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Per un approccio scientificamente corretto. A proposito dell’estraneità ostile
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2021 @ 00:37 In Cultura,Migrazioni | No Comments
dopo saman
di Roberto Cipriani
Premessa. Del caso Saman, secondo Ciccozzi
Il lungo e meditato testo con cui Antonello Ciccozzi ha preso spunto dalla vicenda di Saman Abbas (la giovane italo-pakistana scomparsa e forse uccisa perché rifiutava il matrimonio combinato dai suoi familiari e si comportava seguendo il modello culturale occidentale e non quello islamico di provenienza) solleva molti e diversi interrogativi, tutti degni di massima attenzione proprio per evitare il rischio di un accademismo di maniera e di un rifiuto sostanziale nel farsi carico di una problematica vasta e quanto mai attuale.
Ciccozzi prende giustamente l’avvio dalle riflessioni contenute nell’editoriale del numero 50 di Dialoghi Mediterranei per ribadire che effettivamente gli studiosi italiani di antropologia hanno dedicato poca attenzione alla vicenda (aggiungo che lo stesso dicasi per i sociologi, salvo pochissime eccezioni). Ma il punto di attacco non è tanto questo quanto il dover registrare l’esistenza di due opposti schieramenti, l’uno tutto teso alla colpevolizzazione dell’islam e l’altro decisamente orientato a scagionarlo in pieno. E non mancherebbero esempi di ricorsi a citazioni coraniche per giustificare comunque l’accaduto o, all’opposto, per invitare alla pacificazione ad ogni costo. Un ulteriore dato è costituito dalla tendenza ad accusare gli occidentali che sarebbero incapaci di comprendere la cultura islamica. Inoltre emergerebbe evidente un invito a «decolonizzare l’incontro tra esseri umani, all’infuori dei modelli sociologici del melting pot o del salad bowl».
Poste queste premesse, la discussione si amplifica a dismisura, giacché occorre fare i conti contemporaneamente sia con la xenofobia, la paura dell’altro, del diverso, sia con la xenofilia, l’amore incondizionato, l’accoglienza senza se e senza ma, l’apertura illimitata.
Ciccozzi in parte accetta e in parte rigetta alcune tesi sostenute da Giovanni Cordova nel numero 50 del presente periodico (Dialoghi mancati, cittadinanze negate. Intorno alla vicenda di Saman Abbas), ma, senza seguire necessariamente il filo conduttore di tale diatriba, solleva un ginepraio, per così dire, la critica mossa all’ambiente intellettuale ed universitario nostrano che ragionerebbe in modo complesso (e spesso incomprensibile) per motivare la propria presa di posizione a favore del mondo “altro”, solitamente indicato avendo il proprio come parametro di riferimento e dunque ricorrendo alla formula del “non occidentale” applicata alla realtà “al di fuori”.
Il Leitmotiv che ricorre concerne la supposizione, ancora tutta da fondare e verificare, di un arricchimento proveniente proprio da parte degli altri, gli immigrati, gli stranieri, gli islamici segnatamente. In tal modo si tenterebbe di esorcizzare o, di fatto, negare la possibilità che il forestiero possa essere un nemico, appaia avverso.
Secondo una logica cieca, che è tale intenzionalmente (perché appunto non si vuole vedere), c’è sempre e solo lo straniero che patisce e mai quello che fa patire. Grazie a questa cecità sostenuta culturalmente, il male abiterebbe la nostra società occidentale ed il bene tutto il resto del mondo. Se però qualcosa di malvagio è palesemente presente nell’altrui comportamento allora lo si minimizza confinandolo in categorie residuali, non legittimate dal consenso sociale: l’esaltato, il fuorilegge, il pazzo, il sovversivo, il dinamitardo, il kamikaze (il “vento divino” che annientò i mongoli mentre stavano attaccando i giapponesi nel 1281).
