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Per una scuola sobria: una proposta conviviale al tempo del virus
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2020 @ 00:39 In Cultura,Società | No Comments
di Nicola Grato
Villafrati [1], paese adagiato lungo la Statale 121, paese periferico di una periferia chiamata Sicilia Interna e non incluso, al pari dei paesi dell’ “area Busambra”, dal Comitato Tecnico Aree Interne in nessuno dei cinque progetti di sviluppo di queste Aree, in questo annus horribilis 2020 è stato transennato per ben due volte, a marzo e ora in ottobre, a causa del dilagare dei contagi di CoVid-19. Schietta cronaca, non c’è da aggiungere molto altro. O forse sì, c’è da ragionare su queste “chiusure”: di scuole, di case con dentro le persone (potranno uscire soltanto per stringenti necessità); chiusura del cimitero comunale. Occorre riflettere sui divieti, applicati a Villafrati ma verosimilmente estesi nei luoghi in cui salirà il numero dei contagi: divieto di camminare a piedi e con l’automobile, divieto di fare feste con più di sei persone, divieto per chi non risiede in paese di potervi entrare. Sembra la trama di un romanzo distopico ambientato in un luogo separato e lontano: al centro della vicenda un corpo sociale impaurito, confuso, spaesato. Sembra, ma è un’ “ordinanza contingibile e urgente” del Presidente della Regione Siciliana.
Ci stiamo purtroppo abituando a queste situazioni di sovvertimento dell’ordine delle cose: non ne usciremo migliori. Detto questo, si può rimanere passivamente inerti di fronte alla chiusura di una scuola? Vogliamo comprendere senza enfasi cosa significhi la chiusura di una scuola in un paese? Qui vogliamo riflettere sul ruolo civico insostituibile di una scuola in un piccolo paese remoto: remoto non soltanto nel senso di lontano dai presunti “centri” sociali ed economici, ma remoto perché residuale e a rischio elevatissimo di spopolamento e abbandono.
Durante il lockdown della scorsa primavera molte sono state le prese di posizione da parte del mondo politico e della cultura in favore di una riapertura delle scuole a settembre del 2020: prosit, pensavamo, le scuole non devono stare chiuse perché sono il nucleo fondante di ogni Paese civile. Tutto verissimo. In questa calda estate, man mano che il fatidico primo di settembre andava avvicinandosi, ancora più fitte, quotidiane e martellanti si erano fatte le dichiarazioni della politica e della cultura in favore della riapertura delle scuole: «La riapertura delle scuole, a metà settembre in presenza e in tutta sicurezza è una priorità per il Governo» (Roberto Speranza, Ministro della Salute in una intervista alla RAI); tralasciando le dichiarazioni della ministra Azzolina sul come dovessero riaprire le scuole, dunque sulla organizzazione di banchi monoposto, distribuzione di presìdi e dispositivi, assunzione di docenti “precari” per garantire il corretto avvio dell’anno scolastico (ad oggi, 7 ottobre 2020, molte cattedre nelle scuole sono ancora vacanti e devono ancora arrivare i famigerati banchi monoposto), possiamo dire che settembre alle porte era uno spettro che incuteva timore in chi doveva organizzare, riorganizzare la scuola in Italia.
Nei nostri paesi attendevamo settembre come una liberazione, pur nella preoccupazione sulle regole del distanziamento “sociale” che a scuola come nella vita è una contraddizione stessa della vita; ma tant’è, occorreva fare fronte: bisognava rivedere i nostri alunni, conoscere i nuovi, riaccendere i motori bruscamente spenti in primavera.
Poi la chiusura, stavolta prevedibile ma ugualmente traumatica, della scuola a Villafrati, a Cefalà Diana e a Godrano. A Mezzojuso le scuole sono ancora aperte, ma molti genitori temono i possibili contagi/contatti con i paesi vicini e non mandano i figli a scuola: «luogo pericoloso», «troppa vicinanza» le espressioni che raccolgo dalle chiacchierate che faccio coi paesani. Ora che abbiamo attivato la modalità della didattica integrativa per potere parlare coi nostri alunni, per poterli guardare negli occhi, mi chiedo, con Danilo Dolci:
Sì, è vero: ci sono i tablet, i telefoni cellulari e i pc; ma è la stessa voce quella che noi sentiamo attraverso questi dispositivi, che sono congegni che ordinano/dispongono: dispongono in senso freddo e distante queste innumerevoli voci che vorremmo ascoltare? Ci sono i social network: navigando ad esempio su Facebook si possono leggere post di cittadini di Villafrati che esprimono sgomento per la situazione del paese; sgomento, rabbia, incredulità. Certo si trovano anche post che usano linguaggi violenti, del resto la Rete è piena indistintamente di tutto: però, d’altro canto, l’umore dei paesi oggi si coglie anche da Facebook, non possiamo far finta di nulla benché siano queste “voci” disorganiche, disperse; voci che purtroppo durano il tempo di un post. Ho come la sensazione che i dispositivi elettronici, sempre più presenti e pervasivi nella nostra vita, stiano troppo allargando l’ottica e il rischio di allargare l’immagine è che tutto ci risulti come sgranato, offuscato. Ancora Danilo Dolci:
La scuola in un piccolo paese è spazio concreto di vita, ancor più che nelle città, dove le scuole sono situate in enormi edifici al centro eppure separati dalla vita vera: non di rado le scuole sono allestite in vecchi palazzi colmi di ragazzi, affollati e tutt’altro che conviviali. Nei paesi della Sicilia interna le scuole sono dislocate in plessi, vicine alle piazze, a volte ubicate in vecchi conventi o sorte al posto di collegi di Maria in disuso. Sono luoghi che parlano, che raccontano di giorni, esperienze, mesi e anni. Sono interni al tessuto sociale, imprescindibili nello scorrere quotidiano delle ore.
