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Per metafore e allegorie: intrecci come metafore geminate

Kandinsky,

Kandinsky, Sul bianco II, 1923

di Clarissa Arvizzigno

Può l’intreccio di un testo letterario essere il prodotto delle metafore geminate da e nel testo? Può la metafora essere intesa come un impulso che genera possibili intrecci?

In questo breve saggio, ci proponiamo di rileggere in chiave fenomenologica la classica nozione di fabula e intreccio introdotta dai formalisti russi [1], considerando il testo come il campo fenomenico in cui avvengono dei movimenti che generano intrecci, metafore, allegorie. Ciò che si cercherà di offrire sarà un nuovo paradigma che preveda una nozione dinamica di fabula e intreccio, nell’accezione fenomenologica, in cui la fabula si riveli e si generi a partire dall’intreccio e viceversa. Aspetto su cui, pertanto, ci si intende soffermare è la concezione del testo come campo relazionale in cui figure come metafore e allegorie, interagendovi, si relazionano-con, colludendovi. E, in questo denso spazio relazionale, si tratterà la figura della metafora come meccanismo operativo da cui si genera l’intreccio cercando di comprendere se quest’ultimo può, allo stesso tempo, essere inteso quale metafora che si gemina a partire da un testo, metafora geminata: un intreccio-metafora inteso quale movimento fenomenologico traghettatore di senso. Infine, si svilupperà, a partire da queste premesse, un discorso sull’allegoria vista come scatto processuale della parola atta a cogliere, con le scie che essa gemina, la processualità invisibile del segno.

A partire da queste premesse, possiamo quindi pertanto riflettere su come il meccanismo di fabula e intreccio sia abbastanza duttile e come possa articolarsi in modo vario e polisemico nel suo campo fenomenologico. Focalizziamoci sulla poesia e, immaginandola come un tessuto narrativo in versi, chiediamoci cosa sia e come operi l’intreccio, come questo interagisca con le sue parti, con le sue articolazioni interne ed esterne. Per fare ciò prendiamo come riferimento un testo di Valerio Magrelli tratto da Ora serrata retinae (1980):

Bisogna riflettere sulle idee
Bisogna riflettere sulle idee
come fossero formaggi
e farle bollire e farle
fermentare.
Quando il coperchio
di vimini è tolto
l’occhio della crema
luccicherà bianco.
Molto siero è versato attorno,
aghi di pino si intrecciano
per filtrare e il latte
scorre tuonando in fondo ai secchi.
E’ un lavoro serale questo,
devono abbaiare i cani
e l’aria farsi fredda
e calda la ricotta e chiara.

Il testo di Magrelli costituisce la narrazione in versi di un processo: la ri-flessione sulle idee associata alla lavorazione dei formaggi: abbiamo due fabule (quella delle idee e quella dei formaggi) che si con-fondono, che si fondano-con, tra loro in un’unica fabula, storia. La fabula idea-formaggio gemina pertanto nel e dal testo attraverso l’intreccio che il poeta costruisce: il processo è abbastanza curioso perché la sua trama o storia non si dà a priori rispetto a un intreccio, ma si rivela nel momento stesso della narrazione come epifania dell’intreccio. La forma-idea-formaggio è come se si formasse nel testo in-formandolo in un continuo processo metamorfico della materia, la ὕλη di qualche misterioso demiurgo.

La fermentazione delle idee costituisce il μετά, l’attraverso, i passaggi di stato che fenomenologicamente attraversano appunto queste idee-formaggi. L’ibridismo di fondo che le caratterizza è esso stesso oggetto, forma sinestetica, sintesi di più qualia (qualità), motivo per cui ciò che si desidera ottenere non è un’idea che è anche per certi versi il formaggio e viceversa, ma un’idea-formaggio, un unico blocco percettivo, un’immagine sinestetica da cui scaturisce il senso e che genera senso. Il tutto procede come per accumulazione, come se le singole parole del testo fossero metafore in senso letterale, ovvero capaci dell’atto del μεταφέρειν, del portare attraverso, di operare una trasmigrazione dei significati.

Per Aristotele la metafora è un «trasferimento a una cosa di un nome proprio di un’altra o dal genere alla specie o dalla specie al genere o dalla specie alla specie o per analogia»[2]. Questo considerare la metafora come movimento-trasferimento di significati è stato ripreso e rielaborato da Ricoeur nel suo La metafora viva per cui

«l’essenziale dell’attribuzione metaforica consiste nella costruzione della rete di interazioni che fa di un certo contesto un contesto attuale ed unico. La metafora è allora un evento semantico che si produce nel punto d’intersezione tra diversi campi semantici. Tale costruzione è il mezzo attraverso il quale tutte le parole prese insieme ricevono senso. Allora, e solo allora, la torsione metaforica è ad un tempo un evento e un significato, un evento significante, un significato emergente creato dal linguaggio» [3].

