, e le copie del n.1178 di Charlie Hebdo hanno superato quotazioni di 15 mila euro. Febbre da collezionisti durata poco meno di un paio di settimane, una sorta di bolla finanziaria di investimento di capitali in un business iconico saturatosi molto velocemente. Eppure questa cosa ci dice di più. Ci dice qualcosa al di là delle ragioni economiche. Ci dice qualcosa sui simulacri d’identità della cultura occidentale. E ci dice anche qualcosa sul nostro rapporto con gli oggetti. Ci dice che con “certe cose” intratteniamo un rapporto che ha «la capacità di legare i sentimenti alle cose, le emozioni o i costumi agli oggetti più banali dell’esperienza» (Coccia, 2014: 45), oggetti-totem nei quali il bene, la morale, l’ethos sono diventati una dimensione estetica ed estatica, che si appaga di consumare simboli come mitopoiesi che sopravvive nel nostro “cattivo sguardo”.

Parafrasando le intuizioni di Hermann Brock sul kitsch come confusione tra etica ed estetica, si potrebbe dire che questa confusione sia migrata nell’immateriale. Non sono più gli oggetti ad essere kitsch ma la nostra situazione emotiva. Sono le nostre risposte sentimentali a trovarsi fuori misura nella full immersion delle nuove forme di esperienza mediata in rete. In un certo senso, abbiamo oltrepassato lo schermo dell’immateriale. Mutando radicalmente la geografia del nostro heiddeggeriano essere-nel-mondo, non è più possibile pensare ad una situazione cognitiva indipendente da quella emotiva. I dispositivi che adesso integrano la nostra vita come una seconda pelle vitrea, non sono solo strumenti di informazioni e dati, sono il nuovo habitat e il nuovo habitus del nostro quotidiano, lo spazio di una nuova ecologia mentale in cui non impariamo tanto ad usare degli strumenti ma “impariamo ad imparare”. In questa sede, per condensazione di spazi, proverò a formulare alcune brevi note nel tentativo di intravedere questo processo come espressione di una mediamorfosi degli affetti.

Abbiamo dunque due eventi che si fanno specchio: l’atto terroristico e l’atto consumistico. Da una parte il valore dei corpi, dall’altro il valore delle immagini. Da un lato la morte della vita, dall’altro la vita della merce; da un lato la materia brutta, orrorifica della fine, dall’altro l’inizio salvifico dell’aura simbolica. Accanto ai corpi che restano, malgrado tutto, come una specie di enormità, di materia invisibile sottratta alla vista proprio nel momento in cui ci viene mostrata per sovraccarico informazionale, abbiamo il problema dell’attenzione, o più precisamente il dubbio velenoso dello spossessamento delle nostre risorse attenzionali in ciò che riteniamo più naturale e più vero: i sentimenti che proviamo. Tutto l’agglomerato affettivo di partecipazione dispiegato sui social network, e poi trasferitosi per le strade, sembra essere il sintomatico incosciente macchinico di questo inedito rapporto tra attenzione ed esperienza, nell’epoca definita da alcuni studiosi neurototalitarismo (Citton, 2014). Alla cronaca degli eventi, quasi in presa diretta come nel caso del supermercato kosher, è seguita la narrazione degli eventi e la traduzione immediata in un ordine simbolico, un dopo post-traumatico che, nel recupero e nel montaggio dei fatti, sembra invertire l’ordine dei fattori: dal reality allo storyboard, dal discorso oggettivo all’attività di scenarizzazione.

Gli apparati mediali mainstream lavorano in due modi sostanziali: sulla funzione dimostrativa degli eventi per mezzo di una “illusione referenziale” (dire il vero/mostrare il vero), e sull’amplificazione della portata cognitiva che ricerca una “espressività passionale e panica”. Si potrebbe dire che attraverso la diffusione planetaria delle tecnologie digitali, il rapporto tra etica ed estetica si sia posto in modo esplicito rimettendo al centro della cultura contemporanea, e più in generale dell’attività politica mediatizzata, quello che Don DeLillo aveva intuito all’ombra dell’11 settembre: «non c’è altro se non l’aura». L’esperienza estetica e l’immaginazione collettiva (che riorganizza, prolunga e delocalizza in “protesi oggettive” il proprio agencement tra mondo e sensazione di essere) sono l’esito di una paralisi della coscienza critica, una riduzione dello “spazio del pensiero” (il denkraum warburghiano) che comprime il diaframma delle risposte emotive in una sorta di immanenza caotica prolungata, per cui il problema della medialogia dei regimi di attenzione diventa cruciale. Come dire che l’avvicinamento del fuoco prospettico e della percezione diretta, fanno parte di una estetica dell’immagine in cui l’impatto emotivo è direttamente proporzionale all’impressione dell’osservatore di trovarsi dentro la drammaticità dell’evento in una reciprocità di esposizione. Se la politica della guerra agisce a distanza, da lontano, in terza persona e fuori campo con i droni, la politica delconsenso alla guerra, qualsiasi guerra, funziona da vicino.