Da qualche anno i genitori hanno assunto l’abitudine di accompagnare i figli a scuola con le automobili, vezzo cittadino. Fortunatamente finché i bambini hanno 8-10 anni, poi si diventa autonomi e a scuola si va a piedi, perché camminare per recarsi alle lezioni è un modo straordinario per sentire il profumo del paese, per allenare lo sguardo e le tibie. Un esercizio ancora possibile. Osservo quotidianamente i bambini e i ragazzi di Mezzojuso recarsi a scuola. Parlano tra loro, quasi nessuno “dialoga” col cellulare in mano, anche i più grandi, quelli delle medie. Penso a quanto ci è stato sottratto la scorsa estate, alle feste religiose che segnano momenti molto importanti per le comunità, per i paesi. Penso alla festa del Crocifisso a Villafrati, la festa di settembre che per me segnava la fine dell’estate e l’inizio della scuola: un momento equinoziale decisivo per la mia formazione. Su questa festa ho scritto. Mi sembrava negli ultimi anni “preda” di una corsa agli sponsor per avere il cantante famoso ma, tutto considerato, era un momento forte della vita di Villafrati. Come tante altre feste dei paesi qui intorno.
Le misure restrittive non hanno neanche risparmiato le feste religiose. Pietro Clemente nell’ultimo di “Dialoghi Mediterranei” (n.45 settembre 2020), nel suo articolo “Per uscire migliori dalla pandemia. Prove di resistenza”, ci dà notizia di alcune feste popolari laiche e religiose che hanno fatto fronte alla nuova situazione di restrizioni contingenti innovando o “restringendo” le manifestazioni di festa, e cita l’esempio del Teatro povero di Monticchiello, del Palio di Siena e della festa dei Candelieri di Sassari. Clemente paragona il CoVid-19 alla «dialettica del negativo nella filosofia tedesca dei tempi di Fichte e di Hegel. L’ostacolo che si oppone allo spirito umano ma attraverso il quale esso realizza il superamento di una vecchia identità e la costruzione di una nuova». Concordo con questo paragone e mi chiedo: la scuola come può innovarsi, fare fronte al virus? La strada della paura (restiamo a casa, la scuola è un pericolo) mi pare quella che non dovremmo percorrere se non in situazioni estreme: una scuola chiusa è un campanello di allarme serissimo per la tenuta democratica del Paese e di un piccolo paese.
Questo chiedevano negli anni Cinquanta i poveri cristi di Danilo Dolci, i poveri che avevano compreso quanto importante fosse l’istruzione e l’essere uniti: solo uniti si può superare il dolore. Tenere i figli a casa per paura è contro ogni principio di educazione democratica, a mio avviso. La scuola di paese può ancora mirare all’unità, può sperimentare pratiche di ascolto partecipato e dialogo, pratiche inclusive che prendano spunto dal luogo, dal territorio. È vero, le nostre sono spesso comunità divise per svariate ragioni: “strascichi” di antichi odii, spaccature tra nuclei familiari dovuti a cattiva politica le più comuni. Ma la scuola deve essere il luogo di composizione, di ristrutturazione del senso civico e di partecipazione democratica.
Dovremmo ispirarci al Franchino citato da Dolci ne Il limone lunare: egli viveva la propria vita come chi fa il pane, con attenzione, perché chi è disattento, chi si distrae rischia di mandare letteralmente in fumo una intera infornata. Non è un caso il mio richiamo a Danilo Dolci. Alla cui figura dovrebbe ispirarsi la scuola di questi tempi, e a quella di Aldo Capitini. L’atteggiamento nostro di operatori nelle scuole deve essere creativo sempre, anche se
Leggo l’invito di Dolci letteralmente e allegoricamente: fare scuola come distribuzione gratuita di se stessi nei luoghi, tra le vie e le case chiuse, e come monito etico ad abbandonare la paura di stare insieme, seppure “mascherati” e distanti. Le distanze imposte possono essere occasione di riuso dei luoghi: se dobbiamo stare distanti, non restiamo separati dal paese e stiamo in una sala della biblioteca comunale ove lo spazio lo consenta, in una sala teatro, in una chiesa. Facciamo lezione in questi luoghi se le classi sono anguste e la paura del virus SARS Cov-2 monta come onda tra le persone.
