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Parole della Costituzione nelle dispute attuali. Memorie e meditazioni

di Franca Bellucciimg-20250417-wa0013 

“Celebrazione”: tra le parole dense, che non sai se annoverare tra le denotative o le connotative, pongo anche questa. Certo richiama memoria, e per i comitati appositi prescrive coreografie, rituali, dunque.

Ogni Stato ha le sue. Per noi (bado sempre al soggetto: questo vale come “collettivo”, denso e problematico, per “noi Italiani”) è imminente la celebrazione del “25 aprile”, Festa della Liberazione, data, nel 1945, dell’insurrezione generale proclamata dopo il profondo scontro avvenuto all’indomani dell’Armistizio di Cassibile, l’8 settembre 1943. Un anno e mezzo di guerra e di lacerazioni vissute sul terreno italiano: il dettaglio cruciale dell’adesione alla Seconda grande guerra, dal 10 giugno 1940, sul fronte opposto a quello degli Alleati.

Credo che per la stragrande maggioranza sia festa sentita nel profondo, come segno della democrazia conquistata con la Liberazione. “Conquista”, dunque. E questa parola: è denotativa o connotativa? Perché indica un varco, un passaggio duro ma riuscito. È dunque densa di corollari, quelli che dal contrasto approdarono a una forma di governo, la cui principale caratteristica sta nel fatto che ne è gestore il popolo – la parola traduce e ripropone nell’attualità la parola greca “demos” –. Pone il popolo nella condizione di protagonista: seguendo normative, scaturite da teorie articolate, che nel tempo continuano a confrontarsi con altre teorie; ma anche l’effettualità va verificata e misurata.

“Conquista” è parola che sa di approdo, di meta raggiunta: e la meta è certo la Costituzione, la carta fondamentale dal 1° gennaio 1948, che ora tengo nelle mani, nel testo di ultima modifica – procedura regolata e cauta – del gennaio 2016 [1] . “Conquista”: in generale, parola memore di tempo lungo, di percorso non tracciato, di difficoltà: su livelli diversi, nel caso, plurivalente, politico, civile, militare; anche, culturale, di meditazione filosofica e utopica, così da disegnare e prefigurare, in una dimensione temporale azzerata.

Fu su questo piano che si posero nel 1941 i tre antifascisti confinati a Ventotene, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, giungendo a indicare l’alternativa di Stati d’Europa, conviventi, non conflittuali, al pari della Confederazione Elvetica, o degli USA: sulle orme di Cattaneo, del resto. Oltre la condizione costrittiva vissuta, si ponevano in una situazione utopica. Era accaduto così nei pensatori risorgimentali: un distanziamento dai “fatti” per riproporre da altro sguardo le relazioni della società complessa. Il terreno per me letterata non è familiare: ma se ripeto parole essenziali, confermate dalla storia, atte a fondare la vita organizzata, collettiva, certo avverto conferma di come tocchino incroci sociali di grande rispetto.

Un percorso su cui desidero essere presente, e che riporta alla Costituzione, nel suo testo essenziale, selezionate parole: un sommario, in cui riconosco, nella socialità segmentata dalla storia, esperienze culturali: fuori da polemiche. Spiacevoli polemiche, pur di recente, hanno riguardato la “carta di Ventotene” del 1941, accese sulla menzione della “proprietà da correggere”: una proposta di volontà profetica, posta tra i prodromi di quella Unione Europea che, cresciuta intorno all’intesa economica nel 1951, si è infine formalizzata nel 1992.

Certo, “proprietà” è tra le parole nevralgiche. Di parole significative nella conduzione attuale, tesa e irresoluta, ma inerte, mi propongo di intercettare un numero limitato, come per farne una bussola aggregante nell’oggi. Certo, soprattutto valide per me, per una riflessione affidata all’esperienza.

