Tutto è stato detto, scritto, raccontato e teorizzato sull’immigrazione. La letteratura in Italia ha accumulato in questi anni una sterminata mole di pubblicazioni scientifiche che studiano i diversi aspetti del fenomeno, origini, genesi, tipologie, caratteristiche, modelli e rappresentazioni. Diversi gli approcci, i posizionamenti, i punti di vista, ma tutti gli autori convengono su un dato incontrovertibile: le migrazioni sono fatti strutturali ed endemici che appartengono alla fisiologia della storia umana, e non alla sua patologia. Sono consustanziali alla “natura” e alla “cultura” della specie, all’antropopoiesi, ai processi di costruzione dell’umano, alle dinamiche dell’ominazione, alle vicende del bipedismo, alle avventure del nomadismo. «La storia del sedentarismo, dei “costruttori di civiltà”, intensa e produttrice di un incredibile fervore di innovazioni e di cambiamenti culturali, appare breve – un attimo, un battito di ciglia di una divinità – se proiettata sullo sfondo dei milioni di anni che l’hanno preceduta». Così scrive Matilde Callari Galli (2005: 193) rivendicando il primato e la centralità del nomadismo connesso all’innata spinta alla mobilità, alla perenne tensione alla ricerca di nuovi spazi, alla «scoperta di nuove modalità di interazione con paesaggi, comunità, culture».
Si tratta di una evidenza storica e antropologica ampiamente acquisita, certificata, sperimentata. E tuttavia politicamente rimossa, manomessa, negata. L’erranza è oggettiva e irresistibile forza centrifuga destinata a generare e secondare le pressioni alle accelerazioni e alle trasformazioni, fattore costitutivo e propulsivo del rinnovamento demografico, sociale, economico e culturale dell’umanità. Eppure gli Stati, la Fortezza Europa, i governi nazionali continuano a innalzare cippi, muri, fossati e fili spinati ai confini e lungo le frontiere. Uno iato profondo tra il movimento inarrestabile della Storia e l’inerzia ottusa della Politica, tra il fremito del mondo di domani e la barricata a difesa dello status quo dell’ancien regime, per così dire. Da una parte l’irruzione del “sesto continente” che avanza, preme e scavalca i reticolati, dall’altra la repressione securitaria delle istituzioni che incapaci di governare il fenomeno si limitano a organizzare la strenua opposizione. Questa è – a traguardare bene l’orizzonte spaziale e temporale – la sfida, la trincea, la linea di faglia che attraversa e riarticola tutto il paesaggio globale della contemporaneità.
A fronte di questa divaricazione così lacerante ci sarebbe da interrogarsi sulla impotenza degli studi scientifici, sulla minorità della cultura antropologica, sul potere prevalente delle ideologie rispetto agli inoppugnabili principi della realtà, alle inconfutabili tendenze demografiche e perfino ai nostri concreti interessi economici. Gli stessi mercati nel regime della globalizzazione piegano la libertà di circolazione alle leggi di angusta protezione della sovranità statalista. Quanto più aperto ai flussi di merci e capitali tanto più il mondo appare chiuso e inaccessibile ai movimenti delle persone che fuggono da guerre e carestie. Un paradosso che sembra spiegarsi nell’età ambigua delle post-verità e delle torsioni tecnologiche delle cosiddette narrazioni. Così alla nudità e certezza dei fatti si contrappone l’assertività controfattuale delle percezioni e delle rappresentazioni. Alla logica delle argomentazioni la mozione dei sentimenti e dei risentimenti, intrappolati nel dibattito pubblico tra xenofobie e xenofilie, sguardi strabici e posture schizofreniche.
A questi fondamentali orientamenti epistemologici s’ispira l’ultimo volume di Stefano Allievi che nel panorama degli studiosi delle migrazioni si è sempre distinto per intuizione nelle analisi, rigore nella metodologia ed equilibrio nelle valutazioni e nelle proposizioni. Tra i primi a scandagliare le dinamiche del fenomeno, tra i pochi a osservarlo con una visione larga e laica. Nel titolo Diversità e convivenza. Le conseguenze culturali delle migrazioni (Laterza 2025) l’autore coglie e illumina il punto nevralgico delle questioni del nostro tempo, il nodo centrale che nel contesto delle nostre città e nella lunga durata delle generazioni è destinato a connettere il pluralismo culturale e la coesione sociale. Orizzonti incrociati di vite individuali e di comunità, di differenti identità e di memorie collettive. Convivere nelle differenze sempre più numerose e dissonanti è il destino che le migrazioni – lo si voglia o no – preparano e producono, nell’elaborazione ed evoluzione dei contatti, degli inevitabili conflitti e delle feconde esperienze di incontro.