Lo spartiacque fra sinistra e destra è una finzione giacché entrambe muovono da pregiudizi di fondo, per cui tutto è buono oppure tutto è cattivo, tutto è ricchezza oppure tutto è danno, tutto è legittimo oppure tutto è illegittimo. La realtà perde il suo profilo effettivo e viene ridisegnata ad uso e consumo di chi la definisce secondo la sua prospettiva (appunto la nota proposta di Berger e Luckmann. La realtà come costruzione sociale, il Mulino, Bologna, 1997).
Come annota opportunamente Ciccozzi, «queste semiosfere in conflitto assumono l’assetto di camere d’eco in cui il pensiero viene espresso in un monolitismo dal suono gregoriano e la diversità d’opinione è bandita (tanto tra chi esalta l’identità culturale quanto da chi esalta la diversità culturale)». Certamente sono queste le due correnti di pensiero e di significato prevalenti ma esistono altre soluzioni, minoritarie eppur attive, nelle religioni come nei partiti politici, nelle università come nei sindacati, nel mondo produttivo come in quello culturale.
E coglie nel segno ancora Ciccozzi quando individua dei paradisi di estraneità alle effervescenze sociali ed alle agitazioni rivendicative: una “comfort zone” in cui le tempeste non arrivano, la serenità regna sovrana, l’imperturbabilità la vince rispetto a qualsiasi refolo provenga dal di fuori, «rimuovendo questo emergere dell’altro in forma perturbante di estraneità ostile; e lo si fa facendo finta di nulla, o al limite proiettandolo altrove, su categorie rassicuranti».
Ancor più interessante, se possibile, è la disamina condotta sui posizionamenti dei mezzi di comunicazione di massa, che esattamente sul caso Saman avrebbero sposato interpretazioni fuorvianti e non corroborate da evidenze empiriche: il quotidiano il Manifesto ha parlato di femminicidi, di “nicchie etniche”, di irrilevanza della religione nel caso specifico e di patriarcato mentre l’intellettuale della matita Vauro avrebbe appaiato quanto accaduto alla stessa “nostra sottocultura” del maschio padrone.
Insomma per un verso l’islam non c’entra e per l’altro si rinfocola l’islamofobia. E a questo punto Ciccozzi sembra insorgere e prendersela con la sinistra che tutto appiattisce e non vede quel che c’è di fatto nel fenomeno in esame. E comincia a smontare tutta una serie di presupposti che corrispondono ad altrettanti pregiudizi xenofili: i crimini non vanno etnicizzati (la responsabilità è individuale, la cultura non c’entra); l’islam non c’entra; è un femminicidio come i nostri, è il patriarcato, sono usi tribali, succedeva anche da noi; associare questi delitti all’islam è islamofobia.
Queste quattro interpretazioni correnti vengono confutate in pieno, in quanto nei delitti d’onore la responsabilità resta individuale ma la matrice ha una valenza culturale; un conto è il livello istituzionale dell’islam ed un altro conto è il vissuto religioso quotidiano; nel mondo islamico l’asservimento della donna sia all’uomo che alla famiglia ha luogo in una situazione fortemente squilibrata e non paragonabile a quanto avviene nel mondo occidentale; infine la critica dell’islam, religione non certo minoritaria nel mondo, dovrebbe essere consentita. Infine viene suggerita la strada di un’europeizzazione dell’islam in alternativa ad un’islamizzazione dell’Europa.
In situazioni conflittuali, con aspri scontri verbali e fattuali (con azioni forti, talora lesive anche sul piano fisico oltre che psicologico), sono accusati di buonismo coloro che propendono per soluzioni più miti, meno violente, non vendicative, non assolutistiche, magari di compromesso. Orbene proprio il compromesso è sovente considerato un accomodamento poco efficace, non duraturo, rinunciatario. Eppure esso rappresenta in molti casi la via di uscita da un’impasse altrimenti senza soluzione, da un vicolo cieco entro il quale l’assenza di vie di fuga costringe i contendenti a misurarsi in uno spazio ristretto, che non offre alternative se non lo scontro diretto con danni reciproci. Il compromesso è in effetti una forma di mediazione, faticosa da realizzare e basata sulla speranza di reperire una formula adatta ad affrontare una situazione di crisi.
