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Pietre contese. Uso politico del passato e pratiche di legittimazione archeologica

01_lieux-de-memoire_pierre-noradi Giovanni Gugg

I luoghi della memoria e la costruzione culturale del passato

Come ha mostrato Pierre Nora (1984) nella sua celebre opera Les Lieux de Mémoire, la memoria collettiva non è soltanto una faccenda di ricordi, ma una questione di spazi simbolici. I luoghi della memoria – siano essi rovine, monumenti, musei, paesaggi, oggetti rituali o date commemorative – non emergono naturalmente, ma sono prodotti storici e culturali, che nascono quando la memoria vissuta si interrompe. È proprio in quel momento che le società cercano di fissare il passato, monumentalizzandolo, conservandolo, spettacolarizzandolo. In altre parole: memorializzano ciò che temono di perdere.

Nora distingue nettamente tra mémoire e histoire: tra una memoria vissuta, affettiva, fluida, e una storia analitica, distaccata, che cerca di oggettivare e ordinare. I lieux de mémoire si collocano esattamente tra queste due dimensioni: nascono dal bisogno di rendere tangibile una continuità identitaria laddove questa è diventata fragile, interrotta o contesa. In questo senso, sono spazi di condensazione simbolica, strumenti attraverso cui le comunità si raccontano e si rappresentano a sé stesse.

Nel tempo, questa prospettiva si è arricchita di riflessioni più legate alla dimensione spaziale e affettiva del paesaggio. Come ha osservato Joël Candau (2002), il paesaggio stesso può diventare un archivio vivente, un dispositivo mnemonico che incorpora eventi, pratiche, traumi, presenze, e che a sua volta plasma i corpi, le appartenenze, le memorie. Il paesaggio – naturale o urbano – non è mai neutro: è memoria incorporata, memoria incorporante. È il luogo in cui si sedimentano le stratificazioni storiche, ma anche dove si proiettano utopie, nostalgie, visioni alternative del presente. Soprattutto in contesti segnati da conflitti, guerre, traumi, migrazioni, il paesaggio diventa un campo di tensioni memoriali, dove narrazioni diverse si sovrappongono, si elidono, si combattono.

È in questo quadro che l’archeologia va compresa: non come pura scienza del passato, ma come pratica culturale e politica che interviene nella produzione di memoria pubblica, selezionando, ordinando, monumentalizzando. L’archeologia non “scopre” semplicemente il passato, ma lo costruisce. Agisce attraverso scelte selettive su cosa scavare, conservare, esporre; e attraverso narrazioni che trasformano i reperti in simboli identitari, investiti di valore nazionale, religioso o ideologico. Spesso, lo fa sotto la copertura epistemica della scienza, che conferisce a queste scelte un’apparente neutralità, occultandone la natura politica e simbolica.

02_memoria-idendita_joel-candauCome sottolineano Hamilakis e Yalouri (1996), l’archeologia si configura così come una forma di memoria ufficiale, istituzionalizzata, gerarchica, che spesso funge da strumento di legittimazione del potere. Quando si inserisce in paesaggi già densi di significati – come accade in luoghi come Gerusalemme, Hebron, Roma, Istanbul – essa contribuisce non solo a raccontare il passato, ma a modellare attivamente il presente e a predisporre il futuro, decidendo quale passato debba essere visibile, celebrato, salvato – e quale, invece, possa essere rimosso, dimenticato, coperto da nuove fondamenta.

Legittimazione socio-politica attraverso il passato

In molti contesti segnati da conflitti identitari, nazionali o religiosi, il passato diventa una risorsa politica cruciale. Non tanto per ciò che dice in sé, ma per ciò che consente di affermare nel presente. La memoria materiale – resti, rovine, iscrizioni, oggetti, siti – è infatti spesso usata per radicare una collettività nello spazio e nel tempo, producendo discorsi di legittimità che suonano familiari: “Siamo qui da sempre”, “Eravamo qui prima degli altri”.