img-20250417-wa0018Ma la Costituzione è stata volutamente formulata in modo essenziale, per la diffusione e la lettura anche individuale, alla portata di tutti. Una caratteristica che è peculiarità che stimola alla piena partecipazione. Per questo è un testo che circola, e su cui ci si può intrattenere a ogni livello di condizione. Ho conosciuto un sacerdote cattolico, don Renzo Fanfani (1935 – 2017), che, da parroco, istruiva i giovani al sacramento della Cresima basandosi sulla Costituzione, con libriccini distribuiti a ciascuno e ciascuna. Ecco, la passione civile, in Fanfani, non era mai stata inferiore all’afflato religioso, due percorsi che l’avevano accompagnato in scelte essenziali: apparentemente distanti, ma collegate dal filo di una sollecitudine per l’umanità così piena, da collegarsi al divino. Prima del percorso nel seminario di Firenze, era stato all’Accademia militare di Modena. Ufficiale nel 1957, era stato assegnato al primo Reggimento Granatieri di Sardegna fino alla nomina di capitano, nell’estate 1962. Quella nomina avrebbe dovuto formalizzarsi qualche mese dopo, invece Fanfani si sentì di troncare quel percorso, di lì a poco indirizzandosi al sacerdozio, cui giunse nel 1966, a 31 anni. Fu poi “prete operaio”, in fonderia, in vetreria, poi artigiano del ferro – quanta familiarità con il fuoco, mi sono pur detta –, comunque riconosciuto decano dei preti operai.

“Esercito” “Guerra”, “lavoro”, “religione”, anzi, “religioni” sono parole portanti nella vita di don Renzo Fanfani. Convinto della Costituzione, tanto da essere stimato da specifici studiosi, alla periferia urbana della sua parrocchia giunsero personaggi istituzionali: addirittura, Oscar Luigi Scalfaro. Si erano intanto intensificate le sue conoscenze sui percorsi avvenuti intorno alla Costituzione, accanto a una sua cara amica, Carla Goio Franceschini, i cui parenti erano stati membri dell’Assemblea Costituente.

Parole da guardare nella luce della Costituzione: queste, mi accorgo, vado evidenziando, tali, infine, che siano valide non solo per me. Mi dispongo, cioè, a un esercizio: costituita la rosa delle parole, di riserbare parte della riflessione alla loro verifica rispetto alla Costituzione. La ricerca vale nella sospesa atmosfera civile attuale. Una forma appartata di partecipazione, nello scenario che si rivela, o si esibisce, confuso. Potrebbe dirsi pre-storico, in quanto in attesa di forme istituzionali. Comunque, tale che l’Unione europea viene ancor più additata come dimensione valida, di prospettiva: ponendo più opaca, ma confermando, la relazione oltre Atlantico, verso il suo Occidente, e più palese e attiva la vigilanza sull’Oriente. L’argomento varrà un paragrafo di riflessione. Ma i punti cardinali, come si sa, ruotano, e i ruoli diplomatici sono, invece, ponti esperti.

Intanto, quanto a “proprietà”, la parola su cui si è innestata la recente polemica sulla carta di Ventotene: all’altezza dell’atto emesso nel 1941 è questo che mi evoca, ritagliando la realtà italiana, pur informata dei movimenti del mondo. La vita politica aveva bloccato il confronto, con la stessa riduzione accaduta partecipando alla Prima grande guerra. Bloccato, dunque, rispetto alla coscienza, acquisita sul fronte di quella guerra, tra i combattenti, in gran parte lavoratori della terra, non ignari – anche in rapporto all’ampiezza delle emigrazioni – delle colture nel mondo e dei loro mercati. Considererei quale fosse la percezione del lavoro sulla terra, vigente la rendita agraria: un diffuso riscontro di ingiustizia e impedimento, inasprito ancora, nel settembre 1919, epoca Governo Nitti, con il Decreto del ministro Achille Visocchi (2 settembre 1919, n. 1633). Aggiungo il peso di quella che, in uno studio sui documenti dell’epoca, ho definito la «ipoteca proprietaria sulla vita dei lavoratori agricoli». L’assistenza agli orfani di guerra, infatti, sottratta al Comitato provinciale apposito, era in capo al Comizio agrario provinciale – nel caso, quello di Firenze, diretto allora dal conte Massimo Hertz di Frassineto –, così da vincolare i giovani ai «piccoli mestieri rurali (vimini, zoccoleria, piccola falegnameria ecc.)» [2]. “Proprietà in quanto dignità”, dunque: questa sarà la verifica da fare, nella seconda parte della riflessione.