Quando due interlocutori, singoli o collettivi, si cimentano su una questione da risolvere, su una decisione da prendere, i rispettivi punti di partenza rispondono tendenzialmente e principalmente a prospettive univoche, interessate, piuttosto ideologiche. Solo nel dibattito e nella dialogicità si scoprono le esigenze e le attese altrui, non sempre ed immediatamente percepibili da un angolo di visuale diverso e persino opposto. Ecco dunque che appare necessaria una modalità di attenzione all’altro per coglierne le intenzioni e il bisogno reale di riconoscimento. Perciò diventa imprescindibile un’offerta di disponibilità, di apertura alla comprensione e alla compartecipazione.
Il buonismo dell’attesa e della sospensione del giudizio (ovvero del pre-giudizio) risponde ad una scelta operativa ben fondata: conoscere per capire, comprendere ancora prima di agire, procedere con cautela evitando attacchi diretti, frontali, dichiaratamente ostili. Ovviamente non sarebbe produttivo un atteggiamento di resa incondizionata alle proposte altrui: non si renderebbe un buon servizio nemmeno a chi sta dall’altra parte, perché lo si rafforzerebbe nella sua convinzione di avere sempre e comunque ragione. E ciò d’altro canto non sarebbe giusto e corretto neanche nei riguardi di chi offrendosi del tutto alla colonizzazione ideologica dell’altro rinuncia per ciò stesso alla propria matrice di provenienza.
Detto altrimenti, il buonismo di cui si parla in generale a proposito di soggetti che muovono da un’ispirazione religiosa, cattolica o cristiana od islamica o di altra derivazione, non può significare un annientamento della propria identità quanto piuttosto un consapevole modo di interagire nella forma più opportuna, cioè ipotizzando in linea di principio una disponibilità anche del proprio interlocutore a voler trovare una convergenza consensuale. Di solito serve appunto una sfiducia ben nutrita (l’espressione è del sociologo Antonio Mutti, autore di “La fiducia. Un concetto fragile, una solida realtà”, Rassegna Italiana di Sociologia, 1987, XXVIII: 223-247). In altre parole il buonismo è espressione in pari tempo di fiducia ma anche di sfiducia ben nutrita, cioè contemporaneamente ed evangelicamente di prudenza ed astuzia. Si offre il destro ma si evita di lasciarsi colpire. Si porge l’altra guancia, ma – si direbbe – non ve n’è una terza che darebbe all’altro il diritto di offendere all’infinito, con suo detrimento (oltre che nostro).
Il buonismo in definitiva non sembra una formula perdente se viene esercitato con sagacia e senza rinunzie significative ai valori che ad esso danno luogo e sostegno. Ancora una volta risulta valida la metafora del dilemma del prigioniero che non sa decidere se collaborare o meno. In genere la risoluzione di avvio è quella della fiducia e del rispetto. Ma se a lungo andare tutto ciò non servisse occorre poi passare ad un atteggiamento che faccia capire ancora meglio che non si è inconsapevoli vittime della coartazione altrui ma solo latori di una volontà di comunicazione dialogica a due vie, cioè in modo circolare, senza che l’uno prevarichi l’altro.
La Chiesa cattolica in Italia si è trovata negli ultimi decenni ad affrontare l’impatto con un’accresciuta presenza di soggetti appartenenti ad altre religioni. Fenomeno in verità non propriamente senza precedenti storici: basti pensare alle molteplici interazioni già in atto nel XIII secolo in Sicilia, ai tempi di Federico II, che ebbe a che fare contemporaneamente con cattolici e ortodossi, musulmani ed ebrei. Prima di lui, anche Guglielmo II d’Altavilla, detto il Buono, sperimentò le stesse modalità di pacifica convivenza inter-religiosa, avviata in parte da Ruggero I d’Altavilla (dopo una prima fase conflittuale con i musulmani).