Queste formule non sono innocue. La prima mira a ‘naturalizzare’ artificiosamente una presenza: se un gruppo può dimostrare di avere radici profonde, antiche, autoctone, allora la sua appartenenza al territorio non può essere messa in discussione. La seconda costruisce invece una gerarchia simbolica delle presenze: non siamo solo qui, ma ci siamo stati per primi, e dunque abbiamo più diritto di altri a restare, controllare, dominare. In entrambi i casi, l’archeologia offre la materia prima della narrazione, e spesso anche il suo linguaggio, la sua autorità.

Non è un caso che l’archeologia venga utilizzata come capitale simbolico, nel senso dato da Pierre Bourdieu: un bene culturale che accresce il prestigio, la legittimità, il potere di chi lo detiene e lo controlla. Disporre di un sito archeologico, di una stratificazione materiale del passato, equivale a disporre di una risorsa per affermare sovranità, non solo simbolica ma concreta. Chi possiede il passato possiede il territorio.

Le narrazioni archeologiche non sono mai neutrali: selezionano, interpretano, organizzano, gerarchizzano. E hanno conseguenze reali. Possono giustificare l’occupazione di un luogo come ritorno a una terra “antica”; possono legittimare espropri e demolizioni come operazioni di recupero o restauro; possono escludere comunità presenti etichettandole come “successive”, “esterne”, “estranee alla storia profonda del luogo”.

03_the-nation-and-its-ruins_yannis-hamilakisIn questo senso, l’archeologia agisce come una macchina narrativa e performativa del potere, perché non si limita a descrivere il passato, ma lo mette in scena, e in quella rappresentazione decide chi appartiene, chi ha diritto, chi viene incluso o escluso. È un’operazione simbolica, ma con implicazioni territoriali, legali e sociali estremamente concrete. E come vedremo nei casi concreti – a cominciare da Israele/Palestina – si tratta di un dispositivo tanto più efficace quanto più rivestito di neutralità scientifica, e tanto più politico quanto più si radica nei luoghi, si incarna nei paesaggi, si istituzionalizza nei musei, nei parchi archeologici, nei nomi.

L’archeologia nei territori contesi: il caso Israele/Palestina

Nel suo uso ideologico, l’archeologia non si limita a costruire identità collettive, ma contribuisce anche a definire chi è “altro”, chi non appartiene pienamente al paesaggio storico e, per estensione, nemmeno al presente politico. Questo processo opera spesso in modo silenzioso, attraverso pratiche apparentemente neutre come la selezione dei siti da scavare, le modalità di restauro, l’attribuzione di valore simbolico o l’inclusione nei circuiti della musealizzazione. In questo quadro, alcune presenze storiche vengono celebrate come “originarie” e “legittime”, mentre altre sono marginalizzate o rese invisibili. L’archeologia agisce così come un dispositivo di inclusione e di esclusione, che interviene sulla memoria collettiva e sul paesaggio, trasformandoli in strumenti di potere.

Tombe di Silwan, Israele-Palestina

Tombe di Silwan, Israele-Palestina

Un caso emblematico di queste dinamiche è rappresentato dalla complessa situazione in Cisgiordania, tra territori occupati, rivendicati e contesi. Qui l’archeologia è diventata uno dei terreni su cui si gioca la legittimazione della presenza israeliana, e in alcuni casi, della sua estensione giuridica. Secondo l’archeologo israeliano Rafi Greenberg, intervistato nel luglio 2025 da “+972 Magazine” (Taylor-Sheinman 2025) e ripreso in italiano da “Zeitun[1], il dibattito attuale ruota attorno a una proposta legislativa per estendere la giurisdizione dell’Autorità per le Antichità Israeliane (IAA) all’Area C della Cisgiordania. Tale iniziativa, formalmente presentata come una misura di tutela del patrimonio, è stata criticata da alcune organizzazioni come “Emek Shaveh”, formata da archeologi e attivisti che si oppongono all’uso politico dell’archeologia e che, anzi, promuovono un patrimonio condiviso e accessibile a tutte le comunità.

Una simile declinazione dell’archeologia, sostengono, sarebbe funzionale – sia sul piano giuridico che su quello simbolico – al consolidamento di un processo di annessione de facto: «Noi di Emek Shaveh la chiamiamo la militarizzazione dell’archeologia o modello Elad [2]. Colleghi archeologi si sono insediati in aree archeologiche e collegate ad abitazioni coloniche, ottenendo così il controllo di interi quartieri palestinesi».

