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Per una prospettiva antropologica nella riflessione politica

copertinadi Giuseppe Sorce

“Ma lo Stato dov’è?”. Si potrebbe scrivere un trattato su una cosmologia tutta italiana partendo soltanto da questa proposizione che non necessita neanche di una complicata inchiesta etnografica, tale è la sua onnipresenza pervasiva nel soundscape della penisola, isole comprese. Ma attenzione! Siamo così certi che la frase in questione meriti il notissimo alone di ironica denigrazione? No, perché ho imparato, nel corso della mia carriera da studente, che se ho difficoltà a dare una definizione di un fenomeno, posso sempre provare a collocarlo in un luogo, in un tempo, e misurarne gli effetti, le interazioni con l’ambiente, gli altri soggetti e oggetti circostanti e così via. È un approccio scientifico questo, per cui tutti i rami, secchi e non, dell’accademia dovrebbero esserne soddisfatti, quantomeno sulla carta. ‘Carta’ (elettronica, digitale, virtuale, vaporosa, come volete) dove, in ogni caso, rimarranno tutte le parole che seguono, e non per autocondanna ma semplicemente perché soltanto sulla carta possono esistere e senza questa carta probabilmente non le avrei neanche pensate. Ho già difficoltà, come si legge, a definire la semantica di ‘carta’, figuriamoci cosa voglia dire ‘Stato’. Non sono il solo chiaramente.

Stato, violenza, libertà.  La “critica del potere” e l’antropologia contemporanea, a cura di Fabio Dei e Caterina Di Pasquale, edito da Donzelli, è il risultato del convegno “Stato e antropologia: potere, confini, corpi”, tenuto il 19 e 20 gennaio 2017  all’Università di Pisa. Ciò che il volume riflette è proprio la problematicità insita nel tentativo di definire cosa sia lo Stato e come costruire un’epistemologia che sia in grado di svelarne i meccanismi di azione, rappresentazione, produzione di significati, di simboli, costruzioni identitarie, ecc. Ecco perché chiedersi “lo Stato dov’è” potrebbe non essere affatto una trasposizione di una retorica mistificante e vittimistica né un’assurda metafora che nasconde chissà quale incapacità ermeneutica, se collocata nel giusto contesto analitico. Proprio perché definire lo Stato è così arduo, ancora, oggi, nel 2018. Proprio perché nell’oscillare fra Weber e Graeber, Marx e la Theory, si può percepire a tatto il lento stillicidio degli intelletti impegnati ad osservare inerti l’allentarsi inesorabile delle prese di coscienza che erano riuscite a cogliere che sì, c’è un’urgenza politica, una scomoda incombenza, almeno, di trovare, per cominciare, un ‘dove’ lo Stato si manifesti.

Ed è questo l’iniziale e prezioso monito di Dei, quando assume con coraggio la prospettiva antropologica come punto di vista privilegiato e lo strumento dell’indagine etnografica come metodo possibile per studiare lo Stato e le sue manifestazioni, sfuggendo a «quella difficoltà “ontologica”, denunciata da Pierre Bourdieu nei suoi corsi sullo Stato tenuti al Collège de France, […] di organizzare un discorso sullo Stato stesso, che prescinda da una visione statalista» (Faeta 2017: 73) [1]. Prima di elaborare un’ontologia bisogna perciò saper osservare e interpretare i fenomeni e cioè i luoghi, anche figurati, in cui tale ontologia si verifica.

«Le nostre esperienze quotidiane di cittadini sono radicate in modo così profondo nelle strutture dello Stato (le sue leggi, i sistemi valoriali e normativi,  le istituzioni, i disciplinamenti) da farcele apparire come uno sfondo naturale dell’esistenza. È compito dell’antropologia smontare questa ovvietà quotidiana e mostrarne il carattere culturalmente e storicamente costituito: far vedere cioè lo Stato non come una sorta di entità  esterna e sostantiva,  ma come un’articolazione di strutture di esperienza, di pratiche della quotidianità. Un impianto di politiche e di retoriche (se proprio vogliamo usare il gergo dell’antropologia riflessiva), che possono essere colte e descritte dall’etnografia piuttosto che da una metafisica sociale (o da una corrispondente filosofia della storia)» (Dei 2017: 23).