Qualcosa di simile sembra verificarsi pure nella realtà odierna, giacché nelle narrazioni offerte dagli intervistati con l’approccio qualitativo nell’indagine nazionale sulla religiosità (Cipriani, L’incerta fede. Un’indagine quanti-qualitativa in Italia, FrancoAngeli, 2020: in particolare 305 e sgg., qui riprese parzialmente) sono numerosi i punti in cui si parla di incontri, relazioni ed amicizie con soggetti appartenenti ad altre confessioni religiose. In una delle 24 dimensioni tematiche basate su 320 categorie concettuali, si rileva nettamente una propensione degli interpellati a porre attenzione ad altre religioni diverse dalla propria. I dettagli sulle singole considerazioni e riflessioni si rintracciano nei testi delle interviste (rivolte anche a 4 musulmani, 3 protestanti, 3 testimoni di Geova, 1 induista, 1 vedico e 1 esponente di “Nuovo Rinascimento), che presentano sostanzialmente due scenari principali e in qualche modo contrapposti: vi è un primo gruppo, più cospicuo, di persone che non hanno difficoltà ad accettare, annettere ed aggregare in senso lato una religione altra dalla propria, pur non rinunciando al proprio credo; un secondo insieme di soggetti tiene molto di più alla propria fede di appartenenza e muove alcune critiche alle religioni diverse. Pare prevalere tra le varie prese di posizione quella piuttosto aperta verso il mondo islamico, vuoi per amicizie contratte vuoi per esperienze dirette di un particolare modo di vivere intensamente la fede in forme abbastanza visibili e vistose.
Vi sono, poi, persone che preferiscono mantenere un perfetto allineamento con la religione di appartenenza e dunque poco concedono agli altri orientamenti di fede, che sottopongono a critiche.
In qualche caso l’opinione sulle religioni ha un carattere ambiguo, non ben determinato, probabilmente frutto anche di una ricerca ancora in corso e/o di un problema irrisolto.
Ovviamente, oltre quanto già riportato in precedenza, non poteva mancare qualche altro riferimento relativo alla specifica presenza islamica in Italia, cresciuta notevolmente in anni recenti.
Secondo i risultati dell’indagine quantitativa con questionario somministrato ad un campione di 3.238 persone (Garelli, Gente di poca fede, il Mulino, Bologna, 2020), la questione del velo islamico vede anche in Italia, come in Francia, un raffronto fra due diversi punti di vista, che segnalano una certa tendenza verso l’accoglienza della diversità ma tale orientamento non è ancora molto diffuso perché si limita ad un terzo degli intervistati, giacché si dicono molto d’accordo il 9,1% ed abbastanza il 25,6%, cioè in totale il 34,7%. La maggioranza si esprime per il poco d’accordo nella misura del 25,3% e per nulla d’accordo al 40%, per cui alla fine i contrari sono il 65,3%.
Di seguito alcune questioni legate alla pratica della religione islamica in Italia.
Per ciascuna dovrebbe indicare quanto è accettabile per lei: molto, abbastanza, poco o per nulla. Quanto è accettabile che… (una sola risposta per ciascuna questione) le ragazze e le donne musulmane vadano a scuola o al lavoro a capo coperto, se ciò fa parte dei loro costumi religiosi | |||||
|
n |
% |
% valido |
% cumulativo |
|
|
Molto |
295 |
9,1 |
9,1 |
9,1 |
Abbastanza |
829 |
25,6 |
25,6 |
34,7 |
|
Poco |
819 |
25,3 |
25,3 |
60,0 |
|
Per nulla |
1296 |
40,0 |
40,0 |
100,0 |
|
Totale |
3238 |
100,0 |
100,0 |
|
Il venerdì i fedeli musulmani possano assentarsi dalla scuola o dal lavoro per andare in moschea | |||||
n | % | % valido | % cumulativo | ||
Valido | Molto |
234 |
7,2 |
7,2 |
7,2 |
Abbastanza |
600 |
18,5 |
18,5 |
25,7 |
|
Poco |
932 |
28,8 |
28,8 |
54,5 |
|
Per nulla |
1472 |
45,5 |
45,5 |
100,0 |
|
Totale | 3238 | 100,0 | 100,0 |
Il diniego si estende altresì ad una formazione storico-culturale di matrice islamica. Ma questa volta il tasso di favore sale leggermente, in quanto sono molto d’accordo l’8,2% ed abbastanza il 29,5%, cioè un insieme del 37,6%. Sull’altro fronte il poco d’accordo segna il 29,5% ed il per nulla si attesta al 32,9%, insomma il 62,4% di contrari.