05_emek-shaveh_logoIl punto critico, evidenzia ancora Greenberg, non è tanto l’interesse archeologico in sé, quanto l’uso politico che può derivarne. In un contesto già segnato da tensioni territoriali, il controllo dei siti archeologici può infatti contribuire a rafforzare narrative nazionali escludenti, che identificano la storia di un territorio con una sola identità culturale – in questo caso quella ebraica – marginalizzando o omettendo la pluralità delle presenze passate, comprese quelle palestinesi, cristiane e islamiche. Come in altri contesti, la trasformazione di rovine in parchi nazionali, musei o “luoghi della memoria” ha implicazioni che vanno oltre la conservazione: può diventare un atto performativo di territorializzazione: «Solo le persone che si legano a specifiche antichità di determinate epoche e culture hanno diritto al Paese. Gli altri no. Nessun diritto alla terra, alle sue antichità, a nulla».

Greenberg sottolinea anche come l’archeologia israeliana si sia storicamente sviluppata in continuità con le tradizioni coloniali ottocentesche europee, che spesso consideravano le popolazioni locali come estranee o ignoranti rispetto al loro stesso passato: «Qualsiasi lavoro da noi eseguito – anche in siti pre-ebraici – è considerato valido perché fatto per la scienza. Ma questa presunta neutralità è profondamente politica». L’adozione selettiva di determinati periodi storici – ad esempio l’enfasi sull’archeologia biblica a scapito di quella islamica – ha contribuito nel tempo a costruire un paesaggio simbolico che privilegia alcune identità rispetto ad altre.

Questo non significa, tuttavia, che tutta l’archeologia israeliana sia strumentale o univoca. Esistono voci critiche all’interno della stessa comunità accademica – come lo stesso Greenberg o le ONG impegnate nella tutela condivisa del patrimonio – che rivendicano una lettura più inclusiva e multilivello della storia del territorio. Ma tali posizioni restano minoritarie e talvolta marginalizzate, anche in virtù delle forti pressioni politiche e simboliche che agiscono sul campo del patrimonio culturale.

Emek Shaven, Partners for Progressive Israel

Emek Shaven, Partners for Progressive Israel

Nel 2016, ad esempio, una controversa risoluzione dell’UNESCO (ONU 2016), poi ribadita nel maggio 2017 (Times of Israel 2017), ha riconosciuto Gerusalemme Est come parte integrante dei territori palestinesi, suscitando forti reazioni da parte di Israele, che ha accusato l’agenzia ONU di ignorare o negare il legame storico e religioso del popolo ebraico con i luoghi santi della città (Staff 2017). In particolare, la risoluzione ha evitato di utilizzare l’espressione “Monte del Tempio”, adottando invece esclusivamente la denominazione islamica “Al-Haram al-Sharif”, fatto che molti hanno interpretato come una presa di posizione politica (Lazaroff 2017).

Questo episodio dimostra come i siti archeologici e monumentali non siano solo oggetti di tutela culturale, ma anche strumenti politici in una più ampia disputa identitaria, dove la competizione per il controllo del territorio si gioca attraverso la narrazione del passato, la selezione dei nomi e il riconoscimento delle memorie [3].

Emek Shaveh, Privatized heritage

Emek Shaveh, Privatized heritage

Produzione di alterità e xenofobia implicita

Quando l’archeologia diventa una forma di sovranità culturale preventiva, allora le operazioni di scavo, la musealizzazione e la valorizzazione vengono compiute senza coinvolgimento delle comunità locali. Ciò conduce a una narrazione netta, ossia: “questo è il nostro passato, e quindi questa è la nostra terra”. Evidentemente, non si tratta solo di controllo territoriale, ma anche di produzione di senso, perché, in questi casi, l’archeologia serve a costruire una geografia morale e politica, dove l’appartenenza si misura in secoli e la legittimità si deposita nella pietra.

A livello teorico, possiamo leggere questa dinamica come una forma di monumentalizzazione selettiva: si musealizza ciò che serve alla legittimazione, si “restaura” per affermare un diritto, si congela il passato in una grammatica narrativa di conquista: una sorta di apparato coloniale interno, che prende storie e oggetti e li reinscrive nella logica dello Stato-nazione, spesso a spese delle memorie non egemoni.