1Esperienze e pratiche quotidiane che sono costituite da «relazioni, interazioni, dinamiche che un’attenzione  troppo  concentrata sui  “dispositivi desoggettivanti” dello Stato moderno rischia di farci ignorare» (Urbano 2017: 133). Così precisa Urbano, citando Agamben [2], uno degli autori cardine attorno al quale ruotano gran parte dei contributi del volume e del dibattito contemporaneo. Già Dei nel suo testo iniziale individua nel pensiero di Agamben usi impropri e talvolta soprusi da parte dei theorist. Insieme al filosofo italiano, gli altri due poli essenziali, oggetti delle medesime dinamiche di appropriazione, sono Bourdieu e Foucault, sia per quanto riguarda le critiche anti-theory sia in occasione di eventuali ‘nuove’ interpretazioni. Le riflessioni dei due pensatori francesi innescano problematiche vivissime, come per esempio approcciarsi allo studio dello ‘Stato’, se deve essere assunto come soggetto o oggetto, se considerare il ‘potere’ una forma di relazione, se stabilire, al coro di Agamben, un legame indissolubile tra violenza e Stato moderno. Ancora una volta è Dei a darci un chiave di lettura che potrebbe sembrare inizialmente semplicistica, poiché prende voce da una critica al sistema di Agamben, ma che in realtà sintetizza, a mio avviso, ciò che dovrebbe essere una considerazione di partenza, ma che si caratterizza nel dibattito (Theory e non) di oggi come un approdo fondamentale.

«Il soggetto umano sembra costituito senza residui dal principio giuridico che lo comprende: se si toglie la cittadinanza, resta solo la nuda vita. Il fatto è che per noi antropologi lo spazio tra il puro diritto e la pura biologia (due estremi che raramente si danno nella realtà) è riempito da qualcos’altro; qualcosa che abbiamo di solito chiamato cultura. […] Comunque la vogliamo concepire, cioè come fatta di valori, di significati, di codici, di habitus corporei  o che altro, è questa materia prima che costituisce le soggettività; ed è in tale medium che le relazioni umane – di violenza e sopraffazione, come di riconoscimento e solidarietà – si forgiano e acquistano senso» (Dei 2017: 22).

Aggiungerei che tale considerazione non deve e non può soltanto riguardare «noi antropologi». Nella critica alla Theory, Dei ricorre a strumenti interpretativi  raffinati, ma non solo. A dar forza al suo pensiero non è soltanto la conoscenza e la capacità di analisi trasversali ma l’arditezza con la quale ribadisce l’importanza di un punto di vista che sia antropologico, e il saper(ci) ricordare che l’uomo non è soltanto homo homini lupus ma anche solidarietà, mutuo appoggio, coraggio.

Nel proseguire dei testi che il volume raccoglie, questo insegnamento di Dei alle volte si disperde in  disquisizioni teoriche che rischiano di scadore in meri giochi linguistici, quando non si aggrovigliano in agoni interpretativi poco brillanti. A volte però il monito di Dei pare ricondensarsi e dar vita ad analisi, critiche e narrazioni che ci ricordano che c’è un’urgenza da fronteggiare. La questione è quella del potere, il problema è politico.

sayadFaeta, nel suo saggio Antropologia e Stato, una nota sui confini, ci racconta proprio di due luoghi critici, qui e adesso: la Terra dei fuochi e il confine Stati Uniti-Messico. Ce ne parla attraverso il paradigma dell’‘experialismo’, restituendoci, per mezzo di questa lente interpretativa, due fenomeni per i quali un ragionamento di ordine antropologico risulta in grado di dissotterrare dinamiche di potere che si servono di un’effettiva politica della gestione (abbandono volontario) dello spazio. Gettare un po’ di luce sulle intricate e spesso losche vicende della Terra dei fuochi non è semplice, e Faeta giunge invece a sottoporci problematiche riguardo le modalità con cui lo Stato agisce anche attraverso l’assenza. 