foto 1

foto di Stéphane Mahé ( Reuters), Parigi

Parafrasando John Berger, all’ordine del giorno è una “questione di sguardi”, di vite interamente immerse in una spettacolo che lascia continuamente aperto il diaframma tra reale e virtuale: cosa vedo? Dove lo vedo? Da dove lo vedo? Come lo vedo? Cosa mi guarda? Se vedere è anche essere visto, non si tratta di gettare discredito iconoclasta sulle immagini, nel tentativo di preservare l’occhio e la mente dall’impotenza dell’orrore programmato che ci circonda (i video dell’Isis sembrano suggerire d’istinto questo tipo di reazione). Al contrario, si tratta di tenere insieme nello sguardo la responsabilità etica di scavare spazi di distanza critica per saper vedere, fare del vedere un sapere che possa spingere fuori da qualsiasi immagine, affabulatoria o mortifera, effetti impredicibili e contrari. Si tratta di scansare le trappole della mediamorfosi dei nostri sentimenti mediati dal “bagno di media” (Citton, 2014), di pensare non solo che il “privato” della vita, degli affetti, dei sentimenti è una questione politica, ma più radicalmente che nel nostro modo di sentire si trova una condizione del nostro modo di immaginare e fare politica.

Non ci si è sbarazzati del mito dell’agire umano nel tempo, piuttosto questo si è temporaneamente trasferito in un orizzonte metafisico immerso continuamente tra agire on line e agire off line, per cui il gesto di rivolta, dissenso, disgusto, indignazione, s’incaglia sospeso troppo spesso tra un like, un tweet e un post, diventa “una pura questione di simboli” dentro una totalità auratica. Già Raymond Williams aveva introdotto negli anni settanta l’ipotesi che ogni società dia vita ad una peculiare “strutture del sentimento” (structures of feeling), un certo modo tecnicamente e culturalmente mediato di provare emozioni, e un certo numero di emozioni da provare (in)mediatamente. Il termine inglese feeling restituisce, rispetto alla traduzione italiana, delle sfumature più complesse. Nel Webster’s New World Dictionary una delle definizioni date è «the senses by which sensations of contact, pressure, temperature, and pain are transmitted through the skin; sens of touch», e ancora «faculty of experiencing physical sensation; consiousness; emotion; an opinion or sentiment; an impression or emotional quality; air, atmosphere».

Ogni gesto rischia un’intrusione visuale afona e touch screen trasmessa sottopelle, da non sentirla più graffiare e fare crepe nel pensiero. Troppo vicini al reale da sentire di esserne toccati perchè lo tocchiamo, di credergli alla lettera da aver rimosso che vedere è aver visto, e che se una realtà esiste, esiste solo se contro-narrata. Ecco perchè ci troviamo tra i nuovi totem e i nuovi dèi feticci. Ecco perchè l’atto terroristico e l’atto consumistico si fanno da specchio: una civiltà che ha investito le cose e le merci «di quell’affabulazione pubblica a metà strada tra mitologia e morale» (Coccia, 2014: 27). Mitologia e morale, dunque, sono da scorgere incessantemente in filigrana in qualsiasi retorica, anche nella retorica dispiegata intorno agli eventi di Parigi. Mitologia e morale che lega in un nodo scorsoio questa latitudine geografica all’incubo della “sottomissione” al nemico. Il dilemma dell’essere o non essere Charlie sembra così più un esorcismo culturale, un mantra di autoimmunizzazione che, a differenza dell’essere o non essere le vittime del supermarket kosher, si presta meglio a fare da collante identitario di una crociata democratica contro la jihad musulmana degli anni recenti.

Da questo interstizio potremmo forse ripensare come l’Europa ricombina capitalismo e razzismo in una versione funzionale alla “stuttura del sentimento” generato dalla retorica della crisi economica e dai ripiegamenti nazionalisti correlati. Sembrano il recto e il verso, ma anche il mito e la morale, di un’efficace risposta populista, non solo perchè razzismo e colonialismo sono pratiche ancora inarchiviabili, ma perchè continuano a funzionare come dispositivi di controllo e supplemento strutturale nella costruzione di una economia globale di predazione e precarietà.

jesinottetGuardando al fondamentale studio dei materiali mitologici di Furio Jesi, si potrebbe dire che questa è la “ricetta” della tradizione culturale di destra (Jesi, 2011), dove «il passato è una pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione. […] La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale di destra» (Jesi,2011: 209).