La metafora è pertanto questo punto di intersezione tra i diversi campi semantici da cui procede: è l’idea-formaggio di Magrelli, è l’intersezione che risulta tra il significato-idea e il significato- formaggio, il cortocircuito della ragione che, in modo epifanico, ci getta dinanzi una nuova immagine, una nuova facies dell’oggetto. Questa trasposizione non investe, tuttavia, solo il livello del significato ma anche quello del significante: si rigenerano nuovi suoni, forme nello spazio della pagina e nel ritmo del verso che lo dilatano, lo restringono, trasportano nuova materia che sostituirà la precedente e che andrà a crearne di nuova. Quest’ultima non farà altro che situarsi rispetto alle altre materie-parole in una situazione [4] del testo geminando nuovi significati-immagini e altri significanti che si aggiungeranno, come per addizione, al testo.

Ciò che costituisce dunque l’ispirazione poetica, può essere considerato come una genesi continua di elementi a partire da altri elementi che riguardano non solo il significato ma anche la forma (il significante). La metafora non è pertanto semplice sostituzione come sostiene Aristotele, ma un processo semantico che investe tutto il significato della frase, senza dicotomie.

«Il portatore del significato metaforico – scrive in proposito Ricoeur – non è più la parola ma la frase come un tutto. Il processo di interazione non consiste meramente nella sostituzione di una parola al posto di una parola, o di un nome al posto di un nome – che, strettamente parlando – definisce soltanto la metonimia – ma in una interazione tra un soggetto logico e un predicato. Se la metafora consiste in una certa devianza […] tale devianza concerne la stessa struttura predicativa. La metafora, dunque, deve essere descritta come una predicazione deviante piuttosto che come una denominazione deviante» [5].

La metafora non assume quindi semplicemente valore di referente che sostituisce, ma entra in relazione, fenomenologicamente potremmo dire, con l’intera frase in cui si situa, vi si relaziona-con, fa esperienza-con [6] la frase, quale fosse corpo vivo in relazione ad altri corpi vivi. Se, pertanto, ad un livello più microstrutturale la metafora agisce, come ci suggerisce Ricoeur, su un piano semantico coinvolgendo tutto il senso della frase, a un livello macrostrutturale potremmo dire che essa influenza ed agisce sulla semantica di tutto il testo poetico, modifica la semantica dell’intero testo perché, ad uno slittamento di significato, corrisponde per transitività tutto lo slittamento dei vari altri significati successivi che da esso seguono: innestato un mutamento si procede a partire da questo per produrre altri mutamenti-movimenti di significato. Ciò che ne risulta modificata è anche la forma stessa del testo poetico: la ricerca di fonemi che vadano, in un certo qual modo, a saldare questo nuovo scarto che si è creato, questa nuova frattura del pensiero nelle cui crepe si nasconde l’ἔννοια (il contenuto, il significato) che traduce il σημεῖον (segno)  delle parole stesse, il loro significante.

Kandinsky, Composizione

Kandinsky, Composizione VIII

Proprio come avviene in un dipinto di Kandinsky, un segno si lega ad altri segni permettendo così il μεταφέρειν, la trasmigrazione di significati da una parte all’altra del testo. Nella tela del pittore, infatti, non ci sono figure ma forme che acquistano significato soltanto in relazione ad altre forme in una continua e lenta genesi di linee. Il loro avvicinarsi, ma anche la loro dislocazione costituiscono lo spazio-della-relazione che si articola su un metalivello strutturale, altro, trascendentale rispetto alle relazioni-linee visibili sulla tela. Diciamo relazioni-linee, dal momento che esse possiedono una natura equivoca: sono linee ma anche elementi relazionali che consentono l’innestarsi di processi di formazione, di genesi di nuove figure che rappresentano il μετά da cui scaturiscono le forme e lo spazio intorno ad esse: lo spazio delle forme e le forme dello spazio.

Potremmo quindi dire che la linea, in Kandinsky, è metafora in senso etimologico del μεταφέρειν e che quindi agisce come operatore estetico che consente una percettualizzazione, ovvero «un agire sul percetto di una compaginazione sensibile» [7]. La linea è pertanto quel meccanismo dinamico (operativo) che rende percepibile ciò che nella tela percepiamo: la forma e lo spazio. Riguardo a quest’ultimo potremmo dire che esso non si dà come sfondo a priori in cui si collocano delle linee che poi generano forme, ma che è piuttosto spazio che risulta dalle linee e dalle forme che popolano la tela: esse stesse, in quanto narrazioni di spazio, costituiscono la stessa configurazione spaziale. Parleremo allora di linea-metafora, linea che trasporta, che conduce in virtù del suo μετά.

