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Per una diversa concezione e progressione delle carriere degli insegnanti

Raffaello, La Scuola di Atene (part.)

Raffaello, La Scuola di Atene (part.)

per la scuola

di Augusto Cavadi

Nel dibattito su Scuola e Università avviato sull’ultimo numero di Dialoghi Mediterranei con gli interventi di Fabio Dei (Ancora sul saper scrivere alluniversità. La scuola progressista e i suoi critici) e di Antonio Pioletti (“Per non essere di coloro che tacciono”: per una mobilitazione della Scuola e dellUniversità), la voce di un insegnante di scuola secondaria – sia pur in quiescenza – può forse opportunamente integrare quanto sostenuto da due colleghi universitari; ma la ricchezza così articolata dei loro contributi impedisce uninterlocuzione altrettanto dettagliata. Devo dunque limitarmi a pochi, disorganici, flash.

Trovo impeccabile la valutazione che Dei esprime sul libro Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza (La Nave di Teseo, Milano 2021): 

«Ricolfi e Mastrocola hanno proposto di fronte a un pubblico non meramente specialistico una denuncia sacrosanta, perché l’impreparazione di amplissimi settori di studenti è un fatto; e hanno mostrato che lasciare che ciò avvenga e anzi si aggravi costantemente non è di sinistra e danneggia i ceti inferiori (sarà pure la scoperta dell’acqua calda, ma allora quanti pedagogisti hanno finora usato solo quella fredda?). Poi, semplificano e forse sbagliano nel ricostruire storicamente le responsabilità, e nell’indicare come soluzione il semplice ritorno al passato e la liquidazione di intere stagioni di elaborazione di cultura educativa e di metodologia didattica. Rischiano di finire su quel terreno che deplorano in riferimento alla “scuola progressista”, cioè di portare il discorso su un piano morale più che pratico. E i loro critici ovviamente li seguono ben volentieri su questo terreno (voi reazionari, noi dalla parte degli oppressi etc. etc.). Francamente di queste contrapposizioni, di discorsi fatti soprattutto per sottolineare la superiorità morale di chi parla, ne possiamo fare anche a meno. Resta un problema pragmatico: come si insegna a scrivere e a parlare alle ragazze e ai ragazzi di oggi?». 

Personalmente avrei solo da aggiungere una risposta alla domanda finale: consentendo la cattedra solo a insegnanti che sappiano scrivere e parlare. Provo a esplicitare la mia risposta apparentemente paradossale o provocatoria che potrà essere interpretata rettamente solo se – pur contestando alcune terapie suggerite dalla coppia Ricolfi e Mastrocola – se ne condividano alcune diagnosi, alcune ‘fotografie’ della situazione attuale. Nella quale – come leggo in un commento anonimo a un post sul mio blog personale«il livello culturale medio è calato negli anni, al punto che uno studente di terza media di una sessantina di anni fa ne sapeva più di un diplomato di oggi. Per avere una scuola non di classe si è creata una scuola ancora più classista: per avere un curriculum accettabile non basta più nemmeno la laurea, ci vuole il master o addirittura il ‘dottorato di ricerca’, chi si può permettere di studiare fino a quarant’anni ha sicuramente una famiglia facoltosa alle spalle. Altro problema è il valore legale del titolo di studio: una laurea conseguita in un’università prestigiosa ha lo stesso valore ‘legale’ di una conseguita in altro Paese dell’UE meno esigente, ma da cosa dipenderà il suo valore ‘effettivo’? Poiché in Italia demonizziamo la meritocrazia e tolleriamo – o pratichiamo noi stessi per primi – il nepotismo, con una laurea conseguita con un’università telematica e lo sponsor giusto tutte le porte sono aperte. Conseguenza di questo andazzo? I migliori vanno all’Estero dove i meriti sono riconosciuti e le raccomandazioni pesano molto meno».