Stefano Allievi muove da lontano, dalle pagine di Seneca che nella Consolazione alla madre Elena ricorda l’endemica erranza degli uomini per cui non esiste «una terra che sia ancora oggi abitata dalla popolazione indigena, tutte si sono mescolate e incrociate; gli uni si sono succeduti agli altri, questi desiderano ciò che gli altri disprezzano; l’uno è cacciato via da dove aveva cacciato, a sua volta, un altro. Così vuole il destino; che nessuna cosa resti sempre in uno stesso luogo». Gli antichi avevano già consapevolezza che l’autoctonia è un mito e un inganno. La storia è segnata da un incessante moto a luogo, in consonanza con la rotazione e la rivoluzione della terra, con le correnti dei mari e degli oceani, con il sotterraneo spostamento delle placche tettoniche, con le orbite degli astri. «Siamo mobili in un universo mobile» scrive Allievi, parti di un medesimo ecosistema di corpi terrestri e celesti mai fermi. Siano desideri o bisogni, ambizioni o costrizioni, partiamo per ritornare e per poi ripartire. Una circolarità e reversibilità di flussi e riflussi oggi sempre più intense, accentuate ed evidenti. Quella stessa tipologia di migrazioni diasporiche che ha lungamente caratterizzato le esperienze millenarie del Mediterraneo dove nostos ed exodus hanno descritto il fitto reticolo di rotte transcontinentali, una geografia di pendolarismi e di andirivieni, di passaggi frontalieri e di crocicchi, un sistema di network che collega località e nazioni nello stesso tempo punti di partenza, di arrivo e di transito.
Pur nella eclatante asimmetria che oppone il diritto degli individui di emigrare dal proprio Paese al diritto degli Stati di negare l’immigrazione nel proprio territorio, resta la potente leva della connettività, la generale spinta alla dislocazione data dalla compressione spazio-temporale e dalla disponibilità tecnologica delle comunicazioni e delle relazioni. Da qui gli effetti dirompenti e complessi di interazione e commistione sul piano culturale che l’autore riassume nell’espressione “pluralizzazione sincronica”, ovvero quel processo di compresenza e di convivenza nello stesso luogo di popolazioni, un tempo lontane e separate, che hanno lingue, religioni, usanze e tradizioni diverse. Ragionando sui concetti di etnia, identità, alterità e multiculturalismo, e decostruendone i paradigmi semantici e le distorsioni politiche, Allievi pone l’accento sulla straordinaria varietà delle opzioni alternative che oggi si offrono come inedite risposte alle domande di senso, non essendoci più solo «un modo ‘giusto’ e socialmente approvato di vivere». Nella consapevolezza che non c’è più, semmai c’è stata, alcuna omogeneità dei sistemi di significato, partecipiamo ad un vero e proprio “caleidoscopio delle culture”, un formidabile mosaico di idee, di simboli e di immagini in costante evoluzione, scomposizione e riconfigurazione.
Stefano Allievi cita i classici della letteratura, della sociologia, della filosofia per dimostrare che «le culture non si conservano proteggendole da qualsiasi commistione – al contrario, probabilmente possono continuare a esistere solo come prodotti di una continua successione di commistioni». Fa il lungo elenco di quegli intellettuali che attraverso la loro condizione di esuli e di espatriati testimoniano della ricchezza della cultura plasmata e maturata nell’attraversamento dei confini e nell’appartenenza a plurime risorse identitarie. Chiarisce che non c’è società aperta senza conflitto, dal momento che non c’è integrazione senza attriti, tensioni, dissonanze, discrepanze. Nella pluralità assunta «come un dato anziché come un esito subìto», la conflittualità è fisiologico esercizio della democrazia, sociologicamente riconosciuta come positiva e fondativa di legami e vincoli sociali, di reciprocità nell’accettazione delle differenze e delle rispettive specificità. Sta nella capacità di gestire e governare la grammatica del conflitto la possibilità di non cadere nella pratica della violenza che – chiarisce l’autore – «non è intrinseca al conflitto, semmai è la dimostrazione dell’incapacità di stare nel conflitto».