Come si può intuire, un meccanismo del genere produce una forma di xenofobia culturale sistemica, che non si esprime attraverso discorsi esplicitamente razzisti, ma attraverso dispositivi selettivi della memoria materiale. Si tratta di una xenofobia architettonica, museale, paesaggistica, che opera attraverso la gestione asimmetrica del patrimonio. E su questo, purtroppo, i casi storici e contemporanei non mancano.

Archeologia coloniale XIX sec. Egitto-Francis Frith

Archeologia coloniale XIX sec. Egitto-Francis Frith

Nel XIX secolo, le potenze coloniali europee utilizzarono l’archeologia per legittimare la propria presenza in Egitto, in Mesopotamia, nel Levante, presentandosi come restauratrici di civiltà sepolte, mentre al tempo stesso negavano ogni valore culturale alle popolazioni locali, descritte come decadenti o incapaci di custodire il proprio passato. L’archeologia coloniale fu in questo senso uno strumento di egemonia epistemica e culturale, che trasformava il patrimonio altrui in memoria appropriata.

Lo stesso schema si ritrova nel nazionalismo archeologico del Novecento, ad esempio quando la Germania nazista impiegò l’archeologia per affermare la superiorità ariana: gli scavi dell’Ahnenerbe (Eredità Ancestrale, il dipartimento archeologico delle SS) cercavano tracce della presenza primigenia dei Germani, cancellando ogni contributo “non germanico” alla storia europea (Filiè 2019). La selettività non riguardava solo il passato, ma prefigurava un ordine razziale e territoriale per il presente e per il futuro. Questo condusse, tra gli altri, a un progetto di documentazione etnografica e culturale in Alto Adige tra il 1939 e il 1942, con l’obiettivo di registrare e preservare gli elementi della cultura germanica da “trapiantare” nel Terzo Reich, in previsione del trasferimento della popolazione germanofona previsto dalle “opzioni”. Vennero censiti masi, castelli, canti, usanze e archivi: una forma di archeologia dell’identità etnica in chiave razziale (Bertorelle 2014). Ma questa attitudine si allungò addirittura fino in Calabria, dove i nazisti cercarono per settimane la leggendaria tomba del re visigoto Alarico, sepolto – secondo la tradizione – alla confluenza dei fiumi Busento e Crati, a Cosenza (Lincos, Stilo 2024).

Early tourist Pyramidis ancient Egypt

Early tourist Pyramidis ancient Egypt

Nei contesti contemporanei, le stesse logiche si ripresentano con nuove forme. In Turchia, la narrazione ufficiale ha spesso negato o sminuito la presenza storica di armeni, greci e curdi, distruggendo chiese, monasteri e cimiteri o reinterpretandoli in chiave turca. Un caso emblematico è quello della cattedrale di Ani, situata nell’attuale provincia turca di Kars: un tempo capitale del regno medievale armeno e centro nevralgico della civiltà cristiana orientale, Ani rappresenta uno dei massimi simboli storici e spirituali dell’Armenia. Oggi, tuttavia, la cattedrale – dopo un restauro ufficiale che ha cancellato ogni riferimento alla sua origine armena – viene presentata come “Moschea di Fethiye”, svuotata della sua identità cristiana e reinserita in una narrazione islamico-turca (The Armenian Report 2025). Si tratta di un esempio chiaro di riappropriazione simbolica e riscrittura del paesaggio storico, in cui la monumentalità viene preservata, ma il senso storico e culturale viene depotenziato o negato, rendendo l’alterità invisibile.

In India, il nazionalismo indù ha promosso una visione della storia incentrata su una continuità ariana e vedica, relegando l’islam a una parentesi “esterna” e “invasiva”. Il caso della moschea Babri di Ayodhya, demolita da estremisti indù nel 1992 per affermare la supremazia del tempio di Rama, è un chiaro esempio di come l’archeologia possa essere usata come prova “storica” in contenziosi religiosi e territoriali (Bernbeck 1996). In questo quadro, la pretesa di scientificità dell’archeologia funge da dispositivo di legittimazione ideologica; infatti, come sottolinea Anne-Julie Etter (2020) nel suo studio sull’archeologia e il nazionalismo indù in India, i dati archeologici vengono spesso mobilitati per “materializzare” tesi identitarie e nazionali, conferendo loro l’apparenza di fatti empirici e oggettivi:

