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Percorsi della memoria tra antropologia e storia: le Ausiliarie di Salò
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2020 @ 01:35 In Cultura,Società | No Comments
di Annalisa Di Nuzzo
Memoria storia identità
I momenti celebrativi di una memoria collettiva rendono tangibili i totem identitari, così come è accaduto nel corso degli ultimi decenni a seguito dell’istituzione del Giorno della memoria per l’Europa e le nazioni che la compongono. La questione ha a che fare con i rapporti tra storia, memoria, identità.
La lunga citazione di Nietzsche ripropone una provocazione da cui vorrei partire per definire l’utilità ed il danno della storia oggi e di come questa analisi, ancora attuale, sia continuamente disattesa, nonostante sia essa stessa, ormai, ampiamente storicizzata.
Lo studio del passato può avvenire, secondo la stessa terminologia nietzschiana, in modo antiquario, monumentale e infine critico, ed è solo in quest’ultimo senso che la storia è al servizio della vita, diventa qualcosa di salutare, qualcosa che promette un avvenire. Selezionare ciò che è fondante e deve essere trasmesso, ciò che ha lo spessore del ricordo vissuto nel presente, diventa assai difficile in una condizione di eccesso di senso e di eventi che caratterizza la nostra epoca, determinando quella densità attraverso la quale il tempo storico sembra delinearsi. Distinguere ciò che è superfluo da ciò che ha persistenza ed è radice di ciò che diviene, assume, inevitabilmente, oggi la dimensione di un divenire connotato da uno spazio e da un tempo legato alle ultime generazioni dei mezzi di comunicazione (Di Nuzzo, 2002).
La dimensione spazio-temporale sembrerebbe destrutturata, attraverso Internet e il web, in un eterno e apparentemente de-storicizzato presente, senza luogo né concatenazioni, in cui si confonde il superfluo con il necessario, la persistenza con l’effimero transeunte. Il rischio per le giovani generazioni, e non solo, è quello di smarrire il senso della memoria attraverso una a-critica attualizzazione che non restituisce il senso delle proprie radici. Tutto resta sullo sfondo e lo spaesamento produce insospettabili crisi e paradossi socio politici. Siamo di fronte a quello che Marc Augé definisce la «surmodernità», l’accelerazione della storia come affollamento di eventi, una storia caratterizzata dalla mondializzazione e da infiniti livelli di accadimenti, affannosamente inseguiti, sempre sospesi tra cronaca e spettacolo (Augé, 1997: 9).
Cosa resta allora della storia e della memoria che costruisce processi identitari, appartenenze, e radici di senso? Sembra definitivamente giunta la fine delle grandi narrazioni, vale a dire dei grandi sistemi di interpretazione che pretendevano di rendere conto dell’evoluzione dell’umanità nella sua totalità, insieme alla crisi dell’idea di un progressivo e coerente rapporto tra un prima e un poi, definitivamente arenatasi tra le atrocità delle guerre mondiali, dei totalitarismi e delle politiche di genocidio, che certamente non testimoniano un grande progresso morale dell’umanità. Si scardina così uno dei grandi concetti storico-politici che hanno guidato la storia del Novecento: l’idea di nazione definitivamente in crisi nella post-modernità; le si riconosce attraverso un uso critico della storia, il suo carattere mitico, fondativo di un’identità costruita attraverso artifici della memoria collettiva:
Alla luce di queste riflessioni, nelle pagine che seguono si intende ricostruire attraverso il rapporto proficuo tra storia e antropologia un frammento della storia delle donne in Italia durante la Seconda guerra mondiale.
La partecipazione delle donne alla Seconda guerra mondiale
La Seconda guerra mondiale, ancor più della prima, vede coinvolte le donne tra distruzioni della guerra aerea, restrizioni alimentari, perdita dei propri cari e i drammi estremi delle persecuzioni. Nel corso del lungo incubo bellico, matura drammaticamente, in special modo dopo l’8 settembre 1943 – quando l’Italia vive la sua devastante guerra civile – un nuovo sentimento femminile di autosufficienza e di autostima. Questo nuovo sentire era legato alle supplenze esercitate durante quattro anni di guerra e perfino alle precedenti esperienze nel Ventennio, che avevano dato alle donne la possibilità di dimostrare di essere capaci di far fronte a ogni necessità. In questo contesto si inscrive lo specifico fenomeno delle donne soldato che imbracciano un fucile e interpretano valori tradizionalmente maschili.