Del conflitto culturale interpretato e condotto in modo critico e sovente violento non c’è forse esempio più dimostrativo del nostro difficile rapporto con l’Islam immigrato. Materia di cui Allievi si è occupato fin dagli anni 90 (Il ritorno dell’islam, 1993; I nuovi musulmani, 1999; Il libro e la spada. La sfida dei fondamentalismi, 2000; Musulmani d’Occidente, 2002; Islam italiano, 2003, per citare solo alcuni titoli), quando scriveva che «oggi non possiamo più parlare di islam e Occidente. Oggi l’islam è in Occidente. E sta nascendo un islam ormai d’Occidente, già frutto di questo nuovo innesto» (Allievi 2003: XI). Lo studioso è sempre stato attento ai temi più rilevanti e urticanti del dibattito pubblico: il velo, le moschee, lo statuto degli iman e la loro formazione, i simboli religiosi a scuola, la macellazione rituale, i matrimoni forzati, le mutilazioni genitali e l’infibulazione. Tutte questioni sostanzialmente riconducibili ai rapporti tra religione e politica e alla condizione e al ruolo delle donne nella società civile. Aspetti controversi e discutibili e tuttavia spesso al centro di «incidenti ermeneutici o conflitti comunicativi» che hanno promosso, alimentato e diffuso una certa islamofobia.
«Probabilmente – scrive Allievi – l’insegnamento principale che possiamo trarre dal nostro rapporto con l’islam, è che l’islam c’entra relativamente poco, in sé. Che esso è diventato una specie di sostituto discorsivo, o psicoanaliticamente di oggetto transizionale, di qualcosa più ampio e di più profondo», rappresentando metonimicamente l’alterità per antonomasia, come categoria ontologica, un’immagine disincarnata e reificata. Nulla è più saturo di stereotipi e di pregiudizi del mondo musulmano visto da un Occidente diffidente, spaurito e rancoroso. La tesi dell’incompatibilità dei valori chiude le ragioni del conflitto nell’assolutismo di un dogma che nega la pluralità e la complessità della realtà. Tesi che Allievi ha combattuto anni fa, a viso aperto, nella polemica con Oriana Fallaci, che, interprete della teoria dello scontro di civiltà, era ossessionata da una visione complottistica della storia e da vaticinazioni apocalittiche che pronosticavano l’avvento dell’Eurabia, «venduta ai sultani, ai califfi, ai visir, ai lanzichenecchi del nuovo Impero Ottomano» (Allievi 2004: 133).
A ripensare la vita pubblica degli ultimi anni, la religione, tutte le religioni, sono state protagoniste di un moto di reviviscenza delle appartenenze identitarie, di un processo di militarizzazione delle idee e di fondamentalismi ideologici, in corrispondenza dell’ampliarsi del paesaggio socioculturale e delle visioni del mondo offerte dal contatto e dalla semplice presenza del diverso, dell’altro, dello straniero. La tendenza a etnicizzare i conflitti e a naturalizzare le culture ha rarefatto gli spazi della negoziazione e del dialogo, ha compromesso la comprensione reciproca e l’intelligenza dei fatti che pur accadono nella quotidianità delle esperienze urbane. Stefano Allievi ci ricorda che
«il contatto prolungato e la com-presenza sul medesimo territorio, e ancor più la con-divisione e la com-unione obbligano a ripensare l’altro e a ripensarsi. Diventa difficile, guardando all’altro, accontentarsi di constatare che si trova puramente e semplicemente nell’errore, quando l’altro è il tuo compagno di classe o il tuo alunno, il tuo collega di lavoro, il tuo dipendente o ancora di più il tuo capo, o il tuo migliore amico e magari la persona di cui ti stai innamorando. Così come diventa difficile, guardando con onestà dentro sé stessi e la propria identità collettiva, accontentarsi della facile spiegazione che il noi cui diciamo di appartenere si trova invece nella verità».