Ritorna così la domanda: dov’è lo Stato. E ritorna la sensazione che tentare di costruire una formula analitica non basta neanche, perché lo Stato si incarna anche nell’assenza. E non è questa un’affermazione frutto di una certa «metafisica sociale», bensì un’interpretazione di dati etnografici raccolti nella frequentazione, nell’osservazione e nello studio di luoghi in cui sono in corso conflitti di ordine spaziale. La gestione, coatta, celata, evidente che sia, dello spazio da parte dello Stato nella Terra dei fuochi, per esempio, ne fa un soggetto connivente e pertanto complice alle relazioni, malsane, di potere che gli abitanti lì vivono nel quotidiano. «In epoca di capitalismo trionfante e deterritorializzato», afferma Faeta «vi sono forze e movimenti, che le scienze sociali hanno soltanto parzialmente  individuato, che spingono a una radicale ridefinizione della fisionomia dello Stato, così come in Occidente abbiamo imparato a conoscerlo in epoca moderna» (Faeta 2017: 79).

Nella sua sottile riflessione sullo scarto semantico e simbolico che separa il concetto di frontier e border, in merito all’attenzione rivolta alla zona di confine USA-Messico, discute brevemente del progetto Blueservo [3] puntualizzando che anche «un’etnografia via web di questo fenomeno costituisce una fonte inesauribile di informazioni sullo stato effettivo delle cose per quel che riguarda lo Stato e le sue interessate politiche di delega e dismissione» (ivi: 78-79). Un’analisi dei significati e dei significanti in funzione dell’osservazione di un fenomeno, all’apparenza, virtuale che riguarda uno spazio liminare, remoto, incistato, come quello del confine in questione, ci fa riflettere in realtà su una sintomatologia del potere che per forza di cose, oserei dire, riguarda tutto l’Occidente.

Riflette su confini e frontiera anche Cossiga, chiedendosi sin dall’inizio «come pensiamo lo Stato» (Cossiga 2017: 229). Nella sua riflessione ci conduce a un’idea dell’immigrazione come fenomeno che spaventa «lo Stato e la nazione» a causa dell’«incertezza che l’immigrato porta con sé» (ivi: 232). Citando Sayad [4], leggiamo che

«Riflettere sull’immigrazione, in fondo, significa interrogare lo Stato, i suoi fondamenti, i suoi meccanismi  interni  di strutturazione e di funzionamento. Interrogare lo Stato in questo modo, mediante l’immigrazione, significa in ultima analisi “denaturalizzare”, per così dire, ciò che viene considerato “naturale” e “ristoricizzare” lo Stato o ciò che nello Stato sembra colpito da amnesia, cioè significa ricordare le condizioni sociali e storiche  della sua genesi. La “naturalizzazione” dello Stato, come la percepiamo  in noi stessi, opera come se lo Stato fosse un dato immediato, come se fosse un oggetto dato di per sé, per natura, cioè eterno, affrancato da ogni determinazione esterna, indipendente da ogni considerazione storica, indipendente dalla storia e dalla propria storia, da cui si preferisce separarlo per sempre, anche se non si smette di elaborare e di raccontare questa storia. L’immigrazione – ed è questo il motivo per cui essa disturba – costringe  a smascherare  lo Stato, a smascherare  il modo  in cui lo pensiamo e in cui pensa se stesso».

3Lo Stato-nazione si confà in un processo che è di «costruzione-immaginazione» (Di Pasquale 2017: 213) come afferma Di Pasquale in Memoria e nazione: la memoria e le narrazioni della memoria giocano una partita da cui dipende la costruzione stessa dell’identità della comunità. Pertanto un discorso che vuole essere sul potere, sullo Stato e su tutto ciò che è politico, non può prescindere da un’attenta presa in considerazione dei meccanismi di narrazione e di costruzione di un immaginario che, prima di essere collettivizzato in un più grande sistema, come può essere quello di una nazione, passa per l’individuo e le sue relazioni con la collettività e viceversa. È la cultura il grado zero da cui deve partire qualsiasi tipo di analisi, è nella sua processualità e nei suoi funzionamenti e sabotaggi che vengono prodotte quelle relazioni, quei rapporti, alla base dei quali si costruisce il potere.

Per esempio, tra l’essere cittadini e nudi corpi (nuda vita), siamo pronti a chiederci intanto cosa significa ‘corpo’ oggi, in Occidente? Come viene costruito culturalmente nel nostro ‘qui’, come viene elaborato e rappresentato e significato? Quanto pesa proprio il corpo in quella riflessione sull’«incertezza che il migrante porta con sé»? Che scuote l’Occidente, le sue costruzioni simboliche, le sue (auto)rappresentazioni, le sue narrazioni, oggi in pieno regime di estetizzazione della politica? «Il “corpo” è la nostra angoscia messa a nudo. Sì, quale altra cultura è riuscita a inventare ciò? Il corpo così nudo» si chiede Nancy (1995: 10) [5] .