Analogamente potremmo procedere per la poesia: in essa la parola-metafora agisce, similmente alla linea, come operatore estetico che trasporta significato e significante provocando una collisione di senso che investe tutta la frase e, a livello più macroscopico, tutto il testo. Consideriamo di nuovo la poesia di Magrelli sulla quale ci eravamo soffermati: a partire dall’immagine-idea-formaggio si generano per un meccanismo di autopoiesi altre immagini che sembrano richiamare un’aprica originaria opalescenza: “l’occhio della crema”, “il siero”, “il latte”, “la ricotta chiara”. Sono tutte forme che si rimandano vicendevolmente e che descrivono metaforicamente la formazione delle idee, il processo di cui ci restano oggetti-testimoni, chiari, opalescenti che si dispongono là nel testo come abbagli di idee, vettori funzionali alla loro decostruzione, al processo inverso del μεταφέρειν.

Kandinsky, Cerchi in un cerchio

Kandinsky, Cerchi in un cerchio

Possiamo pertanto osservare come ciò che abbiamo descritto prenda forma nella tela di Kandinsky, nella quale spinte vettoriali diverse sembrano attraversare lo spazio della tela intersecando le sue forme sferiche.

La parola, allo stesso modo, agendo come portatrice di senso e operando in quanto metafora una percettualizzazione, funge da operatore estetico, cioè funge da meccanismo che mette in moto una serie di percezioni rendendo percettibili i fenomeni che abitano il testo. Essa stessa, ovvero la parola-metafora, svanisce tuttavia nel momento stesso in cui si afferma per con-fondersi tra le righe del testo, con la sua materia, informandolo ma, allo stesso tempo, in-formandosi. Scrive a tal proposito Merleau-Ponty:

«ma proprio questa è la virtù del linguaggio: ci rimanda sempre a ciò che significa e, compiendo questa operazione, si dissimula ai nostri occhi; esso si afferma nello stesso momento in cui si cancella e così facendo consente di accedere al pensiero stesso dell’autore al di là delle parole, in modo che finiamo per credere di esserci intrattenuti con lui senza proferir verbo, da mente a mente. Le parole, una volta raffreddate, ricadono sulla pagina come semplici segni e, proprio perché ci hanno proiettato così lontano da loro, non riusciamo a credere che a partire da esse abbiamo elaborato tanti pensieri. Eppure sono loro che ci hanno parlato, durante la lettura, quando, sostenute dal movimento del nostro sguardo e del nostro desiderio, ma anche sostenendolo a loro volta e rilanciandolo senza errori, rifacevano con noi la coppia del cieco e del paralitico, quando erano grazie a noi e noi eravamo grazie a loro, parola e linguaggio, e insieme la voce e la sua eco» [8].

Nel dipinto di Dubuffet, Paesaggio Biondo, linee e forme si affermano dissolvendosi in un informale materico che scandisce il ritmo di tutta la narrazione pittorica. Le forme, con il loro μεταφέρειν intrappolano la materia e, allo stesso tempo, la cospargono per tutta la composizione; la situazione che ne deriva è quella di un flusso iletico in continuo movimento in cui le iniziali forme si sono ormai dissolte, hanno cessato di essere metafore dopo aver compiuto un processo di metamorfizzazione nel quale si sono loro stesse disperse.

Dubuffet, Paesaggio biondo

Dubuffet, Paesaggio biondo

Cosa analoga accade per il linguaggio: riflettendo, infatti, sul suo potere evocativo, sul suo essere segno che si afferma e che, allo stesso tempo, si nega, potremmo dire che le parole, i segni grafici della frase e anche la struttura stessa della frase, lasciano il posto al significato che quella frase allora assumerà per noi: il significato trascende, va oltre il segno o, nel nostro caso, la struttura stessa della frase. Per tale motivo avviene una metacognizione nel momento in cui il lettore opera, durante l’atto del leggere, un approccio estetico al testo: si trascende cos’è il testo, la sua struttura, quella delle sue frasi. Il “cosa” si fa “come” ed è in questo scarto, passaggio infinitesimale e impercettibile di soglia che prende corpo il luogo dove avviene l’astrazione.

Ancora oltre, potremmo dire che, nel momento in cui il significato trascende il significante, nel momento in cui il senso va oltre il segno, non abbiamo soltanto una metacognizione legata alla percezione data da quegli stessi segni, bensì su una data percezione estetica si possono innestare altre percezioni estetiche, in base a quello che Heidegger definiva la capacità della parola di aprire, di disvelare  l’ἀλήθεια (alètheia) del mondo che, etimologicamente e litoticamente, significa “non nascondimento”, “verità”: la verità diviene quindi un “non nascondimento”, “una non velatezza”. Ed è forse da questo potere evocativo della parola, questa capacità di divenire operatore estetico che apre ad altre percezioni, ad altre parole, che nasce la ποίησις (poíesis), il fare con arte, la poesia.