«Archaeology has a double function, whose respective borders tend to overlap: a scientific one, which is to produce and disseminate knowledge about the past, and an ideological one»[4] (Etter 2020: 1).
Ahnenerbe rune, occultismo nazista

Ahnenerbe rune, occultismo nazista

In altri termini, si tratta di una strategia epistemica: dietro la neutralità metodologica si cela un progetto politico, che seleziona, distorce o inventa evidenze al servizio di una visione esclusiva e maggioritaria della nazione. L’archeologia, così, smette di essere strumento di conoscenza per diventare macchina della verità pubblica, dove ciò che viene “scoperto” è già deciso in anticipo dal bisogno ideologico.

In Cina, il governo ha promosso una politica di sinizzazione del passato, soprattutto in regioni periferiche e minoritarie come il Tibet o lo Xinjiang. Le rovine buddhiste o islamiche vengono restaurate, riscritte o strumentalizzate per dimostrare la “naturale appartenenza” di quei territori alla civiltà cinese. Le tracce materiali dell’autonomia culturale delle minoranze vengono minimizzate o cancellate, e l’archeologia diventa strumento di controllo simbolico del paesaggio. Come denuncia la testimonianza del Committee for Cultural Policy and Global Heritage Alliance (2023), presentata al Cultural Property Advisory Committee del Dipartimento di Stato USA,

«China’s state-led archaeological programs in regions like Xinjiang and Tibet do not aim to preserve minority heritage but to redefine it within a Han-centric narrative. Temples, shrines, and ancient settlements are restored only after their meanings are altered or sanitized to fit the narrative of national unity»[5] (Committee for Cultural… 2023).

Se ciò che viene presentato come tutela del patrimonio è spesso un’operazione di reinscrizione ideologica, allora il paesaggio viene purificato, semplificato e assimilato. In questo modo, gli edifici sacri uiguri o tibetani sopravvivono, ma svuotati del loro significato originario e reinseriti come quinte sceniche di una narrazione storica centrata sull’etnia Han e sulla legittimità dello Stato, per cui la sinizzazione non distrugge soltanto, ma riscrive e incorpora.

Palmyra distrutta da Isis

Palmyra distrutta da Isis

Andando indietro nel recente passato, esistono casi in cui la distruzione del patrimonio è esplicita e ideologica: tra il 2014 e il 2017, lo Stato Islamico (ISIS) ha condotto una vera e propria campagna di pulizia culturale in Siria e Iraq, devastando siti di fondamentale importanza come Palmyra, Nimrud, Hatra e molte altre città antiche (Anderson 2015). L’obiettivo era duplice: da un lato eliminare le tracce di civiltà pre-islamiche, considerate “idolatriche”; dall’altro attrarre attenzione mediatica per rafforzare l’identità del proprio movimento mediante la distruzione esibita e spettacolarizzata delle testimonianze del passato (Chulov 2015). Si è trattato di una “performative destruction”, come l’ha efficacemente definita Gil J. Stein (2022), cioè una distruzione ideologica messa in scena, volta a cancellare la pluralità delle storie locali e imporre una narrazione univoca. È il caso di Nimrud, dove oltre il 90% del sito è stato completamente raso al suolo, oppure di Hatra e del Museo di Mosul, dove l’ISIS ha demolito templi, statue Lamassu e il palazzo di Assurbanipal.

Ma forse l’episodio più tragico e simbolicamente potente si è consumato a Palmyra, dove il 18 agosto 2015 i miliziani jihadisti hanno decapitato Khaled al-Asaad, archeologo e direttore del sito per oltre quarant’anni, colpevole di essersi rifiutato di rivelare il nascondiglio dei reperti più preziosi. Il suo corpo è stato oscenamente esposto nella piazza centrale della città, appeso a una colonna antica, con un cartello che lo accusava di essere un “apostata blasfemo” (MacDonald 2015).

Il gesto – oltre che efferato – è stato un atto deliberato di esecuzione pubblica della memoria, un messaggio a chiunque osi opporsi alla distruzione della storia. Palmyra, in quel momento, è diventata non solo un teatro di devastazione, ma un luogo sacrificale, in cui la conoscenza stessa del passato è stata messa a morte.