La ricorrenza del 25 aprile per me è occasione di riprove tra l’ideale e la pratica, anche di considerazioni che tendono ai fondamentali politici; in particolare, occasione di inanellare memorie, nello svolgersi di una vita, che trova nel collettivo lo sfondo per verificare il personale specifico. Quest’anno, ancora più la celebrazione principale mi susciterà un’onda di memorie: sarà a Genova, ricordando gli eventi che spezzarono il protrarsi della guerra, avvicinandone il termine: lì infatti avvenne la prima resa dell’esercito tedesco all’esercito partigiano. Il testo della resa, a Genova il giorno 25 aprile 1945 alle ore 19,30 di «tutte le Forze Armate Germaniche di terra e di mare», ha come primo firmatario Remo Scappini, Presidente del Comitato di Liberazione Nazionale per la Liguria: seguiva, nel documento che sanciva l’evento, “Meinhold”, ovvero Günther Meinhold, Maggior generale tedesco.

61mtehmftyl-_ac_uf10001000_ql80_Remo Scappini: di Empoli, dunque per me concittadino. Era un operaio del vetro. Era stato arrestato nel 1933 e condannato a 23 anni di carcere dal Tribunale Speciale – dai quindici anni aveva scelto le idee comuniste –, ma ne scontò poi nove, amnistiato nel 1942. Dal novembre 1943 ebbe il compito di combattere a Genova, per presidiarla. Personalmente, seppi di lui nella mia adolescenza, da un buon libro di documenti: Un popolo in lotta, a cura di “R. Battaglia, R. Ramat” – i prenomi essendo ridotti all’iniziale –, della Nuova Italia Editrice, di Firenze, 1961, che, alle pagine 378 – 381, previa introduzione, documentava delle decisive giornate di Genova con il racconto dell’ufficiale degli Alleati Basil Davidson, riportante il patto di resa. Così seppi: e fui molto colpita.

Ritrovo ora quel libro, pur sfasciato: una raccolta di cronache in quattrocento pagine, riuscita nell’intento di evidenziare la partecipazione popolare agli eventi dell’Italia unita, a partire dalla morte di Cavour per giungere alla presentazione della Costituzione: con le parole di Piero Calamandrei, il 26 gennaio 1955, davanti a studenti milanesi. Un libro acuto, pragmatico: il titolo, Un popolo in lotta; copertina e illustrazioni, di A. Steiner.

L’atmosfera attuale risulta sospesa, ma l’Unione europea si conferma come dimensione urgentemente valida, di prospettiva: si pone però la necessità di rimodulare la relazione oltre Atlantico, dunque a Occidente, di vigilare inoltre sull’Oriente. L’argomento mi fa riflettere. Ma i punti cardinali ruotano, e i ruoli diplomatici sono, invece, distillati storici.

Per mia parte, dunque, mi sento parte della celebrazione. Mi dico: “Partecipazione”: questa parola importante, c’è forse nella Costituzione? O comunque un equivalente? Il titolo dell’antico libro ne dà una interpretazione, particolare e positiva, scegliendo nel titolo il termine collettivo, in quanto pone i compilatori come interpreti di quella collettività definita “popolo”, e in tale grande ambito suggerisce che si riconoscano i lettori. Nella contemporaneità le forme di partecipazione sono diverse: ma la questione è troppo grave e sfuggente, confesso, alla mia percezione. Il voto popolare? Anche se è segno accreditato per distinguere le “democrazie”, accade che percentuali alte di “aventi diritto” non vi si riconoscono. Un accurato servizio, ricercato da chi segue gli orientamenti politici, viene presentato dai sondaggisti. Intanto, grande influenza esercitano le registrazioni dei dati individuali risultanti per i “social” – perlustrati da esterni in modi su cui mi interrogo –: uso, reazioni, immagini, situazioni “virali”.

img-20250418-wa0010I servizi giornalistici, pur fornendo mediazioni essenziali alla partecipazione, passano attraverso crisi, tra i parametri della comunicazione attendibile e la solidità economica che li rende possibili, o ne opacizza l’attendibilità. L’atmosfera civile risulta sospesa tra interpretazioni e scetticismi. Accadono guerre nello spazio prossimo, ridotte a immagini catastrofiche di cui raramente è chiara la fonte; e c’è ricorso ampio al giornalismo interpretativo, ma senza riferimenti diplomatici attendibili. Le forme di partecipazione, nello scenario confuso, pre-storico, sembrano indicate dai soggetti politici con l’ansia di riceverne avallo. In una tale contingenza l’Unione europea sembra ancora avere un futuro, purché, mentre conferma la sua storia, nell’attualità del XXI secolo inoltrato, si dia una fisionomia ancor più precisa, in una prospettiva che la stabilizzi come sintesi tra “Occidente” e “Oriente”. I due punti cardinali, riferiti al moto apparente del sole, evidentemente sono esperienza di ogni luogo della terra. È dunque a un deposito storico, che ci si riferisce, trattando di politiche: non però di riconoscimento così stabile, da essere riferimento certo. Prevale uno sguardo che parte dall’antichità, dal circuito dell’ente “impero”, costantiniano, innanzi tutto, per seguirne espansioni ideali tra i mari europei, fino a interloquire, sempre più dal XIX secolo, oltre l’Atlantico.