La letteratura è quindi questo cosa (le parole, la struttura della frase) che si fa come, è uno spazio che si dispiega a partire da uno spazio pre-liminare, uno spazio in cui il come è la soglia d’accesso: è infatti dall’esperienza sensibile che nasce, cresce, si nutre, si dispiega la poesia, dalla nostra relazione con le cose del mondo che sono, a loro volta, in rapporto con il mondo. Fare letteratura, poesia, è un po’ questo togliere il velo di Maya alle cose ed esplorarne i rapporti, la loro relazione in rapporto a quelli che sono la lingua, le parole, la struttura; il tutto lo si fa però in una dimensione traslata, che va oltre il normale impiego che noi facciamo della parola stessa di cui spesso cogliamo una scia, un’anticipazione, una sillaba [9].

Finora abbiamo dunque riflettuto sul potere metaforico della parola, sul suo potere di operatore estetico che, con il suo significato e il suo significante, agisce sul testo metamorfizzandolo con il suo atto di μεταφέρειν. Ci interrogheremo ora se questo processo dinamico del significare attraverso non si già insito nella stessa struttura del testo poetico, nei suoi versi, nella loro disposizione, nel loro intreccio. Come suggerisce Blumemberg, nel suo Paradigmi per una nuova metaforologia, la metafora agisce come processo cognitivo, strumento attraverso il quale il pensiero si articola e si fonda allo stesso tempo. Questo avviene perché il linguaggio poetico produce in modo continuo metafore vive (si pensi a Ricoeur), getta ponti sul sensibile che ci circonda, produce immagini che si affastellano in intrecci possibili del mondo della vita nel suo essere fenomeno tra i fenomeni. Potremmo quindi pensare la metafora come fenomeno che irrompe tra altri fenomeni, che vi immette dentro la sua carica e che fa partecipare, della sua natura, il mondo della vita di husserliana memoria: pertanto il μεταφέρειν può essere considerato un modo di rivolgersi all’esperienza, di dire il fenomeno. Ciò che ne risulta è una produzione di sapere fenomenologico di quello che Merleau-Ponty chiama spettacolo del visibile, spettacolo che attende di essere dispiegato attraverso e nella metafora. La metafora è pertanto un sapere fenomenologico nella misura in cui essa sia un sapere-come [10], un meccanismo operativo che apra all’estetico.

Se la metafora, quindi, nel suo essere μεταφέρειν è una traghettatrice di sensi, è essa stessa un impulso da intendersi alla maniera di Dewey come spinta (si pensi al latino in-pello) che genera possibili intrecci. Ora, a questo punto, ci si potrebbe chiedere se la metafora sia la spinta dalla quale si genera l’intreccio o se piuttosto sia l’intreccio stesso del testo poetico, la sua articolazione interna che genera la metafora, ovvero: se è la disposizione interna delle parole disposte in versi che è già portatrice di senso, che opera nel suo μεταφέρειν, nel suo significare attraverso delle strutture all’interno delle quali disponiamo le parole. Leggiamo a tal proposito due poesie di Milo De Angelis:

Milano era asfalto, asfalto liquefatto. Nel deserto
di un giardino avvenne la carezza, la penombra
addolcita che invase le foglie, ora senza giudizio,
spazio assoluto di una lacrima. Un istante
in equilibrio tra due nomi avanzò verso di noi,
si fece luminoso, si posò respirando sul petto,
sulla grande presenza sconosciuta. Morire fu quello
sbriciolarsi delle linee, noi lì e il gesto ovunque,
noi dispersi nelle supreme tensioni dell’estate,
noi tra le ossa e l’essenza della terra.
 
Tutto era già in cammino. Da allora a qui. Tutto
il tempo, luminoso, sfiorava le labbra. Tutti
i respiri si riunivano nella collana. Le ombre
di Lambrate chiusero la porta. Tutta la stanza,
assorta, diventò il primo battito. Il nero
dei tuoi capelli contro il giallo dell’ultimo raggio.
Da allora a qui. Era il primo giorno dell’estate.
Il silenzio ci riempiva la fronte. Tutto era
già in cammino, da allora, tutto era qui, unico
e perduto, nostro e remoto, ardente. Tutto chiedeva
di essere atteso, di tornare nel suo vero nome.