Il tema delle donne in armi, che è insieme antropologico e politico, consente forse di guardare da angolazioni nuove non solo la storia delle donne, ma l’intera storia civile (De Luna, 2007 e 2008) Nell’Italia spaccata in due del biennio 1943/45, le donne, partigiane o fasciste che fossero, combatterono e soffrirono con gli uomini e quanto gli uomini. Ed è in quest’ottica che merita attenzione la costituzione del corpo scelto delle ausiliare di Salò, creato per assistere l’esercito della Repubblica Sociale e istituzionalizzato dal regime fascista, ma pressoché svanito dalla memoria storica.
Le Ausiliarie della Repubblica di Salò entrarono a far parte di vari corpi: le Volpi Argentate, la Decima Mas, le Brigate Nere, con compiti diversi. È certamente complesso il rapporto che il femminile, di volta in volta, ha instaurato con la violenza istituzionalizzata, vissuta coerentemente attraverso valori e modalità convenzionalmente ritenuti maschili. Tradizionalmente, la violenza delle donne si era già più volta manifestata nelle vicende della storia come motore esplosivo di folle domestiche, improvvisate e devastanti (Duby e Perrot, 1993). Durante questi drammatici anni, invece, le donne vengono inquadrate, riconosciute, addestrate alla partecipazione degli eventi bellici e della guerra civile che ne seguì da una parte e dall’altra. Anche se il fenomeno delle Ausiliarie è stato poco indagato, non poche sono state le pubblicazioni che se ne sono occupate. La bibliografia si polarizza, per lo più, su due versanti di prospettiva interpretativa: quello dell’agiografia nostalgica e celebrativa e quello di decisa condanna, che è alla fine, una condanna politica.
Un’espressione ufficiale di ripensamento nei confronti del ruolo ricoperto da queste donne fu probabilmente il discorso di insediamento da presidente della Camera dei Deputati di Luciano Violante il 10 maggio 1996, che da “sinistra” rivendicò la dignità delle tensioni ideali che mossero le ragazze di Salò a cercare forme di eroismo e sacrificio verso “una patria”. Bollato con l’accusa di revisionismo e di superficialità storica, il discorso fu relegato, nel dibattito che ne seguì, nella pura dimensione accademica. Mi sembra, invece, utile indagare tra le pieghe di questo fenomeno e, soprattutto, renderlo noto per illustrare aspetti poco indagati dell’identità femminile e fornire opportune comparazioni. Si tratta di “rileggere” alcuni aspetti delle testimonianze e delle documentazioni storiche in chiave antropologica e di utilizzare sia le fonti “calde” sia quelle “fredde”. Costruzioni di ruolo, dimensione pubblica e privata, rapporti con il maschile, struttura organizzativa del corpo delle Ausiliarie e fedeltà agli ideali sono alcune delle cifre interpretative con le quali provare a comprendere la scelta di queste “ragazze”.
A partire da questi materiali è possibile individuare anche le motivazioni dell’arruolamento (che avveniva non necessariamente solo per seguire i propri fratelli, compagni, mariti), il grado di consapevolezza e le modalità dell’uso della violenza e delle armi, le capacità di combattere e di partecipare alle azioni armate, il trattamento riservato loro da parte dei nemici durante le detenzioni, l’atteggiamento delle stesse durante gli interrogatori, come vissero i rapporti di potere e personali, comprese le affettività e le relazioni d’amore. Interessante risulta anche l’analisi di come il contesto familiare percepì la scelta di queste donne e di come esse, a loro volta, vissero “il rientro” nelle loro vite private.