Lo studioso che ha indagato a fondo all’interno dell’universo musulmano invita a distinguere l’approccio alla religione da parte dei padri rispetto a quello dei figli, «più esperienziale e meno dottrinale, più evolutivo e meno conservativo». Analogamente va tenuto separato l’islam trapiantato in Europa espressione di minoranze poste in condizione di subalternità sociale ed economica e quello dei Paesi d’origine, maggioritario, per certi aspetti totalitario e totalizzante dal momento che è protetto e sostenuto dallo Stato. La loro confusione è causa di distanze e di intolleranze. Ma attraverso la conflittualità, pur aspra e a volte violenta, passa la via stretta della conoscenza che procede anche per malintesi, per piccoli sconfinamenti, per approssimazioni. Una società pluralista è destinata a non essere mai pacificata intorno a definitivi e risolutivi codici culturali tendenzialmente sottoposti a processi in continua ibridazione e rielaborazione. Una buona politica riconosce il pluralismo, regola i conflitti e governa il fenomeno che per le sue vaste e complesse implicazioni nella vita pubblica è da considerarsi “fatto sociale totale”. «Le migrazioni – Allievi ha scritto in un altro libro, Torneremo a percorrere le strade del mondo (2021: 135) – meriterebbero una struttura che le pensi e le gestisca: non come un’appendice del ministero dell’Interno, ma, implicando competenze che vanno dagli esteri al lavoro, dall’istruzione alla sanità, dalla sicurezza all’integrazione sociale, un ministero proprio, o almeno un’autorità al coordinamento».
In questa prospettiva plurale e transnazionale, l’autore non nega la legittimità dei confini e perfino la loro necessità ma la loro istituzione ha un senso purché siano sfidati e attraversati, tanto più scavalcati quanto più ci si ostini a sigillarli e a fortificarli. Frontiere porose e permeabili consentirebbero un più equilibrato controllo della mobilità e una più umana e civile convivenza. Sulla soglia di questi spazi liminari e mobili s’impara a mettere in comune somiglianze e differenze, si rendono visibili le fratture e le connessioni, quella trama di interrelazioni che Allievi definisce con la felice espressione di “reciproca impollinazione”. Ai confini si capisce in ultima analisi che le culture sono costitutivamente plurali, essendo l’esito di mediazioni e traduzioni di idee, simboli e immagini in perenne movimento, nel flusso di un’incessante migrazione planetaria. Dinamiche ancor più concretamente manifeste nelle biografie delle seconde generazioni che vivono tra costellazioni culturali diverse, tra famiglia, scuola, coetanei e media. Una pluralità di riferimenti, modelli e paradigmi che attraversa l’intera società e che stentiamo a riconoscere, rappresentando una sfida al nostro modo tradizionale di pensare, di vivere e di stare nel mondo.
In Diversità e convivenza Stefano Allievi in fondo riprende e riepiloga i temi della sua lunga riflessione critica sulle migrazioni, torna a dipanare i fili di un ragionamento, intellettualmente schietto e onesto, maturato lungo quarant’anni di studi e ricerche. Pragmatismo e realismo hanno sempre ispirato il pensiero e la scrittura di questo sociologo che ama dialogare con l’antropologia e con la filosofia, non meno che con il futuro. A cui guarda oltre l’orizzonte della cronaca impantanata nell’eterna emergenza, oltre il rumore effimero della propaganda che copre le voci della ragione e nell’ossessione fobica dell’immigrazione ci impedisce di vedere le crescenti emigrazioni dal nostro Paese. La lettura dei segni e dei simboli dell’immaginario collettivo, di quel mondo oscuro e inquieto fatto di percezioni, rappresentazioni, sentimenti e risentimenti che agitano l’opinione pubblica, va accompagnata non solo dalla severa critica analitica delle cause e delle spiegazioni del fenomeno – sovente più ideologicamente costruito che davvero oggettivamente descritto – ma anche e soprattutto dalla ricerca delle soluzioni, dagli interrogativi sul “che fare”.