Le poesie, tratte da Il tema dell’Addio (2005), fanno parte della sezione Vedremo Domenica e sono disposte, insieme ad altre, come una forma di narrazione in versi dai caratteri allucinati e precari: non è possibile in De Angelis soffermarsi sugli oggetti e vederli a tutto tondo, definirli, dare loro nome, chiamarli. Essi si configurano piuttosto come presenze quasi-cosali, enti dai contorni sfumati, indefiniti, non discreti che aprono ad atmosfere, a sentimenti effusi nello spazio [11], in un indefinito spazio: poco sappiamo dei luoghi del Tema dell’Addio. Essi paiono sorreggersi sul nulla e nel nulla, al tempo stesso, svanire: escono di scena così come vi sono entrati, con una precarietà che è colore liquefatto come nel caso della prima poesia riportata sopra, dove Milano si disfa nella materia del suo asfalto caldo, che chiede di essere sciolto o, per meglio dire, disciolto. Allora accade che in questa liquefazione che desertifica lo spazio, si insidia un varco da intendersi qui come πόρος, come passaggio esperienziale, vincolo del possibile: è qui che prende forma la penombra, l’atmosfera quasi-cosale, l’oscurità attenuata che consente una visibilità sfumata, una possibilità dell’esserci qui e ora in un metaspazio che si innesta su quello del deserto urbano. In questo spazio situazionato, in cui mancano posizioni, punti di riferimento avviene una carezza che è essa stessa spazio, che genera spazio ma lo contiene allo stesso tempo: essa si pone come gesto sottile, che si inter-mette in uno spazio originario e, nel suo essere συντομία (concisione, rapidità), lo rigenera. La carezza ri-posa (nel senso che sta nello spazio) e lo ri-porta nel senso che lo ri-configura: è pertanto spazio riportato e allo stesso tempo assoluto, sciolto e dislocato da ogni altro spazio, luogo del μεταφέρειν che, allo stesso tempo, opera riporti: fa sì che il lettore si situazioni con il suo corpo-proprio [12] nel dove della poesia e allo stesso tempo trasporta, conduce il senso dell’intera frase-verso e, facendo ciò, se-duce il lettore.

I bellissimi versi finali della poesia si concentrano sull’atto del morire visto come una dissolvenza, un disgregarsi della materia, un amalgama in cui non è più possibile distinguere linee e persone (il poeta e la donna) innestati in queste fratture di spazi, nel loro sbriciolarsi materico, quasi fossimo in un dipinto di Pollock.

Pollock, Numero uno.

Pollock, Numero uno

In quella che è un’afasia dello spazio, fatta solo di gesti e cose, in cui il poeta e la donna paiono non parlarsi, abbiamo tutta la dissolvenza di relazioni spaziali, di cose che si disfano in un processo continuo.

Il secondo testo riportato, che è disposto successivamente rispetto al primo, si apre con un certo movimento, una certa δύναμις che apre lo spazio e lo immette nell’interno di una stanza. Un indefinito tutto avanza, è in cammino, è cammino: si colloca in un dentro, che è scansione, ritmo su cui si articola lo spazio della stanza (Tutta la stanza, assorta, diventò il primo battito). Accade allora che nella stanza si contrappongono colori (Il nero dei tuoi capelli contro il giallo dell’ultimo raggio), tinte tonali che scandiscono silenzi, non detti (Il silenzio ci riempiva la fronte), afasie che aprono a nuovi cammini, che sono in attesa di essere chiamati, di avere un nome. L’immagine del silenzio che riempie la fronte, pertanto, non è che quel segreto meccanismo del μεταφέρειν, l’origine che innesta nuove relazioni di senso, del significare di un cammino che riprende, mai concluso ma che ora si connota di nuovi significati.

Dopo aver letto i testi separatamente, con le loro immagini-metafore interne, proviamo a leggerli in sequenza come parti di una stessa narrazione. Ci accorgiamo sin da subito che non abbiamo una trama, una fabula definita che coincide con un intreccio chiaro e anch’esso definito ma vediamo, al contrario, di come tutto appaia confuso. Se la prima poesia si chiude con una dissolvenza finale, con un morire che rappresenta uno sbriciolarsi delle linee, la seconda riprende il tema dell’addio sotto forma di cammino. Quella di De Angelis si configura come una narrazione fatta di intermittenze, epifanie, presenze che entrano in scena e poi svaniscono, atmosfere dunque, in tutta la loro precaria provvisorietà. Qual è allora il senso di questa volontaria dispersione e dislocazione situazionale che il poeta opera nei confronti del lettore? L’atto del μεταφέρειν è soltanto un atto semantico operato dalla parola o coinvolge anche la stessa struttura del testo, il suo intreccio?

L’intreccio de Il tema dell’Addio è costruito secondo una dispersione di flussi all’interno dei quali prende forma la narrazione. Questa dispersione e disposizione di movimenti di atmosfere per spazi per lo più indefiniti, queste atmosfere-in-movimento costituiscono l’intreccio della narrazione poetica e partecipano anch’esse dell’atto del μεταφέρειν, dell’essere traghettatrici di senso. Ora è l’intreccio ad essere operatore estetico, a farsi metafora e a generare, innestare ulteriori metafore; proprio come la metafora esso è dinamico e trasporta, crea rimandi, tesse relazioni e da metafora, come osserva Ricoeur, modifica il senso dell’intera frase. È l’intreccio stesso che significa, che contiene la pregnanza di ciò che costituisce l’essenza poetica di Vedremo Domenica: esso lavora in sinergia con le metafore-semantiche date dalle parole presenti nei testi in modo sintetico e mai analitico. I due livelli che chiameremo intreccio-metafora e parola-metafora operano su piani diversi ma in maniera sintetica: il loro è uno slittamento di senso che si produce a partire dall’atto del significare per mezzo del μετά, di questa dislocazione rispetto a un precedente ordine-situazione.