Attraverso questi elementi di ricostruzione si determina una proficua specularità tra storici e antropologi che apre a nuovi sguardi ed è tesa a colmare i vuoti reciproci, in modo da creare nuovi punti di osservazione per interpretare e ricostruire la memoria collettiva. Il problema si pone soprattutto per la storiografia europea contrassegnata talvolta dalla vocazione a voler essere anche mitografia. Emerge sempre più la necessità di un addestramento reciproco per operare con l’ausilio di tre strumenti di indagine: museo, archivio, campo. In questi ultimi anni, un ulteriore ravvicinamento tra storici e antropologi si è determinato soprattutto in relazione all’Antropologia delle società complesse. Lo studio da parte degli antropologi delle società post-modernità rende necessario esplorare la storia delle comunità oggetto delle indagini etnografiche anche attraverso fonti documentate unitamente al diverso modo di “trattarle” (Viazzo, 2000).
Bisogna procedere sempre di più con questi strumenti di analisi per impedire, nel caso specifico, che queste donne siano stritolate dall’implacabile ingranaggio fascismo/antifascismo, pur restando un punto fermo il giudizio sulle responsabilità di scelte che condussero ad una appartenenza piuttosto che ad un’altra. Queste donne italiane, in quel momento storico, vissero sia come ausiliare, sia come partigiane, una dimensione pubblica intrisa di elementi di fondo simili, pur a partire da punti di vista diametralmente opposti.
Il Servizio Ausiliario Femminile della Repubblica di Salò venne istituito con Decreto Ministeriale N. 447 del 18 aprile 1944. Vi potevano entrare le donne tra i 18 e i 45 anni. Mussolini ritenne importante la creazione di un corpo speciale come quello delle ausiliarie che, seppure non rispondesse alle necessità primarie e vitali della neonata repubblica, forse in qualche modo appagava la strumentalizzazione di un folklore stereotipato e di una retorica dell’esteriorità che aveva connotato il primo fascismo.
L’iniziativa mussoliniana riscosse un grande successo: presentarono domanda di arruolamento nel SAF oltre seimila donne appartenenti ad ogni ceto sociale e provenienti da ogni parte dell’Italia, alcune minorenni, parecchie madri e mogli. Lo stipendio oscillava tra le 700 lire del personale di concetto e le 350 lire del personale di fatica. All’interno del corpo le donne svolgevano ruoli e compiti diversi: dalle donne di pulizia alle impiegate alle combattenti. Nel SAF ogni dipendente era soggetta alla giurisdizione penale militare. Si distribuirono, come già detto, in tre corpi distinti, Decima Mas, Brigate Nere, Volpi Argentate, con diversi regolamenti da rispettare in particolare nell’uso delle armi. La X Flottiglia Mas ebbe il SAF autonomo da quello per l’Esercito e per la Guardia Nazionale Repubblicana e fu inquadrata alle dipendenze del sottosegretario alla Marina della Guerra Repubblicana. Il comandante Valerio Borghese designò alla sua guida Fede Arnaud Pocek (veneziana, classe 1921 sceneggiatrice e aiuto regista)) che, prima del luglio 1943, si era distinta nel dirigere il settore sportivo del Gruppo Universitario Fascista e, dopo l’armistizio, divenne funzionario del Ministero dell’Economia Corporativa, poco rassegnata a vivere tra le scartoffie d’ufficio la sua esperienza nella Repubblica Sociale. Le ausiliarie normalmente non erano armate, ma durante i corsi erano addestrate all’uso delle armi e sia nella X che nelle Brigate Nere parteciparono attivamente ad azioni armate come accadde nella pianura di Nettuno o sulla Linea Gotica.
Le donne uscite da questi corsi vennero scherzosamente chiamate “Balilline”, in quanto la loro età minima di arruolamento era di soli 16 anni. Le Volpi Grigie furono una sorta di corpo di giovanissime spie che in qualche caso si infiltrarono nelle zone del Paese liberate dagli Alleati. Erano il reparto più avventuroso; un gruppo di combattenti uomini e donne addestrato dai tedeschi per attraversare le linee nemiche. Ma al di là della struttura organizzativa resta da chiarire perché Mussolini istituì un corpo del genere e perché tante ragazze vi aderirono. Il Duce in persona, con la sua politica rivolta al mondo femminile, fu il creatore di un singolare legame donna-fascismo. Il suo progetto politico mirò alla formazione di una “nuova italiana”, la donna fascista, attraverso un cambiamento della sua dimensione quotidiana che coinvolse sia gli aspetti più intimi e personali, quali la gestione del corpo, sia la formazione e l’inserimento sociale.