Già nel marzo 2001, pochi mesi prima dell’11 settembre, il regime talebano in Afghanistan ordinò e portò a compimento la distruzione dei Buddha Giganti della valle di Bamiyan, in nome di un’ideologia iconoclasta fondata sull’interpretazione più radicale del monoteismo islamico. Le statue, scolpite tra il VI e il VII secolo, erano imponenti testimonianze della cultura buddhista lungo la Via della Seta, riconosciute come patrimonio mondiale dell’umanità dall’UNESCO e divenute simbolo globale della violenza contro la memoria. La loro cancellazione non fu solo un gesto religioso o teologico, ma un atto politico: una volontà esplicita di spezzare il legame con un passato pluralista, multiconfessionale e cosmopolita. Distruggere quei colossi di pietra significava affermare una rottura radicale, rendere visibile l’imposizione di un nuovo ordine fondato sull’uniformità e sulla paura [6].

Khaled al Asaad a  Palmyra, 2002 (ph. Marc Deville Gamma Rapho)

Khaled al Asaad a Palmyra, 2002 (ph. Marc Deville Gamma Rapho)

Va infine ricordato che la valle di Bamiyan è abitata dagli Hazara, una minoranza etnica e religiosa storicamente associata al buddhismo e successivamente convertita all’islam sciita, sistematicamente perseguitata fin dalla fine del XIX secolo. La distruzione dei Buddha fu quindi anche un atto di cancellazione culturale [7] di questa comunità, che in quelle statue riconosceva non solo un’eredità spirituale, ma una presenza storica radicata nel territorio.

Per concludere questo triste elenco, che purtroppo potrebbe continuare, non si può non ricordare quel che è avvenuto in Europa durante le guerre degli anni ’90 in ex-Jugoslavia, la distruzione sistematica di siti religiosi e monumenti storici – dalle moschee ottomane alle chiese ortodosse, fino al celebre ponte di Mostar – fu impiegata come arma di pulizia etnica simbolica: un “memoricidio”, ha detto András Riedlmayer (1995), che, nel caso di Sarajevo, è diventato un “urbicidio”, cioè un «tentativo di distruzione sistematica del suo patrimonio, al fine di cancellare la storia della città e il passato del Paese, dove per secoli, seppur con qualche difficoltà, popolazioni differenti erano riuscite a convivere, a condividere gli stessi spazi» (Pasini 2020). In altri termini, non si è trattato solo di eliminare l’avversario fisicamente, ma di cancellarne la presenza storica e culturale, di estirparlo anche dalla memoria del paesaggio. Demolire luoghi sacri, abbattere ponti, annientare tracce visibili dell’altro significava riscrivere la geografia dell’identità, rivendicando non solo il controllo del territorio, ma il diritto esclusivo a definirne il passato e a progettarne il futuro.

Il paesaggio stesso – fatto di pietre, minareti, cupole e mura – diventava così un campo di battaglia simbolico, in cui si combatteva per l’eredità della storia e per l’anima dei luoghi.

Afgaìhanistan, Buddah Giganti Bamyyan

Afgaìhanistan, Buddah Giganti Bamyyan pre

Ma l’archeologia è anche un campo di possibilità

Come abbiamo visto, l’archeologia non è mai neutra e non è solo una scienza del passato, ma un dispositivo del presente capace di produrre appartenenze, legittimare poteri e cancellare alterità. Che si tratti dei Buddha di Bamiyan, della Città di David a Gerusalemme Est, del Ponte di Mostar o del Teatro romano di Palmyra, l’archeologia si è rivelata profondamente coinvolta nei conflitti contemporanei; non come spettatrice, ma come attrice. In questo senso, l’archeologia non è più solo una disciplina accademica, ma si configura come un campo di tensione e di possibilità: tensione, perché attraversata da conflitti, appropriazioni e cancellazioni; possibilità, perché può diventare uno strumento di giustizia culturale, riconoscimento e dialogo.