Del resto proprio nei paesi possiamo osservare come i luoghi, le strade, le case chiuse e i muri invasi da fichi selvatici ed erba di vento siano comunque testimoni vivi di storie; nei paesi esiste ancora quella che Aldo Capitini ha definito «compresenza dei morti e dei viventi», il legame strettissimo e concreto tra i vivi e i morti: questo significa storia, attitudine alla memoria e apertura nei confronti degli altri e del mondo. La scuola dei paesi ha tutte le possibilità e direi gli obblighi che le derivano dal trovarsi in luoghi periferici: conoscere il mondo attraverso la lente d’ingrandimento del paese, mirando a modelli di inclusività e cammino comune che solo nei paesi possono compiutamente, seppur faticosamente, realizzarsi. A questo educa la scuola sobria e conviviale, all’apertura e al riconoscimento dell’altro.
La scuola del paese è scuola del valore; il valore è l’innovazione più sorprendente che possiamo rinvenirvi; al valore dobbiamo dedicare la nostra esistenza, la nostra vita. Il tempo della scuola del paese non deve essere il tempo della produzione: questo tempo deve essere votato al valore e alla convivialità per come la definisce Illich: «Chiamo società conviviale una società in cui lo strumento moderno sia utilizzabile dalla persona integrata con la collettività, e non riservato a un corpo di specialisti che lo tiene sotto il proprio controllo. Conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni» [5].
Gli uomini conviviali e sobri non badano al superfluo ma al concreto pensato. Il luogo dove si pensa concretamente alla vita degli uomini è la scuola del paese nella quale può realizzarsi il superamento di se stessi per entrare in autentico contatto con gli altri. Niente di più rivoluzionario di una scuola in un piccolo paese, dove rivoluzione vale curare ciò che si può curare presto e bene: rivoluzione è responsabilità civica contro ogni mafia, contro ogni abuso. È questa la scuola sobria, la scuola dei paesi.
Ancora Danilo Dolci: «C’è pure chi educa, senza nascondere/l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni/sviluppo ma cercando/d’essere franco all’altro come a sé,/sognando gli altri come ora non sono://ciascuno cresce solo se sognato». Rossano Pazzagli sul numero 38 di “Dialoghi Mediterranei” definisce la scuola
Questa è una dimensione essenziale della scuola di paese: la connessione col Mondo si crea nel piccolo spazio. Focalizzare un luogo, metterlo quindi a fuoco considerando attentamente il contesto in cui si vive/opera, è l’esercizio per eccellenza di chi voglia compiutamente fare esperienza di apprendimento e, in buona sostanza, di chi voglia continuare a vivere nei paesi resistendo all’emorragia in atto di persone che vanno via. Avere cura dei luoghi si sostanzia nel fare scuola, la scuola nuova che è così antica nei paesi: non bisogna cercare l’innovazione ad ogni costo finanziata dai PON europei, o meglio: l’innovazione necessita di progetti per la scuola che mirino a far vivere le persone nei paesi, anche al tempo maligno del virus, quando crediamo di poter derogare financo alla vita di relazione.
Pazzagli ci racconta come la sua esperienza di scolaro fosse improntata a quella che definirei “scuola diffusa”, che secondo me è la scuola sobria del paese: un racconto esente dall’atteggiamento di chi fa un resoconto del buon tempo andato, invece una testimonianza di possibile innovazione per la scuola nei nostri paesi:
Ho avuto modo, in anni passati, di assistere alla “fine” dei tempi prolungati nella scuola; si diceva che bisognava chiuderli, erano antieconomici, le famiglie non mandavano volentieri i figli a scuola al pomeriggio. Il tempo prolungato è stata una occasione straordinaria di apprendimento per gli scolari e di cui i nostri paesi hanno fatto tesoro in termini di partecipazione civica e impegno: ma ce la siamo fatta sfuggire di mano. Occorre essere attenti sempre, basta poco e l’infornata va in fumo. Per fortuna anche da parte dell’Indire (Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa) c’è ormai da anni un’attenzione costante alle piccole scuole di aree geograficamente isolate e marginali [7]: è stata così promossa e creata la rete delle Piccole scuole, presidio virtuoso che collega scuole lontane geograficamente attraverso l’uso dell’innovazione digitale: è stato così possibile per queste piccole scuole sopravvivere ai tagli di organico, al decremento demografico e di essere quindi presìdi attivi di democrazia nei loro territori.
Oggi abbiamo l’occasione di aprire le nostre scuole in vari luoghi del paese, di stare all’aria aperta, di pensare a una scuola sobria prima che tutto scompaia, come nel racconto-apologo di Paul Auster Nel paese delle ultime cose:
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