Si tentava di dare alle donne la possibilità di essere valorizzate e rese autonome nelle loro scelte e nelle loro prospettive. Il Duce tentò di staccarsi dalla tradizione che il primo fascismo aveva accolto, dove si esaltava solo la prolificità delle madri: ora invece erano messe al bando la riservatezza, il silenzio, la timidezza, il sentimentalismo e, pur restando la maternità e la famiglia il perno della vita di ogni donna, tutto lo stile di vita doveva essere impregnato di energia, coraggio, fierezza, decisione rapide, voce alta ed espressione schietta di sé. «Le donne risposero con impegno e capacità inattese, era emancipazione, checché se ne dica» (Poli, 2013: 47).
I motivi di una scelta
Le ragazze aderirono per diversi motivi: per fedeltà a un regime che consideravano immutabile e per un amore viscerale nei confronti di Mussolini. Il Duce era una specie di idolo, un padre-amante insostituibile. Una ragazza di Salò racconta l’incontro con il Duce e di quei “lacrimoni” versati per l’immensa gioia di essere passata finalmente sotto il suo sguardo:
Spesso appena adolescenti, le componenti del SAF si lasciarono in qualche modo rapire dalla tentazione di una nuova emancipazione e abbracciarono la causa con una passione estrema. Se da un lato esse furono affascinate dal fascismo e dal suo Duce, dall’altra furono le prime in Italia a essere inquadrate in un corpo militare che dava loro l’opportunità di uscire da quel ruolo tipicamente femminile che avevano sempre avuto. In altre parole, esse mettevano in pratica quella voglia di emancipazione che già altre generazioni avevano vissuto e che in altri Paesi si era già concretamente avviata. L’educazione e la propagande del Regime avevano poi fatto il loro corso; una propaganda e una pedagogia che già nei primi anni del Ventennio inculcava alle ragazze che il bene della Patria faceva parte della sacra missione della donna e di come la Madre era insignita della gloria di educare la prole a questo ideale. Patria /Madre un binomio che diventa inscindibile, antico e radicato anche se viene declinato diversamente dal regime.
Teresa Labriola, una delle più note intellettuali del tempo, aveva entusiasticamente aderito al programma dell’Associazione nazionalista, nonostante la sua formazione familiare. Per certi aspetti, la sua svolta politica dalla sinistra alla destra richiamava quella dello stesso Mussolini e di altri esponenti della “generazione del fronte” (Prima guerra mondiale per intenderci). Il socialismo marxista era quasi una seconda natura per la Labriola, figlia del grande filosofo e attivista politico napoletano. Teresa, il cui ingegno volubile e salottiero aveva ben poco assimilato della filosofia marxista, aveva al pari di Mussolini una mentalità elitaria, imbevuta del volontarismo comune a un’intera generazione di intellettuali. Ammirava l’idealismo di Giovanni Gentile, col quale aveva studiato, e preferiva l’iconoclastia di George Sorel e Friedrich Nietzsche alle leggi inesorabili del marxismo della Seconda internazionale. Secondo Teresa, solo nuove, fresche avanguardie, abbandonando l’inetto riformismo del movimento socialista italiano, avrebbero costruito una nuova Italia; avrebbero ripudiato l’agnosticismo liberale per infondere nel popolo italiano una nuova “eticità”. Questa élite per la Labriola era soprattutto al femminile: fin dal 1908 parlava della «capacità di sacrificio, peculiare della donna» che la rendeva l’unico soggetto capace di ricomporre il «contrasto tra le esigenze dell’individuo e quelle della specie» (Taricone,1994: 45). La sua visione delle donne italiane come campionesse di un nuovo ordine sociale fondato sulla revisione dei concetti di razza, nazione e Stato, era accattivante. La stessa figlia prediletta del Duce, Edda Ciano Mussolini, continuerà a sostenere negli ultimi anni della sua vita che il fascismo aveva dato modo che si realizzasse un femminismo di destra.