Nel XX, la convergenza con gli USA, già ricercata, è diventata riconoscimento di iniziativa, determinante. Ma, tenendo presente la contesa di risorse necessarie ai progetti attuali e all’importanza delle informazioni, si ridetermina anche l’importanza del Mediterraneo, e qui di capisaldi: di lembi strategici, su isole e coste, veri avamposti di efficienza militare e tecnologica. La compagine, dunque, risulta dalla fusione dei termini antichi: da reinterpretare, così da conservare il senso della lunga durata, fino al termine recente “Occiriente”, lanciato da parte della storica Renata Pepicelli. Un nome-fusione, che suona provocazione. Avrà prospettiva? Europa, nel mito originario, è figura in movimento, da oriente, precisamente dal Libano, verso un occidente prossimo, cioè Creta: un mito che indica già in antico orgoglio di civiltà che si scavalcano.

Due mondi che, posti a fronte, sono scritti con la maiuscola: dilatati e antichi, oltre la norma, cui si attiene l’Enciclopedia Treccani. Vale comunque ricordarla: l’iniziale è minuscola per i punti cardinali, in particolare per “occidente” (https://www.treccani.it/vocabolario/occidente/).  La maiuscola vale per due casi: il primo, per la sezione dell’Impero romano, nel periodo 395 (Teodosio) – 476 (deposizione di Romolo Augustolo), escludendo, dunque altri fatti culturali, come lo “scisma d’occidente”, che va con minuscola. Il secondo caso, vale per indicare l’insieme dei popoli che si sente in contrapposizione con altra compagine: caso, questo, in cui non si fa riferimento a un preciso confine, così che l’estensione indicata varia.

“Occiriente”, però, è la proposta di Renata Pepicelli in un recente pamphlet ricco di spunti e di letture meditate [3]: un neologismo che sa di riconoscimento e di antagonismo, poiché «Oriente e Occidente si rincorrono, si compenetrano» (Pepicelli: 11). Leggendo il libro, si riscontra un’ampia ricognizione storica, che disegna le aree e i modi della diffusione islamica intorno e in parte internamente al territorio definibile europeo: fasi di collaborazione fruttuosa, non meno lunghe, né meno incisive, di quelle di scontro, basate su percezione di incompatibilità e pratiche organizzate per l’urto e l’annientamento.

Due mondi, nel complesso, che in molte opportunità interagiscono e si fecondano, ma con una suscettibilità di fondo, movendosi entro una convinzione di primato. Lo ha evidenziato nel 1978 Edward Said, nel suo libro Orientalismo: in effetti, dice Pepicelli, l’Occidente ha affermato una presunta superiorità operando (ivi: 26) «l’alterizzazione e la disumanizzazione delle popolazioni che abitano le cosiddette terre orientali». Sono evidenziati temi di attrito, non di rado lunghi e tortuosi, nel senso che si prestano a interventi insistenti, invasivi su soggetti, che pure sono proposti in modo contraddittorio. Spicca tra questi il richiamo, comunque negativo, sulla conduzione disposta per le donne, che a lungo sono state presentate come protagoniste emblematiche della lussuria orientale, laddove ora si presentano come vittime, nello sfondo di un’austerità imposta dall’esterno, della possessività virile. La costante è che viene sottratta loro la voce, ignorandone la storia, le acquisizioni progressive.