Se è immediato osservare lo spettro dell’islamo-fascismo dietro gli attentati di Parigi, in cui a prevalere è la “religione della morte” (come ci insegnano la resistenza curda a Kobanê e nel Rojava), più difficile, più scomodo, è riconoscere nelle retoriche che fanno appello alla cassetta degli attrezzi dei valori democratici europei (l’unità nazionale, la libertà di stampa, la laicità, la difesa dei confini nazionali, la cittadinanza) qualcosa di molto simile a quel residuo di valori indiscutibili con l’iniziale maiuscola. Anche la retorica dei morti esemplari, basta citare il filosofo Bernard Henry-Levy dalle pagine di Le Monde, che prima definisce i disegnatori di Charlie Hebdo “marthyrs de l’humour” (tralasciando le vittime del supermercato kosher, quasi del tutto assenti dal discorso pubblico) e poi rilancia la posta: «C’est le moment churchillien de la Ve République». Parole che sembrano slogan motivazionali, «uno scheletro morfologico e sintattico di idee, che con le parole hanno relazioni precarie, termporanee e approssimative», mentre oggi è necessario, per reidratare l’immaginario collettivo, ricorrere «a parole così ‘materiali’ da poter essere veicolo di idee che esigono parole» (Jesi, 2011: 20-22).

Il ricorso a quelle che Jesi chiama “idee senza parole” è un altro modo di circoscrivere «la patetizzazione del finito ad infinito», che è poi un altro modo di declinare il rapporto tra estetica ed estremismo. Il rischio è di dover istillare questo dubbio nelle reazioni di massa seguite agli eventi di Parigi del 7 e 9 gennaio, il dubbio che l’imperativo di “essere o non essere Charlie” sia una specie di accordo su questa nota emotiva. Abbiamo cioè accesso all’eccesso della tragedia, auratico e clonato dai media, ma l’orrore non è, e non deve diventare, una forma del sublime. L’esercizio di potere non deve diventare lirico e a buon mercato.

Fig. 2 Le crayon guidant le pouple, fotografia di Stéphane Mahé (Reuters), Parigi 11.01.15.  Confrontro con La Liberté guidant le peuple, Eugene Delacroix, 1830, Musée du Louvre.

Fig. 2 Le crayon guidant le pouple, fotografia di Stéphane Mahé (Reuters), Parigi 11.01.15.
Confrontro con La Liberté guidant le peuple, Eugene Delacroix, 1830, Musée du Louvre.

L’enormità della marcia di Place de la République, con la sua icona già in archivio per questo secolo, è certamente il segno di un sentire collettivo che porta con sé il desiderio di incontrare la violenza sul luogo politico dell’imaginazione, ma questa non può restare un’enfasi senza parole. Deve farsi veicolo di idee che esigono parole. È l’idea chiamata “comunità europea” che è necessario comprendere da dove proviene e quali spettri vi si aggirano, ed è l’idea di comunità senza aggettivi qualificativi che esige parole. Le soggettività ancora dolorosamente sbarrate dalla violenza neocoloniale, risucchiate nei vortici del Mediterraneo, costretti tra le griglie di saperi e nozioni normative leggi sicuritarie e politiche razziste, che sono date in pasto ai conflitti geopolitici ed economici, consegnate senza revoca ad una esistenza già sempre in assenza di vita, che trasforma gli schiavi in tiranni, dovrebbero spingerci a fare i conti con la qualità ideologica di queste oscurità che sfocia in amnesia.

Dialoghi Mediterranei, n.12, marzo 2015
Riferimenti bibliografici
Citton, Y., ed., (2014), L’économie de l’attention. Révolution à venir?, Paris, La Découverte.
Coccia, E., (2014), Il bene nelle cose. La pubblicità come discorso morale, Bologna, Il Mulino.
Jesi, F., (2011), Cultura di destra. Con tre inediti e un’intervista, a cura di Andrea Cavallini, Roma,  Nottetempo.
Williams, R., (1977), Marxism and Literature, London-New York, Oxford University Press; trad. it., Marxismo e letteratura, Torino, Einaudi, 1979.
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Valentina Rametta, dottoranda di ricerca in Studi culturali europei all’Università di Palermo, si occupa di Visual Studies e Antropologia culturale. Attualmente sta lavorando a un progetto di ricerca sul rapporto tra immaginario della fine nell’Antropocene, crisi dell’ontologia e rappresentazione della preistoria in rete. Ha pubblicato saggi e recensioni su riviste scientifiche e atti di convegni.

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