Il fascismo aveva costruito una nuova identità femminile, come le interviste raccolte da Ulderico Munzi ci danno l’opportunità di esaminare. Le “voci” di queste donne risentono del lessico e della propaganda del tempo, ma più di ogni altro del valore del sacrificio come principio fondante del riconoscimento del femminile. Il sacrificio declina l’eroismo al femminile che si impasta di maternità mediterranea, di desiderio di emancipazione e di partecipazione pubblica. È una logica trasversale che accomuna le intellettuali e le donne semplici. Le ausiliarie fasciste ebbero impartita una rigida disciplina: a loro era proibito fumare, vietato l’uso del rossetto, sia in divisa che in abiti borghesi. La divisa delle ausiliarie era sobria, austera come lo era del resto il panno della divisa grigioverde. Un panno grezzo, un abito dal taglio contro ogni tentazione. Un’occhiata equivoca a un camerata poteva costare la camera di punizione. Le donne ancora una volta potevano incarnare due diversi profili, ora coesistenti ora alternativi: la dilatazione del sentimento materno oltre i confini familiari, un esercizio del maternage sentito come responsabilità pubblica, che ispirò già fin dall’8 settembre, una cura corale dei soldati sbandati, dei prigionieri fuggiti, dei bambini; insieme a una volontà forte di protagonismo personale, di “cittadinanza attiva” , che esaltasse una soggettività libera e responsabile, da vivere accanto e specularmente a quella maschile. Gli effetti di questi diversi profili sul carattere erano: coraggio fisico, resistenza psichica, operatività in campi ignoti e un nuovo intreccio fra pubblico e privato.
Ne sono consapevoli le stesse ausiliarie, come viene chiarito in un articolo di Maria Pavignano pubblicato su “Sveglia” del 3 dicembre ‘44:
La divisa, simbolo di questa fede, è costituita da giacca sahariana senza collo e gonna pantaloni, entrambe di colore grigioverde in inverno e kaki d’estate, camicia nera, basco, fregi della doppia M della G.N.R. sulla fibbia dei cinturone di pelle e sul bavero. La vicecomandante Cesaria Pancheri osserva:
C’è in questa riflessione tutta la convinzione dello stereotipato contrasto ragione /passione e del salto che queste giovani donne avrebbero compiuto in positivo – secondo il regime – elaborando la passionalità e il sentimento che contraddistingue il femminile nella dimensione privata, in virtù pubblica e modello di comportamento sociale. In un momento in cui gli uomini svestivano la divisa e abbandonavano la repubblica, mostrando la loro vigliaccheria, al contrario, le donne si ponevano come esempio e davano nuova linfa alla Repubblica Sociale (Dittrich-Johansen, 2002). Molte le testimonianze in tal senso, come si evince dalle parole dell’ausiliaria Alda Paoletti:
Questa consapevolezza e questo clima spirituale erano arroventati dal riflesso delle passioni che avevano diviso il Paese. Queste ragazze erano intransigenti, come la giovinezza, incapaci di comprendere i compromessi di cui la vita è intessuta e soprattutto si sentivano protagoniste di un momento storico tragico e inesorabilmente legato a una disfatta. Testimonianza ulteriore di questo clima è la lettera che una condannata a morte scrive a sua madre di seguito riportata:
Si riuniscono drammaticamente nelle ultime riflessioni di questa giovane donna la missione pubblica di cui si sente investita e la dimensione privata: il valore della difesa delle patria e il suo sacrificio che resta l’unico valore per il suo riconoscimento pubblico. Garante e detentrice della rete di affettività familiare, questa donna sottolinea l’offesa della mancata restituzione del suo corpo, che ha a che fare con le strutture più profonde della natura umana. Un corpo femminile che, in molti altri casi di prigioniere, viene denudato, violato e seviziato. L’uso che il nemico / maschile fa del corpo delle donne combattenti, è in qualche modo trasversale e prescinde dagli schieramenti, assumendo una connotazione comune. Così come per le Brigantesse dell’Italia post Unitaria e per le Partigiane, le Ausiliarie vengono denudate spesso da morte, subiscono il taglio dei capelli, perfino lo stupro e vengono abbandonate senza sepoltura o esposte pubblicamente.