L’autrice le puntualizza, seguendo la storica Fatema Mernissi: nella Repubblica turca del 1926 è varato il codice civile che indica i diritti delle donne, cui presto è riconosciuto il diritto di voto, l’amministrativo nel 1930, quello parlamentare nel 1934, per cui nel 1935 diciassette donne sono elette in parlamento (ivi: 63). Sottratta la voce delle donne, e in particolare delle donne intellettuali, si facilita il gioco di fantasie accese, che si permettono addirittura di ribaltare le definizioni. Accade intorno al concetto di “harem”, propriamente “casa”: «la parte della casa proibita agli estranei perché destinata alla famiglia nel suo insieme, e in particolare alle donne e ai bambini» (ivi: 57). L’ambiente è stato descritto, invece, secondo mode, e mode contrapposte: la donna che l’abita – la sintesi è dell’antropologa Ivana Trevisani (ivi: 72) – è stata vista come l’“odalisca” nel passato, “donna ombra”, sottratta dal velo alla società, nel presente.

img-20250417-wa0015Alla metà del libro, dopo la pag. 80, ecco la parte di grande novità: di seguito a un essenziale aggiornamento storico, così da tenere in vista i fatti che ora determinano, ecco le nuove composizioni sociali, di amalgama tra i due mondi, che costituiscono l’attualità del vivere, nello spazio prossimo. È vero che i fatti storici ampliano la visione oppositiva, tra Occidente e Islam, giunta ora, sembra, al «punto di svolta e di non ritorno», con l’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001. Dopo che, a ben vedere, già dai primi anni Novanta «l’Islam viene indicato … come una delle principali minacce per l’Occidente, se non la principale». Il dato strategico impegna a fondo l’Europa: confini da difendere e pattugliare, a consolidare «l’idea della Fortezza Europea». Confermano la visione consueta «l’ascesa del sedicente Stato islamico» e gli scontri che hanno proclamato il califfato in Siria: situazione con cui si è posta fine al “Medio Oriente”, nato dalle spartizioni coloniali conseguenti agli accordi segreti di Sykes-Picot» del 1916. (ivi: 83). Eppure i dati censiti sul territorio sono più complessi: pur se coloro che sostengono lo Stato islamico e pure quanti lo avversano, si avvalgono degli stereotipi corrispondenti alla dicotomia Islam/Occidente, la situazione sul campo è disomogenea. Ecco che parte della popolazione resiste alle imposizioni, mentre d’altro canto giungono numerosi armati occidentali: «i cosiddetti foreign fighters europei, nordamericani, australiani, neozelandesi». Dati di non chiara decifrazione, né nella consistenza in opera né nella prospettiva.

L’autrice nei due ultimi capitoli dà credibilità al profilarsi di una nuova età, di commista tolleranza – “Occiriente”, appunto, il termine proposto come conclusione –. Descrive un nuovo crogiolo di rispetto sociale, come sbocco della crisi sofferta, da molti soggetti per i quali gli attraversamenti culturali, analizzati e descritti con consapevolezza, sono recepiti correttamente da un auditorio che si espande. Si presentano, cioè, giovani intellettuali capaci, in vario modo, di incidere e di fomentare nuova società. «Un mondo nuovo», come è il titolo di pag. 111: in esergo è posto un testo del 2024 di Ghali, il poeta-musicista che in particolare, con una sfumatura di provocazione, incarna questa realtà. Ma molti altri sono presentati, uomini e donne, operatori di alto livello. L’ultimo esergo riporta le parole di Leila Aboulele, nel 2006 – certo, tradotte dall’inglese, lingua scelta dalla letterata sudan-egiziana – in cui si associano Sudan, Egitto, Oman, in una rapida rilevazione del suo percorso: «Immagino che essere musulmana – conclude – sia la mia identità». Rilancia quindi, a mo’ di conclusione: «E tu?». Simile la postura di giovani intellettuali che, padroneggiando più culture, vanno affermandosi pubblicamente, criticando il linguaggio che esclude, ma anche proponendo un adeguato linguaggio espressivo.

Colpisce anche che, in questo libro intrinsecamente propositivo, nel titolo risuoni la doppia negazione, così da prendere le distanze tanto da Oriente come da Occidente: un espediente che sa di disposizione a rovesciare del tutto l’operato storico, a uscire da un’aria avvertita come irrespirabile. Ci si sente di fronte a puntate storiche da chiudere, come per arrovesciare la clessidra. Effetto, del resto, impossibile: come quando – penso al X libro dell’Odissea – sulla nave di Ulisse che potrebbe giungere alla patria, per il calcolo sciocco dei compagni si scatenano i venti fuori dall’otre. Li ha donati Eolo, il dio dei venti. Ai suoi occhi, l’episodio qualifica Ulisse come un miserabile: «Un mortal, che degli Eterni è in ira». L’ottimismo della volontà, dunque, che deve guidare all’innovazione, stenta a scrollarsi dalla cappa del passato negativo.