Se l’intreccio è già un μεταφέρειν, cos’è se non il movimento del cospargere di tracce semantiche e di suono il testo e, allo stesso tempo, ciò che fa sì che queste tracce fluttuino, che galleggino in questo μετά, nell’attraverso in cui si danno e attraverso (μετά) cui sono? Questo intreccio-metafora trasporta senso sia agendo sull’ordine logico-sintattico della frase, sia sul piano metrico dell’elaborazione del verso e forse, più e meglio della parola-metafora mostra la genesi del suo significare. La parola-metafora, infatti, opera in modo immediato, istituendo relazioni di senso che, come scrive Aristotele, agiscono-significano per sostituzioni analogiche. Lo scarto di passaggio tra metafora e non metafora è impercettibile, coincide con la parola o, per meglio dire, con l’enunciato stesso della frase che contiene la parola. Nell’intreccio-metafora, invece, intuiamo meglio come si passi da una forma metrica al suo significare, perché esso è articolazione, processualità, movimento fenomenologico, movimento di fenomeni che si dispongono in un insieme percettivo. Inoltre è, ad esempio, la stessa metrica del testo che funge per noi da atmosfera ingressiva che, con la sua carica, ci sopraffa, si impone su di noi dominandoci. Quindi l’intreccio del testo, in particolare quello metrico, è spia del movimento dei fenomeni atmosferici interni al testo che collidono anche con il suo aspetto più propriamente semantico, ovvero con i significati che assumono le varie parole. Passando da un testo all’altro, proprio come in Vedremo Domenica, la struttura metrica delle poesie e la disposizione logico-sintattica dei fatti narrati indicano in parte questa genesi del μεταφέρειν senza percettualizzarla, ovvero senza renderla pienamente percepibile.

Questo avviene forse perché la processualità del μεταφέρειν sta tra le crepe del testo, tra quelle parti invisibili che lo compongono dove si dà lo stesso senso del testo. Scrive Stefano Colangelo: «La metafora è invitante, ma tutto sommato improduttiva: perché dà l’illusione di una coerenza spesso inesistente, dove tutto va d’accordo con tutto, e dove non ci sono interstizi, crepe, evidenze di vuoto»[13]. Sempre Colangelo scrive di queste crepe, di questo vuoto come di:

«una specie di suono profondo, un nucleo di attrito attraversa la testualità, ne forma e ne scandisce la grana sovrastante, e le molte filigrane che si muovono sotto di essa. Lo spessore di queste filigrane, il brusio che si avverte durante la lettura, si manifesta nei punti di contatto, ma anche nelle cerniere, nelle suture, nelle irregolarità. Il testo è una materia porosa, sedimentata. Ascoltarlo con questa attitudine riporta a un odore di passato: il critico è l’alchimista, scriveva Walter Benjamin; e l’alchimista è un archeologo della mente, aggiungeva Michel Butor. C’è qualcosa di retroattivo, di inattuale, come la ricerca di un’origine, di una totalità perduta, della quale in realtà proprio Benjamin aveva intuito la prefigurazione nell’idea di frattura, di salto nel vuoto che spezza qualsiasi forma di continuità. Ogni relazione con il testo, ogni atto interpretativo, nasce nella coscienza di questo vuoto: ne porta dentro l’impronta, come una fragilità di fondo, e finisce per trasmetterla all’esterno, come un’informazione collaterale, marginale, che tuttavia resta lì, fastidiosamente viva»[14].

La metafora dà l’illusione di una coerenza interna, di una coesione dove tutto sta, in un certo qual modo, in armonia. Il testo tuttavia si presenta come materia porosa, sedimentata, piena di fratture e anfratti inconoscibili: perché non soffermarci allora, più che sulla metafora sul processo del μεταφέρειν? Se proviamo a fare questo e, ritornando a De Angelis, a rileggere Vedremo Domenica come una narrazione in versi attraverso la quale l’intreccio-metafora si dispiega, avremo una sorta di metafora in movimento, andamento vettoriale che conduce a una sintesi percettiva. Ecco allora che, in questa continua scansione di immagini, qualcosa si farà processo di qualcos’altro, sua immagine geminata, andando a costituire una specie di intelaiatura processuale, di flusso. Tutto scorre come se fosse interrotto da continue afasie, incapacità del dire e allora si procede per immagini, per altre parole, allegoricamente: è qui lo scarto tra metafora e allegoria, in questo continuo dire altro in altro modo, con altre parole come ci suggerisce l’etimologia stessa del termine.

Aristotele scrive, infatti, dell’allegoria come di una metafora continuata. Forse l’allegoria, più della metafora, è adatta a cogliere questa processualità del segno e del significato della parola e, ancora di più, del movimento dello stesso intreccio. Se leggiamo, infatti, l’intreccio di Vedremo Domenica come una qualche metafora continuata che si innesta su se stessa geminando da se stessa, vedremo questa minacciosa allegoria della morte prendere corpo, progressivamente, nei versi di De Angelis: l’aspetto processuale dell’ἀλληγορεῖν si insidia ora negli anfratti del verso. Anche se non riusciamo a coglierne l’intero processo, ne intuiamo il fenomeno che percepiamo attraverso la nostra mente estesa in direzione del testo.