Esistono segnali concreti in questa direzione, come testimoniano alcune esperienze accademiche innovative: il master internazionale DYCLAM+ (Dynamics of Cultural Landscape and Heritage Management), ad esempio, dal 2019 al 2024 ha riunito università e partner di diversi Paesi europei (Francia, Portogallo, Romania, Italia) con l’obiettivo di formare esperti capaci di affrontare le sfide del patrimonio in contesti di conflitto, crisi identitarie e tensioni geopolitiche. Il programma, in cui ho avuto l’onore di insegnare, sottolinea come la gestione del patrimonio non possa più essere separata dalla diplomazia culturale, dalla mediazione interculturale e dalla costruzione di memorie condivise:

«Les conflits du début du Troisième millénaire ont révélé l’enjeu géopolitique majeur que représente le Patrimoine : symbole attaqué en tant que tel, source de revenus illicites, facteur de tensions. La destruction de l’Arche de Palmyre a provoqué une émotion universelle. La vandalisation, l’instrumentalisation ou la privation du Patrimoine (matériel ou immatériel) ne sont pas un fait nouveau» [8].

Il patrimonio è oggi un campo di battaglia simbolico, ma anche un potenziale spazio di riconciliazione. Per questo, ripensare l’archeologia non significa solo adottare nuovi metodi o strumenti tecnologici, ma anche e soprattutto ridefinire le responsabilità sociali ed etiche degli archeologi. A partire dalla domanda fondamentale: “chi ha diritto di raccontare il passato? E per conto di chi?”.

Afgaìhanistan, Buddah Giganti Bamyyan post

Afgaìhanistan, Buddah Giganti Bamyyan post

Nel momento in cui scava, nomina, seleziona, espone, essa costruisce visibilità e, al tempo stesso, nega ciò che resta fuori campo. Ma proprio in quanto terreno di conflitto, l’archeologia sta diventando anche spazio di resistenza e di reinvenzione, per cui è urgente ripensarla come pratica dialogica, non più finalizzata al possesso esclusivo del passato, ma all’emersione di memorie plurali. In tutto il mondo, comunità marginalizzate stanno rivendicando il diritto di raccontare le proprie storie attraverso ciò che resta. Dalle narrazioni afrodiscendenti negli USA e in Brasile che riscoprono e musealizzano i luoghi della schiavitù, ai popoli indigeni che chiedono di “decolonizzare” gli archivi e i musei (Funari et all. 1999; Horton et all. 2009), fino alle forme di heritage bottom-up promosse da ONG locali o movimenti sociali, si sta aprendo una nuova stagione di archeologia pubblica e partecipata (Meskell 2020).

Ponte di Mostar, ex Yugoslavia

Ponte di Mostar, ex Yugoslavia

Come ricordava Rafi Greenberg, la vera posta in gioco non è il reperto in sé, ma il modo in cui lo si usa per costruire una narrazione politica del territorio. Progetti come “Emek Shaveh” promuovono un’archeologia critica, accessibile e inclusiva, dimostrando così che un altro approccio è possibile. Evidentemente, l’archeologia può diventare spazio di ascolto, di cooperazione interetnica, di tutela condivisa del patrimonio come bene comune, anziché come marchio identitario.

Certo, considerati i violenti estremismi contemporanei tutto ciò può sembrare utopico, eppure ogni uso pacificatore del passato – ogni volta che si sceglie di ricordare insieme, piuttosto che dividersi sul ricordo – è già una forma di resistenza alla logica della sopraffazione. È innanzitutto una postura: l’heritage può essere usato per escludere, ma può essere usato anche per includere. Dipende da come noi – studiosi, cittadini, archeologi, antropologi… – scegliamo quale eredità vogliamo trasmettere, e come. 