Nella situazione che prende campo nelle relazioni internazionali, di supremazia espressa anche attaccando relazioni positive già sostenute, con il ricorso a un linguaggio intimidatorio, è un’azione costruttiva, forse però insufficiente, constatare un qualche impegno culturale nell’attività di studio e di diffusione saggistica che marcia in direzione opposta. Certo, il tema largo eccede il raggio geografico proprio della Costituzione. Essa, comunque, si pone come tessera disposta per agganciarsi ad altre, in compagini di programmi compatibili con la stessa carta: si è già mostrata adeguata, infatti, al dialogo dell’Unione europea. Fisso, da verificare nella Costituzione, parole guida incontrate nel libro ora ricordato: quelle che incidono nelle relazioni tra gruppi e popoli diversi, come la percezione della razza, la ragione del classificare, la donna, il corpo, la casa, l’espressione, l’ascolto, le religioni, i diritti economici, la mobilità, la cultura, la scuola, l’uguaglianza, i media.

Vale davvero di rileggere, avendo in mente le parole via via fissate come nevralgiche, il testo della Costituzione italiana: il testo che uso, come detto, è quello aggiornato, del 2016. Domina che debba esserci equanimità per uomini e donne. Ma il testo riserba la sorpresa di non fare cenno al percorso, dai corpi elettorali ristretti, al suffragio universale comprensivo delle donne. Per il “suffragio femminile in Italia”, dunque, mi servo delle notizie di “wikipedia”. Momento cruciale fu la ripresa dell’attività politica dal gennaio 1945, con i contatti, sia sul voto passivo sia su quello attivo, tra politici dei principali partiti e con le associazioni femminili. La soluzione provenne dall’approvazione di Pio XII della presenza delle donne nei due settori: era un dovere per le donne essere attive, per entrare in azione, «per contenere le correnti che minacciano il focolare, per combattere le dottrine che ne scalzano le fondamenta». Prima si svolsero le elezioni amministrative il 10 marzo 1946, poi il voto per la Costituente, il 2 giugno 1946, avviò la procedura per redigere la Costituzione. Preparata a fine 1947, essa entrò in funzione il 1° gennaio 1948: rivedibile, e già ora rivista, con particolari procedure.

schermata-2018-05-22-alle-18-27-19Gli appunti polemici notati, come i rilievi qui fatti, spingono a fare rapida memoria del dettato costituzionale, proiettandovi le parole sensibili dell’attualità descritta. Impronta forte è data dai “Principi fondamentali”, i primi dodici articoli: la pari dignità sociale, secondo l’art. 3, è affermata, come l’eguaglianza, «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»: con l’intervento attivo della Repubblica, a «rimuovere gli ostacoli», che di fatto possono impedire. Delle confessioni religiose parla l’art. 8: esse sono libere, con propri statuti: ma la religione cattolica ha una relazione particolare con lo Stato, con i Patti Lateranensi. Si distingue dal cittadino “lo straniero” (art 10): egli ha diritto d’asilo se il suo Paese non esercita le libertà democratiche. La formula “tutti i cittadini” vale come rilievo delle scelte soggettive: negli articoli 3, 4 vale per le articolazioni della libertà e per il diritto al lavoro.

Termine estensivo è “tutti”: vale infatti “in generale”, oltre alla qualità del cittadino. È riscontrabile su determinate materie nella “Parte I, Diritti e doveri dei cittadini” (artt. 13 – 34): riprende la professione religiosa – già materia indicata nell’art. 8 come libertà, davanti alla legge, per tutte le confessioni – nell’art. 19, vale nell’art. 21 per la manifestazione del pensiero, nell’art. 24 per l’azione in giudizio, per la scuola, nell’art. 34. Affrontando la stampa, cultura e la ricerca (artt. 21, 33), la formula usata si impronta alla libertà e impegna la Repubblica alla promozione dello sviluppo. Della famiglia, l’articolato fa menzione nella forma della tradizione.

Per tutto l’ambito del lavoro, nei Rapporti etico-sociali, (artt. 29-34) e Rapporti economici (artt. 35-47) è la Repubblica che assicura intervento equanime, mentre i sindacati, cui si aderisce liberamente, hanno solo obbligo di registrazione. Alla proprietà è dedicato l’art 42: definita pubblica o privata, è la legge che la garantisce; in casi previsti, di interesse generale, e con indennizzo, può essere espropriata. Del buon uso del suolo – la formula è “conseguire il razionale sfruttamento del suolo e… stabilire equi rapporti sociali” – parla l’art. 44.