Lo Stato acconsenta che nella scuola pubblica gli studenti musulmani (se i genitori lo richiedono) ricevano una formazione improntata alla loro storia e cultura, anziché alla storia e alla cultura cristiana | |||||
n |
% |
% valido |
% cumulativo |
||
Molto |
264 |
8,2 |
8,2 |
8,2 |
|
Abbastanza |
955 |
29,5 |
29,5 |
37,6 |
|
Poco |
955 |
29,5 |
29,5 |
67,1 |
|
Per nulla |
1064 |
32,9 |
32,9 |
100,0 |
|
Totale |
3238 |
100,0 |
100,0 |
|
Un’altra annosa problematica concerne la possibilità di costruire moschee. Lo permetterebbero molto il 9% ed abbastanza il 30,4%, dunque un totale del 39,4%. Invece sono poco d’accordo il 30,1% e per nulla il 30,5%, per cui alla fine gli sfavorevoli sono il 60,6%.
I musulmani che vivono-lavorano in Italia possano costruire e gestire delle moschee nelle varie zone delle città | |||||
n | % | % valido | % cumulativo | ||
Valido | Molto | 292 | 9,0 | 9,0 | 9,0 |
Abbastanza | 984 | 30,4 | 30,4 | 39,4 | |
Poco | 975 | 30,1 | 30,1 | 69,5 | |
Per nulla | 987 | 30,5 | 30,5 | 100,0 | |
Totale | 3238 | 100,0 | 100,0 |
Il panorama che emerge dall’inchiesta sulla religiosità in Italia depone a favore di una possibilità di interlocuzione fra mondo islamico e cultura italiana in generale. Il gradimento della popolazione in proposito non è ancora maggioritario ma è sulla strada di esserlo, nella misura in cui si incrementino gli scambi ed i confronti, sempre possibili come mostrano le dichiarazioni spontanee riportate sopra. L’idea sostenuta da Bassam Tibi, uno studioso naturalizzato tedesco ma di madre araba e siriano di origine (che ho conosciuto e frequentato ai tempi in cui entrambi facevamo parte dell’Euro-Arab Social Research Group, finanziato dalla Fondazione Adenauer nella seconda metà del secolo scorso), è da considerare praticabile: vi può essere un’europeizzazione dell’islam, senza forzature ed attraverso un dialogo aperto e sincero, costruttivo e deideologizzato.
D’altra parte, una concezione rigida della Sharia intesa come pura e semplice abolizione della legge positiva instaurata dagli uomini per sostituirla con quella ritenuta di derivazione divina non è perseguita e sostenuta dalla parte più illuminata ed aperta reperibile anche in Italia nello stesso ambito islamico. Penso in particolare all’imam Yahya Sergio Yahe Pallavicini, Presidente della CO.RE.IS. (Comunità Religiosa Islamica) Italiana o ad Abdellah Redouane, Segretario Generale del Centro Islamico Culturale d’Italia.
Semmai andrebbe invece riformulata l’espressione che parla di europeizzazione, in quanto presuppone una precisa scelta di campo e di prospettiva: individuare un’alternativa non è agevole ma è evidente che anche le denominazioni dei processi hanno un loro peso.
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