Canali d’ingresso regolari e regolamentati in sicurezza in un quadro di cooperazione internazionale, effettiva integrazione strutturata, qualcosa di diverso dalla pura e semplice assimilazione e qualcosa di più della mera accoglienza umanitaria, comprendendo scolarizzazione, formazione, valorizzazione, cittadinanza, garanzie del reciproco riconoscimento dei diritti e dei doveri, non più subordinati alle mutevolezze delle stagioni politiche, inclusione nel sistema di appartenenza alla polis perché le ragioni fondanti che tengono uniti gli abitanti siano prevalenti su quelle conflittuali volte a dividere e a escludere su basi religiose, linguistiche o etniche: vanno dunque sperimentate forme di convivenza capaci di articolare uguaglianza e differenza, identità performative e solidarietà sociale.
Norme, tutele, valori e princìpi contrattuali che dovrebbero riguardare innanzitutto i figli degli immigrati che scolarizzati e socializzati in Italia sono particolarmente permeabili alle relazioni e alle contaminazioni e scoprono di essere stranieri senza cittadinanza. Un paradosso che umilia i giovani e rivela in tutta evidenza i ritardi e le inerzie della politica nella percezione e comprensione del futuro che carsicamente e lentamente si prepara.
«La ricerca accademica ha fatto passi da gigante, ma ben poco dei suoi risultati è filtrato nel dibattito pubblico o nelle misure adottate dai politici e dalle organizzazioni internazionali, il che spiega in parte perché tali iniziative spesso siano fallite o abbiano addirittura avuto effetti controproducenti»: così introduce un suo recente studio il sociologo danese Hein de Haas (2024: 11), il quale condivide con Stefano Allievi una visione larga ed olistica delle migrazioni. «Comprendere l’inevitabilità della migrazione – ha scritto (ivi: 568) – e il suo ruolo centrale nello sviluppo economico e nel cambiamento sociale ci può condurre a una comprensione totalmente nuova della mobilità umana: un nuovo paradigma sulla natura stessa e sulle cause della migrazione che sfata quasi tutto quello che fin qui si è raccontato».
Sfugge infatti la consapevolezza di quanto sta accadendo perché non riusciamo ad «ascoltare la crescita del grano», direbbe Lévi-Strauss (1997:143), a raccogliere cioè «le vocazioni a vivere insieme che la storia tiene in serbo». Non si capiscono i fatti nel loro svolgersi e svilupparsi se non si allarga la latitudine dello scenario, se non si connettono le migrazioni, in entrata e in uscita, con la demografia, con la rarefazione delle aree interne, con l’invecchiamento della popolazione, con le trasformazioni del mercato del lavoro, con quella “rivoluzione mobiletica” – come la definisce Allievi – che è il motore non solo della storia ma anche della biologia umana, metafora della vita, del divenire nel tempo e nello spazio, ovvero della condizione esistenziale. «Siamo mobili e plurali. È questo che costituisce il nostro essere nel mondo». Le parole di Allievi nell’ultima pagina del volume ci consegnano la dimensione universale del suo pensiero non meno che del fenomeno da sottrarre ai rischi delle vecchie e nuove derive relativiste. «Ognuno di noi – ha scritto Lévi-Strauss (1980: 17) – è una sorta di crocicchio ove le cose accadono». Il crocicchio è la vita con l’intricato labirinto delle strade da percorrere. Le cose che accadono – con noi o senza di noi – attendono il destino che – noi e soltanto noi – sapremo responsabilmente determinare.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Riferimenti bibliografici
Allievi Stefano, Ragioni senza forza, forze senza ragione. Una risposta a Oriana Fallaci, Emi Bologna 2004
Allievi Stefano, Islam italiano, Einaudi Torino 2003
Allievi Stefano, Torneremo a percorrere le strade del mondo, Utet Torino 2021
Allievi Stefano, Diversità e convivenza. Le conseguenze culturali delle migrazioni, Laterza Bari-Roma 2025
Callari Galli Matilde, Antropologia senza confini. Percorsi nella contemporaneità, Sellerio Palermo 2005
Lévi-Strauss C., Razza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi Torino 1968
Lévi-Strauss C., Mito e significato, trad. di C. Segre, Il Saggiatore Milano 1980.
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. Nel 2015 ha curato un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (De Lorenzo editore). La sua ultima pubblicazione, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, è stata edita dal Museo Pasqualino di Palermo (2020). Per la stessa casa editrice ha curato il volume Per Luigi. Scritti in memoria di Luigi M. Lombardi Satriani (2022).
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