Quanto a guerra e armi: essa è menzionata nei “Principi fondamentali”, affermando che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà». Si citano dunque in tale momento gli “altri popoli”, gli “altri Stati”, il contributo per assicurare “la pace e la giustizia fra le Nazioni”, la partecipazione, su tale materia, alle opportune organizzazioni internazionali. Nella Parte I, Diritti e doveri dei cittadini”, si definisce “sacro dovere” (art. 52) la difesa della Patria; si specifica che le Forze armate devono informarsi allo spirito democratico.

Quasi al termine di tale Parte (art 53) si addebita a “tutti” di concorrere alle spese pubbliche, proporzionatamente. Ultimo articolo della Parte, afferma che è ai cittadini che sono affidate le funzioni pubbliche: con «il dovere di adempierle con disciplina ed onore». Qui la Parte II, con l’Ordinamento della Repubblica. Ma qui, rispetto ai concetti generali su cui sta andando il pensiero, su quanto essi siano “denotativi”, quindi di larga applicazione, direi perfino interculturali, o invece “connotativi”, cioè espressione di limitate esperienze, basta aver ricordato il dettato della Costituzione, nella Parte I.

La lettura in certa misura ha rinfrancato, offrendo una rete solida come riparo delle scosse che avvertiamo negli ordinamenti della vita abituale. Tuttavia il senso di stare brancolando nell’ignoto è una circostanza ora riconosciuta, che interroga sulla cecità, o presunzione, invalsa per troppo tempo.

Mi si delinea, di conseguenza, il ricordo di Primo Levi: il testimone che ha voluto consegnarci, desumendo scritti intensi da un’esperienza che egli avvertiva non esaurita, né inscrivibile nella cornice della letteratura. Impressioni che colgo da cittadina, senza specialismi. Da rispettosa ammiratrice, che ha avvertito, nell’uscita di scena del chimico, sopravvissuto al campo di Auschwitz, il sigillo sugli impedimenti all’attesa della convivenza tra “Arabi” e “Ebrei” – le virgolette valgono per l’indeterminatezza delle definizioni, tanto più dopo la lettura del pamphlet di Pepicelli.

È pur vero che si rinnova oggi la sua osservazione, formulata nel 1982, di fronte alla risposta sproporzionata dello Stato dell’Israele alle proteste dei palestinesi: anche prima dell’invasione del Libano e dell’assedio a Beirut, che avrebbe comportato il trasloco dell’Olp in Libia. «Rappresaglia sbilanciata che assume forme e dimensioni barbariche», aveva detto [4]. Disapprovava la condizione, nell’Israele, di imporre la lettera della Bibbia, anteponendo l’esperienza della dispersione ebraica, anche dopo il sistematico sterminio sperimentato: ma sapeva di essere additato, isolato. Non approvava la conduzione del nuovo Stato, astorica e violenta, ma sperimentava anche di essere sottoposto a isolamento. Una mente indagatrice quella di Primo Levi, feconda, sia nella memoria, sia nell’invenzione. La tremenda ipoteca di morte conosciuta non assume mai nei suoi scritti la dilatazione del pensiero fisso: può però trapelare, in guizzi, che le generazioni successive verificano di dover ripercorrere.

img-20250417-wa0014È pertinente alle circostanze complessive odierne che a Torino, con l’impegno di Domenico Scarpa si sia allestita la mostra, nuova e utile, dal titolo «Giro di posta», che presenta i carteggi dell’intellettuale con gli interlocutori di lingua tedesca, approfittando degli studi di Martina Mengoni, dell’Università di Ferrara. Una occasione importante, che stimola a riprendere le pagine di Levi, a interrogarne lo sguardo, le intuizioni, i suoi affondo nello studio degli umani. Sfoglio I sommersi e i salvati: edito nel 1986, è l’ultima opera, prima della morte, l’11 aprile 1987: per altro, quella che segnala la raccolta di lettere, scritta da lettori della versione tedesca di Se questo è un uomo, negli anni 1961-64, quando, nella crisi politica allora in corso, fu decisa a Berlino la costruzione del “Muro”.