Solo sulla base della condivisione di questo quadro deprimentemente realistico posso rispondere alla domanda finale di Fabio Dei (“come si insegna a scrivere e a parlare alle ragazze e ai ragazzi di oggi?”) ricollegandomi al contributo del mio amico Pioletti che evidenzia la necessità di considerare sinotticamente il sistema dell’istruzione dagli asili nido alle università. Nulla di più saggio e urgente. Egli sottolinea soprattutto la conseguente opportunità che gli investimenti statali siano distribuiti trasversalmente con equità non solo in tutti gli ordini e i gradi, ma anche nelle varie aree socio-economiche del Paese (da Nord a Sud). In aggiunta – e non certo in alternativa – evidenzierei l’opportunità di un’analoga equità nella formazione dei docenti. Per varie ragioni si è infatti radicata la convinzione che la preparazione professionale degli insegnanti debba essere proporzionale al livello anagrafico degli studenti: dunque appena accettabile nella scuola dell’infanzia e nella primaria (elementare), un po’ più dignitosa nella scuola secondaria di primo e di secondo grado; quanto più elevata possibile negli istituti universitari.  

A questa scala di richieste corrisponde, da parte dell’amministrazione pubblica, una scala di compensi: dagli stipendi dei maestri via via più elevati sino ai docenti universitari. Nulla di più sbagliato e dagli effetti più disastrosi! Più piccoli sono gli alunni, più difficile è rapportarsi ad essi: quando ci si riesce con perizia pedagogica i benefici sono maggiori, quando s’incorre in errori le conseguenze per la formazione della loro personalità sono molto più gravi. Insegnare a ragazzi ultra-diciottenni è molto meno faticoso e, in caso di deficienze didattiche, molto meno deleterio: le vittime sono molto più in grado di difendersi e reagire criticamente. Ignorare queste verità lapalissiane ha comportato sino ad oggi che un bravo insegnante di scuola primaria, se vuole migliorare il proprio status sociale e l’emolumento mensile, deve o cambiare mestiere (per esempio accedendo al ruolo di dirigente scolastico) o svolgerlo in altri ordini di scuola (per esempio al liceo).

Conosco l’obiezione anche da parte di chi, in linea puramente teorica, accetta la mia analisi: lo Stato non può pagare a centinaia di migliaia di insegnanti di scuola dell’infanzia e primaria lo stesso stipendio che garantisce a poche decine di migliaia di docenti universitari. È vero: il dato quantitativo non può essere ignorato (almeno sino a quando si ragiona in regime liberal-capitalistico, per giunta in un contesto planetario dove si investono cifre astronomiche per aggiornare gli armamenti bellici e risuona come visionaria la recente proposta ai governi da parte di cinquanta scienziati di ridurre del 2% le spese militari). Ma può essere gestito sulla base di altri criteri: soprattutto in base al “merito” (altra parola tabù nel vocabolario finto-progressista). Mi spiego: prevedendo tre fasce di insegnanti all’interno di ciascun livello scolastico (scuola dell’infanzia e primaria; scuola secondaria; università). Ossia: una fascia di insegnanti ‘di base’; una fascia di insegnanti ‘confermati’; una fascia di insegnanti ‘specializzati’. In questo scenario utopico, un insegnante di scuola materna ‘specializzato’ guadagnerebbe più di un professore di liceo ‘confermato’, il quale – a sua volta – guadagnerebbe più di un docente universitario ‘di base’.  Ciascun docente avrebbe possibilità di carriera all’interno della propria scuola senza dover rassegnarsi all’alternativa fra restare tutta la vita soldato semplice (magari alla mercé di caporalmaggiori che, inadatti a insegnare, hanno avuto la presunzione di diventare dirigenti scolastici o ispettori ministeriali) oppure abbandonare l’ordine di scuola nel quale, sulla base di profonde attitudini, ha maturato una notevole esperienza.