Il denudare assume un valore particolare, perché viola un immaginario ricorrente nella percezione dell’identità femminile, ossia quello che si sostanzia del sentimento del pudore. Così anche il taglio di capelli, assume il valore di un contrappasso nei confronti del desiderio femminile di emulare virtù pubbliche maschili. Altre ritualità avevano completato il quadro simbolico di questo universo femminile che ha bisogno di definizione e di sancire nuove appartenenze. Questo nucleo innovatore doveva produrre una palingenesi salutare per lo Stato ed era necessario che ci fossero tutti gli elementi fondativi di un’appartenenza, con strumenti come la preghiera o le canzoni ecc. per renderlo ulteriormente condiviso. La prima parte della Preghiera dell’ausiliaria recita così:
La Patria tradita è ancora una volta al vertice dei valori e della retorica della nuova Repubblica; si ribadiscono ossessivamente la fierezza di essere italiane e il necessario riscatto da compiere. Le parole di una testimone chiariscono in modo essenziale gli elementi di questa retorica: amavamo la patria, amavamo il duce e ci piacevano le adunate. Quelle adunate e quella militarizzazione avevano permesso alle donne di uscire dai luoghi privati e di essere protagoniste di spazi pubblici, di conquistare la piazza, di essere con i loro fratelli e mariti senza magari conoscere a fondo la politica del fascismo. Così raccontano alcune:
Si diventava fascistissime magari quando i genitori vietavano la partecipazione ad adunate domenicali e si urlava che era obbligatorio andarci perché il Duce lo imponeva (Munzi, 2004: 87). Questa “modernizzazione autoritaria” viene, dunque, accolta, propagandata e tramessa alle donne. Lo conferma anche la canzone che le ausiliarie cantano per la prima volta il 20 maggio del 1944 a Venezia e che esalta il loro compito:
E ancora:
Negli ultimi versi emergono temi cari a un languido e stucchevole romanticismo tipico di una letteratura femminile da romanzi d’appendice che si declina nelle forme del nuovo eroismo. Si rifiutano le lacrime, con la morte, che non si teme, si fa l’amore. Il vento di questa modernizzazione autoritaria dei ruoli e dei compiti aveva investito anche il rapporto con la famiglia, in particolare con i padri che, comunque, si opposero spesso alle decisioni dell’arruolamento e che non riconoscevano l’autorità della chiamata del Duce al contrario delle ragazze che si sentivano sacerdotesse e garanti del nuovo ordine.
Quale destino attendeva queste donne alla fine della loro esperienza? Ancora una volta erano due i ruoli che potevano rivestire: quello della sacerdotessa laica o quello della sposa esemplare. Si era realizzata con successo una sorta di militarizzazione della mente di ragazze molto giovani insieme all’elaborazione di una sacralità laica e pubblica, che sarà ricorrente in molti regimi totalitari del Novecento, per esempio quelli del Vietnam o della Cambogia. Resta da chiedersi: questa militarizzazione della mente femminile è il prodotto di un regime disperato che avverte la sua fine o un modello attraverso il quale si procede alla ricostruzione di un tessuto sociale e si elabora un rito collettivo, come è avvenuto nel caso della Resistenza e che, comunque, passa per atrocità, esposizione dei cadaveri, nudità impietosa? In ogni caso è interessante osservare che queste donne “soldato”, ausiliare o partigiane, per motivi opposti sparirono dalla visibilità pubblica: le prime, perché traditrici e da rinnegare, le seconde perché ingombranti e possibili concorrenti nel gestire lo spazio politico della ricostruzione di un Paese.
Questo processo di rimozione collettiva ne cancellò la memoria, riconducendole nella rassicurante e inoffensiva dimensione domestica e privata. Il rischio, da segnalare come riflessione conclusiva, è quello di concentrare l’interesse dell’antropologia storica sull’interpretazione del passato alla luce del presente, ma d’altra parte solo restituendo alla ricerca storico-antropologica le chiavi interpretative di una cultura attraverso le spie di quel paradigma indiziario a cui fa riferimento Carlo Ginzburg che è possibile restituire vissuti e orizzonti di senso che rischierebbero di essere negati e dimenticati.
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