«Noi non abbiamo messo il corpo a nudo: l’abbia inventato, ed esso è la nudità, e non c’è altra nudità che questa ed essa è più straniera. Che il “corpo” nomini lo Straniero, assolutamente, questo è il pensiero che abbiamo portato a compimento. Lo dico senza ironia, non sminuisco l’Occidente» (ivi: 10-11).

4 Una riflessione tale, se spogliata, per rimanere in tema, della fascinosa arguzia filosofica, risulta essere una suggestione che rivela con semplicità come ogni paradigma concettuale, anche quello di ‘corpo’, deve essere messo in discussione con una prospettiva culturalista, che sappia essere critica nei confronti della cultura, anche quando riflette su stessa e sulle proprie strutture e produzioni, materiali e concettuali che siano. In La guerra dei sogni [6], Marc Augé ci ricorda inoltre che è la cultura ad autorizzare o imporre, rendendole pensabili e gestibili, cioè simbolizzando e istituendo, le diverse istituzioni o rappresentazioni e i diversi tipi di relazione (1997: 10). Aggiunge poi che «le culture non sono mai piovute dal cielo, che le relazioni fra esseri umani sono sempre state il prodotto di una storia, di lotte, di rapporti di forza. La necessità che esse abbiano un senso (senso sociale pensabile e gestibile) non le rende per questo delle necessità di natura, anche quando ne assumono l’aspetto» (ibidem).

Se vogliamo pertanto assumere l’orizzontalità suggerita da Foucault nel considerare il potere una forma di relazione e se di Stato e potere vogliamo discutere, dobbiamo fare i conti con l’idea che il concetto di Stato moderno sia imbrigliato concettualmente con quello di nazione e che quest’ultima si fonda su un processo di costruzione-immaginazione. Tutte le società vivono e «hanno vissuto dentro e attraverso un immaginario», che è processo e insieme mezzo e risultato della cultura, delle sue immagini, delle sue istituzioni, delle sue narrazioni, dei suoi miti, eroi e antagonisti. Ciò che dà forma al potere, che ne istituisce la violenza e ne plasma la libertà.

Dialoghi Mediterranei, n.31, maggio 2018
Note

[1]   Le citazioni di Cossiga, Dei, Di Pasquale, Faeta, Urbano, si trovano nei rispettivi articoli in Stato, violenza, libertà. La «critica del potere» e l’antropologia contemporanea, a cura di F. Dei e C. Di Pasquale, Donzelli, Roma 2017.
[2 ] In Agamben G., 2006, Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma.
[3] «Una tecnologia elettronica che gestisce e coordina oggi migliaia di telecamere, connesse con server, che consente a ogni cittadino  volenteroso di collegarsi da casa ed esercitare in proprio la sorveglianza del confine. Sul sito, cui si può agevolmente accedere anche dall’Italia, previa iscrizione che comporta un indirizzo email e la creazione di una password, come da ogni altra parte del mondo  occidentale, la missione è spiegata con queste parole: “blueservo ha intro- dotto  la Comunità di sorveglianza  virtuale, un innovativo  programma in tempo  reale concepito  per aiutare le persone  a partecipare  in modo proattivo alla lotta alla criminalità transfrontaliera. Blueservo, comunità di sorveglianza vir­tuale, è una rete di telecamere e sensori posti lungo il confine Texas-Messico, che invia in streaming dirette video al ser­ver. Gli utenti saranno registrati nel sito web e potranno direttamente monitorare  i sospetti di attività criminose lungo il confine, attraverso  questa difesa virtuale”» (Faeta 2017: 79).
[4] in Sayad A., 2002, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, prefazione  di P. Bourdieu, ed. it. a cura di S. Palidda, Raffaello Cortina, Milano.
[5] Nancy J.L., 1995, Corpus, ed. it. a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli.
[6] in Augé M., 1997, La Guerre des rêves. Exercices d’ethno-fiction, trad. di A. Soldati, ed. it. a cura di Elèuthera, Milano.

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 Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Attualmente studia Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna.
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