Fanciulla di Roma

Ritratto di Saffo, 55-79 d.C. (Museo Archeologico Nazionale di Napoli)

Ma questa differenziazione di livelli fra insegnanti sulla base di quali meccanismi avverrebbe? Dopo decenni di dibattiti sul tema – in cui mi sono ritrovato puntualmente in minoranza – so che la risposta implica l’abbattimento di immense muraglie d’ipocrisia. Dietro l’etichetta della “libertà d’insegnamento” e dell’impossibilità di misurare la professionalità dei docenti si nasconde il terrore di svelare che il re sia – più spesso di quanto si sospetti – nudo. Da qui la negazione dell’evidenza che ogni genitore, prima di iscrivere un figliuolo, si informa sulla qualità dei docenti e riceve quasi sempre notizie attendibili da ex-alunni o dal personale ausiliario: perché non costruire meccanismi sempre più corretti per trasformare queste graduatorie da informali in formali? Esperienze di Paesi come la Francia – dove un insegnante può chiedere, mediante concorso, di passare ad una fascia superiore in virtù della quale avrà meno ore di lezione frontale e maggiore stipendio – possono suggerire delle piste di sperimentazione.

Da molti anni – ovviamente invano – sogno che gli attuali “comitati di valutazione” , formati da docenti eletti dal collegio dei colleghi, cessino di essere degli organismi puramente scenografici e stilino ogni anno delle schede di valutazione dei colleghi sulla base di questionari (compilati da alunni maggiorenni  – o di genitori di alunni minorenni  – che abbiano lasciato la scuola da almeno un anno e non più di due)  in cui si chieda, ad esempio, se un docente arrivasse abitualmente in orario; se spiegasse in maniera efficace; se trattasse con rispetto e comprensione gli alunni; se fosse puntuale nella correzione dei compiti scritti; se fosse equo nell’attribuzione dei voti…Ovviamente i dati offerti da ex-alunni ed ex-genitori di alunni andrebbero integrati con i dati acquisiti per altre vie dai membri del comitato di valutazione: esame a campione di prove scritte e corrette; esame a campione di relazioni redatte sia in sede di programmazione che di consuntivo annuale (dove non è per nulla raro trovare errori ortografici e grammaticali; sconnessione logica fra una frase e la successiva etc.); esame di pubblicazioni riguardanti sia i contenuti disciplinari che le metodologie didattiche…Sarebbe poi compito dei dirigenti scolastici distribuire, equamente nelle varie sezioni, i docenti appartenenti alle tre fasce di merito, in modo che in ogni sezione ci sia almeno un collega che faccia da traino, per esperienza e passione, nei confronti di insegnanti e alunni.

Ma quale sarebbe la ragione radicale di questa differenziazione all’interno del ruolo docente? Evitare la tragedia, registratasi nei settanta e più anni di Repubblica democratica, della fuga dalla scuola delle personalità più carismatiche di ogni generazione. Sempre più frequentemente, infatti, gli studenti più dotati e brillanti – al momento della scelta universitaria – si orientano su professioni che non siano l’insegnamento. Per quanto in molti casi inclini a questo genere di mestiere, vengono scoraggiati dalla prospettiva dell’iniquo patto con l’amministrazione statale: ti assumerò senza filtri esigenti; non ti sottoporrò a nessuna forma seria di controllo né di valutazione; in cambio accetterai di restare per tutta la vita nella stessa condizione professionale ed economica degli esordi.

È ovvio che, a diciotto o diciannove anni, si sia attratti dalla prospettiva di una progressione di carriera – come medico o magistrato, come poliziotto o bancario, come giornalista o architetto – che non significa solo maggiori guadagni, ma soprattutto maggiore possibilità di mettere a frutto crescente i propri talenti e di trarne conseguenti gratificazioni. Così è inevitabile che, di generazione in generazione, il livello medio dei docenti regredisca verso il basso. Un collega che insegna una lingua/letteratura antica all’università mi confidava, qualche tempo fa, che, per evitare di bocciare tutti quanti i candidati di una sessione, si concede un voto di sufficienza nella traduzione della versione a studenti che, da insegnanti, rischieranno di risultare meno preparati dei loro migliori alunni. Un professore inglese, avendo chiesto a un collega italiano, che insegna filosofia all’università, come mai non si prevedessero prove scritte, si sentì rispondere – fra l’ironico e il mesto – che sarebbe stata una modalità antidemocratica: infatti non tutti gli studenti di filosofia sono in grado di scrivere. E proprio nelle ore in cui provo a mettere in ordine per iscritto la valanga di considerazioni che, da più di mezzo secolo, mi frullano in mente, ascolto su Rai Radio 3 la testimonianza di una professoressa romana alle soglie del pensionamento: «Almeno il 60 % dei miei colleghi occupa la cattedra senza passione, per ripiego. Partiti politici e sindacati hanno, dall’inizio della Repubblica, deciso che la scuola diventasse l’ammortizzatore sociale dei laureati che, per le motivazioni più varie, non riescono a realizzare i loro sogni professionali». Che tristezza! E poi ci stupiamo che gli italiani leggano poco, capiscano ancor meno, si esprimano illogicamente, votino come votano!