Se la metafora opera come resa del visibile, percettualizzando, aprendo esteticamente a un vedere-come che è un sapere-come, essa in quanto epifora del nome[15] procede per scie percettive. Dobbiamo pertanto cogliere, come suggerisce Colangelo, non la metafora in sé ma la scia che lascia il suo passaggio, l’azione del suo μεταφέρειν, il suo ruolo di epifora testuale. L’insieme delle scie lasciate dalla metafora costituisce l’ἀλληγορεῖν, il procedimento di costruzione associativa che proviamo a tessere una volta avute le maglie del testo e che si tesse progressivamente per immagini, per giustapposizioni di senso: diremo che allora l’intreccio è una metafora geminata o per meglio dire, che è dato dalle scie di queste metafore geminate, scie che non vediamo ma che fenomenologicamente percepiamo e che descriviamo allegoricamente.

Ritorniamo alla domanda che ci siamo posti prima di analizzare i testi di De Angelis: se la metafora sia la spinta dalla quale si genera l’intreccio o se sia l’intreccio stesso a generare la metafora. Ciò che ci poniamo, dunque, è un problema riguardo l’origine di un movimento: esso è interno e legato a un aspetto propriamente semantico se parte dalla parola-metafora che con un movimento centrifugo si espande dal suo nucleo di significato andando a collimare con le altre parole-elementi del verso, configurandone e ri-definendone il significato complessivo.

5Accade allora che spazi di senso diverso interagiscano tra loro, nel loro essere fenomeni, sintetizzando un nuovo spazio fenomenico percettivo che ne costituisce il prodotto astratto nel senso che ha tratto da i precedenti poi venuti a sintesi: è la parola quale operazione del λέγειν, del dire nel senso originario del raccogliere, è la parola che si fa metafora, trasporto e che raccoglie in sé, trascinandole, le altre parole del verso in direzione di un orizzonte di senso che è soglia a metà tra il significato della parola-metafora e il significato finale del verso.

Il movimento esterno, invece, allude alla configurazione del verso che può generare metafore, nel senso che nel suo movimento centripeto immette dentro il processo del μεταφέρειν facendo sì che esso si espanda, progressivamente, verso il nucleo interno del testo. Questo significa che la struttura, l’articolazione, intreccio-metafora che ne deriva si fa generatrice di senso, metafora.

Visti i movimenti dell’intreccio-metafora e della parola-metafora, possiamo supporre che essi lavorino sincronicamente per la costruzione di ciò che è ποίησις (creazione poetica) in modo vettorialmente opposto, tuttavia complementare: qualora l’uno eserciti una forte predominanza sull’altro per un eccesso di δύναμις, si generano percezioni stranianti, estranee rispetto alle abituali esperienze estetiche (percettive) del lettore. Il prevalere del movimento interno-centrifugo della parola-metafora o il prevalere del movimento esterno-centripeto dell’intreccio-metafora determinano il campo dello stile del verso, facendo sì che vi siano poesie il cui significare è da ricercare, per lo più, come essenza della parola, altre invece il cui significare è da ricercare nella loro struttura esterna. In ogni caso, nella creazione artistica di un testo poetico, i due campi appaiono abbastanza ibridi e confusi.

6Detto ciò, osserviamo di nuovo l’intreccio come il prodotto risultante dalle scie delle metafore geminate dal e nel testo e riflettiamo su questa costruzione progressivamente allegorica. Quella che abbiamo visto essere la metafora è, in un certo qual modo, statica (poco produttiva scrive Colangelo): trasporta del significato e là si ferma. L’allegoria, invece, è questo intessere dei significati metaforici e farli entrare in relazione tra di loro: nel momento in cui si crea la relazione, abbiamo la narrazione di più fenomeni allegorici che si generano dal testo e che a loro volta sono motori del testo e che, proprio come i fenomeni-metafore, si comportano da operatori estetici nella misura in cui creano la δύναμις del testo stesso. Attraverso, quindi, questa ricerca dell’allegoria per gli anfratti, per le crepe del testo, per le scie di campo lasciate dal movimento delle metafore che ora le λέγουσιν, ovvero le dicono, le raccolgono per mezzo di quello che è il meccanismo dell’ ἀλληγορεῖν, siamo trascinati in un meccanismo processuale di immagini nel quale siamo densamente immersi e che sconfina oltre il procedimento metaforico (si potrebbe parlare, per quanto riguarda l’allegoria, di un doppio μετά, di una metafora di secondo grado).

Questo senso di narrazione ininterrotta, fenomenologicamente estesa, ci seduce, affascina nel suo farsi senso di indeterminata narrazione-associazione per immagini che ora libere si fanno estese, geminano dal testo-intreccio e, a loro volta, geminano il testo-intreccio lasciando la scia di un’eco, di una crepa, di un passaggio che da qualche anfratto, segretamente, ci richiama.

Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
Note
[1] Il termine fabula, secondo la nozione classica data dai formalisti russi, indica l’insieme degli eventi che compongono la narrazione nel loro ordine logico-cronologico. L’intreccio fa invece riferimento al modo in cui il narratore sceglie di disporre la fabula (ad esempio infrangendo, invertendo, comprimendo, dilatando l’ordine degli avvenimenti).
[2] Aristotele, Poetica, 21, 1457b 5-10.
[3] P. Ricoeur, La metafora viva, Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione, Jaca Book, Milano 1981: 131.
[4] Fenomenologicamente, la situazione è sempre avvolta da un alone, da uno sfondo con cui si confà, si fa-con, ovvero con cui si con-fonde. La posizione, invece, allude alla collocazione fisica e geometrica occupata da un soggetto in un determinato spazio.
[5] P. Ricoeur, The Metaphorical Process as Cognition, Imagination, and Feeling, Critical Inquiry, Vol. 5, No. 1, Special Issue on Metaphor (Autumn, 1978): 145.
[6] A tal proposito si veda la differenza tra “esperienza-con” ed “esperienza-di” dal punto di vista fenomenologico, illustrata da G. Matteucci in Estetica e natura umana, La mente estesa tra percezione, emozione ed espressione, Carocci, Roma, 2019.
[7] G. Matteucci, Estetica e natura umana, La mente estesa tra percezione, emozione ed espressione, cit.: 80.
[8] M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, Mimesis edizioni, Milano, 2019, cit.: 50
 [9]  Si veda C. Arvizzigno, Per un’estetica della parola: un’apologia dell’analisi logica, “Dialoghi Mediterranei”, n. 48, marzo 2021.
[10] Possiamo considerare il sapere-come della metafora quale sapere operativo e dinamico che investe le qualità dell’αἴσθησις , della percezione qualitativa dei fenomeni.
[11] Si ci riferisce qui, in particolare, al concetto di atmosfera dal punto di vista neofenomenologico: le atmosfere sono i sentimenti effusi nello spazio circostante, con le quasi-cose da cui sono costituite ed espresse. Si legga a tale proposito Schmitz, Nuova Fenomenologia, trad. a cura di T. Griffero, Christian Marinotti Edizioni, Milano, 2011; T. Griffero, Atmosferologia, estetica degli spazi emozionali, Laterza, Roma-Bari, 2010; T. Griffero, Quasi-cose, la realtà dei sentimenti, Mondadori, Milano, 2013; T. Griffero, Il pensiero dei sensi, Atmosfere ed estetica patica, Guerini e associati, Milano, 2016; G. Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena, L’estetica come teoria generale della percezione, trad. a cura di T. Griffero, Christian Marinotti Edizioni, Milano, 2010.
[12]  Si veda Griffero, Atmosferologia, estetica degli spazi emozionali, cit.: 30-31: «Il corpo fisico (Körper) è stabile esteso, dotato di una superficie e divisibile in parti occupanti uno spazio locale relativo, quindi un legittimo oggetto delle scienze naturali (anatomia in primis), il corpo proprio (Leib) è viceversa privo di superfici e occupa un luogo ‘assoluto’ e non geometrico, è capace di autoauscultarsi senza mediazioni organiche e, siccome eccede il contorno cutaneo, solo occasionalmente coincide con il corpo fisico. Manifesto della sfera affettiva e, in modo totalmente diverso dal corpo fisico, secondo un ritmo polarizzato (contrazione o angustia/espansione o vastità) i cui estremi, entrambi incoscienti, sono il terrore paralizzante (incorporazione) e il rilassamento totale (decorporizzazione), esso si articola non in parti discrete, ma ‘in isole proprio corporee’».
 [13] S. Colangelo, Da dove viene il brusio di fondo del testo, Il manifesto, Alias Domenica, 27 Maggio 2018.
[14] Ibidem.
[15] Si guardi a tal proposito la definizione che Ricoeur dà della metafora come epifora nel suo La metafora viva, cit.

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Clarissa Arvizzigno, ha conseguito una laurea triennale in Lettere (curriculum classico) presso l’Università di Palermo, discutendo una tesi dal titolo Riflettere-riflettersi: la poetica dello sguardo in Palomar e in Ora serrata retinae. Studiando il ruolo della vista come strumento fenomenologico per la conoscenza del reale, si è occupata di Italo Calvino e Valerio Magrelli esaminandone analogie e differenze soprattutto in chiave estetica. Successivamente ha conseguito la specialistica in Italianistica presso l’Università di Bologna discutendo una tesi sull’opera di Caproni letta in chiave neofenomenologica. È impegnata in ricerche su temi di estetica e di letteratura comparata. Ha collaborato con alcuni portali antimafia on line:  www.liberainformazione.org , www.antimafia2000.comwww.corleonedialogos.it.

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