Dialoghi Mediterranei, n. 75, settembre 2025
Note
[1] La versione italiana di “Zeitun” è qui: https://zeitun.info/2025/07/03/fa-parte-del-territorio-come-gli-archeologi-israeliani-legittimano-lannessione/
[2] Per “modello Elad” si intende una strategia di appropriazione territoriale che combina insediamento colonico e gestione di siti archeologici, specie nel quartiere palestinese di Silwan a Gerusalemme Est, come promosso dalla ONG israeliana Elad (El Ir David), che promuove la “città di Davide” come parco archeologico e, allo stesso tempo, sostiene l’insediamento di famiglie ebraiche nella zona.
[3] Si tratta di un tema particolarmente evidente anche nella toponomastica, come mostra il caso della Germania, che in un solo secolo ha cambiato cinque regimi politici e altrettanti nominazioni di strade, piazze e città (Gugg 2025).
[4] Traduzione in italiano: «L’archeologia ha una doppia funzione, i cui rispettivi confini tendono a sovrapporsi: una scientifica, che consiste nel produrre e diffondere la conoscenza del passato, e una ideologica».
[5] Traduzione in italiano: «I programmi archeologici statali cinesi in regioni come lo Xinjiang e il Tibet non mirano a preservare il patrimonio culturale delle minoranze, ma a ridefinirlo all’interno di una narrazione incentrata sulla cultura Han. Templi, santuari e antichi insediamenti vengono restaurati solo dopo che il loro significato è stato alterato o ripulito per adattarsi alla narrazione dell’unità nazionale».
[6] L’intera vicenda è stata efficacemente raccontata nel documentario “The Giant Buddhas” di Christian Frei (2005), che ne restituisce la complessità simbolica e geopolitica. Per la sinossi del film, si veda: http://www.giant-buddhas.com/en/synopsis/ (30 luglio 2025).
[7] Il termine tecnico è “etnocidio”, cioè la «distruzione sistematica dei modi di vita e di pensiero differenti» (Clastres 1974), una forma di annientamento culturale che non richiede necessariamente la soppressione fisica delle persone (si veda anche: Giuricin 2016).
[8] Traduzione in italiano: «I conflitti dell’inizio del terzo millennio hanno rivelato la grande posta in gioco geopolitica che il patrimonio rappresenta: un simbolo attaccato in quanto tale, una fonte di reddito illecito, un fattore di tensione. La distruzione dell’Arco di Palmira ha suscitato preoccupazione universale. La vandalizzazione, la strumentalizzazione o la privazione del Patrimonio (materiale o immateriale) non sono una questione nuova». La presentazione del master si trova sul sito-web della Université Jean Monnet di Saint-Etienne: https://masterdyclam.univ-st-etienne.fr/en/the-dyclam-master/a-unique-master-in-europe.html (2 agosto 2025). 
Riferimenti bibliografici
Anderson, Jon Lee (2015): “ISIS and the Destruction of History”, in “The New Yorker”, 18 marzo: https://www.newyorker.com/news/daily-comment/isis-and-the-destruction-of-history (16 luglio 2025).
Bernbeck, Reinhard; Pollock, Susan (1996): “Ayodhya, archaeology, and identity”, in “Current Anthropology”, vol. 37, supplemento, febbraio: https://www.academia.edu/1249696/Ayodhya_archaeology_and_identity (4 agosto 2025).
Bertorelle, Carlo (2014): “Quando le SS di Hitler catalogavano il folklore”, in “Alto Adige”, 24 settembre: https://web.archive.org/web/20160201095123/http://altoadige.gelocal.it/tempo-libero/2014/09/24/news/quando-le-ss-di-hitler-catalogavano-il-folklore-1.9993618 (4 agosto 2025).
Candau, Joel (2002): La memoria e l’identità, Napoli, Ipermedium.
Chulov, Martin (2015): “A sledgehammer to civilisation: Islamic State’s war on culture”, in “The Guardian”, 7 aprile: https://www.theguardian.com/world/2015/apr/07/islamic-state-isis-crimes-against-culture-iraq-syria (28 luglio 2025).
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Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia culturale è assegnista di ricerca presso il LESC (Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie Comparative) dell’Université Paris-Nanterre e del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) e docente a contratto di Antropologia urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli. Attualmente è scientific advisor per ISSNOVA (Institute for Sustainable Society and Innovation) e membro del consiglio di amministrazione del CMEA (Centro Meridionale di Educazione Ambientale). I suoi studi riguardano il rapporto tra le comunità umane e il loro ambiente, soprattutto quando si tratta di territori a rischio, e la relazione tra umani e animali, con particolare attenzione al contesto giuridico e giudiziario. Ha recentemente pubblicato per le edizioni del Museo Pasqualino il volume: Crisi e riti della contemporaneità. Antropologia ed emergenze sanitarie, belliche e climatiche.

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