Antonio Mancini, Lo studio, 1875

Antonio Mancini, Lo studio, 1875

Vorrei chiudere con una notazione in calce. Solo se riuscissimo ad attrarre nelle fila degli insegnanti di ogni ordine e grado anche persone contagiosamente pensanti, persone motivate e attrezzate – per intenderci quelle stesse che diventano abati generali se decidono di intraprendere la carriera ecclesiastica o amministratori delegati di aziende multinazionali se propendono per la carriera imprenditoriale – salveremmo la scuola dal suo lento, ma inesorabile, sprofondamento nella palude della mediocrità burocratica; e, salvando la scuola, salveremmo la società. In tutti gli ambiti: anche il giudiziario, anche il politico. Il giudiziario: all’ultimo concorso per magistrati non si sono potuti assegnare tutti i posti disponibili perché non ci sono stati candidati in grado di raggiungere il minimo previsto per essere ritenuti idonei (perfino dal punto di vista della sintassi, della grammatica e dell’ortografia!). Così uno dei Paesi del mondo occidentale più tormentati dalla delinquenza comune e organizzata resta, da decenni, con un organico di magistrati inferiore al fabbisogno programmato. E molti candidati, a cui viene impedito con esami severi l’accesso alla magistratura, ripiegano sull’insegnamento, cui accedono anche solo con leggi e leggine destinate a ripagare anni di supplenze in regime di precariato.

Anche l’ambito politico trarrebbe giovamento da una scuola gestita non solo da onesti artigiani, ma anche da artisti creativi che l’animassero senza l’aria di primi della classe (quell’aria che proprio le persone più geniali non hanno propensione ad assumere), come avviene in tutti i gruppi di lavoro nel resto della società: infatti si deve anche all’incapacità dell’elettorato ‘medio’ di decifrare messaggi un po’ più articolati degli slogan pubblicitari se in Parlamento e – conseguentemente – al Governo troviamo sempre più frequentemente piazzisti di luoghi comuni e di promesse illusorie. Furbastri e arrivisti, corruttori e corrotti, si trovano, certamente, anche fra i soggetti istruiti: ma – in una democrazia che non fosse solo formale, che fosse anche cognitiva – avrebbero molta più difficoltà a raccogliere consensi. 

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022

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Augusto Cavadi, già docente presso vari Licei siciliani, co-dirige insieme alla moglie Adriana Saieva la “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo. Collabora stabilmente con il sito http://www.zerozeronews.it/. I suoi scritti affrontano temi relativi alla filosofia, alla pedagogia, alla politica (con particolare attenzione al fenomeno mafioso), nonché alla religione, nei suoi diversi aspetti teologici e spirituali. Tra le ultime sue pubblicazioni si segnalano: Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2010); La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento (Di Girolamo, 2011); Il Dio dei leghisti (San Paolo, 2012); Mosaici di saggezze – Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene Multimedia, 2015); La mafia desnuda – L’esperienza della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone” (Di Girolamo, 2017); Peppino Impastato martire civile. Contro la mafia e contro i mafiosi (Di Girolamo, 2018), Dio visto da Sud. La Sicilia crocevia di religioni e agnosticismi (SCe, 2020); O religione o ateismo? La spiritualità “laica” come fondamento comune (Algra 2021).

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