So quello che non devo cercare nel libro: non allegorie, data la mobilità, l’insofferenza dell’ingegno. Ma premonizioni sì: perché l’universo che Levi si è trovato di fronte negli incontri ha la consistenza dell’umanità, una realtà, dunque, nelle espressioni limitate e condizionate cui gli è toccato di assistere. Prima di varare il suo filo ha bisogno di ricordare al lettore che in quel binomio, in cui istruisce la prossima narrazione, i lettori non devono simpatizzare per i salvati, quasi voci sagge, per essere scampati: su tutto aleggia il caso, che sa di beffa piuttosto che di lezione umana. Sui valori di Levi, sì, posso fare ricerca: che non sono, certo, proclami, ma stanno dentro alle sue constatazioni. «Scandagliare l’abisso di malvagità», per esempio, non è facile né gradevole: ma da farsi, «perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani» (ivi: 38). Né questo è legato a una consapevolezza di piani o disegni, ma si riduce al fronteggiarsi: distruttori e distrutti non stanno su scale morali, quando si riducono al vanto dell’accanimento. Forse per questo torna più volte come chi è allo stremo riceva un appellativo degradante, tratto dal novero delle religioni: “mussulmani” è definizione che “si dice”, evidentemente riportata: si incontra a p. 63, la si spiega a p. 111, «l’uomo stremato, il cui intelletto è moribondo o morto», e, nella forma “Muselmann” di p. 75 risulta «attribuito al prigioniero irreversibilmente esausto, estenuato, prossimo alla morte». Non è questa, però, la categoria posta al punto più basso: al di sotto, «gli zingari ed i prigionieri sovietici, militari e civili» (ivi:120). Tra le premonizioni, la memoria del filosofo Hans Mayer, o Jean Améry, citato per nome: «suicida, e teorico del suicidio», per il quale «essere ebreo è simultaneamente impossibile e obbligatorio; la sua spaccatura, che lo seguirà fino alla morte e la provocherà, incomincia di qui». Il contatto, ripreso oltre il lager, tra memorie giudicate non del tutto credibili, ma certo via percorribile, era stato favorito da una interlocutrice, indicata come Héty, corrispondente di Levi, in quanto lettrice di Se questo è un uomo, molto diligente e molto capace di esplorazioni, interlocutrice con un dossier epistolare nutrito.

Riflettendo su questo contatto, vedo non irrilevanti alcuni incontri in questa, che più che lettura è interrogazione del libro di Levi. La corrispondenza è accolta con qualche perplessità. Voluta invece è l’occasione, altrove, di aggiungere notizie che riguardino le donne. Per esempio, le donne che allattano, le donne di Birkenau, l’informazione sul codice distintivo per uomini e per donne nell’apposizione del tatuaggio. Mi pare che queste aggiunte, per nulla tendenti a una vena romantica, esprimano piuttosto l’antropologia del vivere, affidata a uomini maschi e a donne. Anche Don Renzo riconosceva come lo aiutasse, nell’azione pastorale, il riferimento “alla Carla”, cioè Carla Goio Franceschini, come abbiamo detto.

img-20250417-wa0017Mi torna a mente, allora, Remo Scappini, il comandante-operaio della liberazione di Genova: ho conosciuto Clara, ovvero Rina Chiarini (1909-1995), sua moglie. Nell’infanzia essa aveva sperimentato la persecuzione fascista sui familiari, sul padre e sul fratello, quindi presto si era indirizzata al lavoro, ma anche all’antifascismo. Fidanzatasi con Remo, per molti anni tuttavia non poterono frequentarsi. Divenuti coniugi nella primavera del 1943, anche “Clara”, questo il nome fittizio, diede attività a Genova, finché fu catturata e, torturata, subì un aborto. Internata nel lager di Bolzano, riuscì a evadere nella primavera del 1944. Si ricongiunse infine al marito a Milano, subito dopo la liberazione di Genova. Dopo le torture, non poté avere figli suoi. La ricordo, anziana e dolce, per il suo tratto affabile, partecipativo. E mi torna a mente, riguardo a Don Renzo Fanfani

Un altro tratto trovo particolare, leggendo I sommersi e i salvati, nel capitolo “VII. Stereotipi”: Levi dà una attenzione insistita, originale, sulla “patria”, guardandola sotto molti punti di vista, tanto stereotipati quanto personali. A pag. 128 si riallaccia allora ai poeti, che hanno analizzato tutti gli echi e le contraddizioni, che la parola sollecita. Cita la Lucìa del Manzoni, che si allontana con dolore dai suoi monti, mentre il Pascoli, che pur rimpiange la Romagna natìa, si adatta alla “patria” costituita dal soggiorno momentaneo. Si accorge che in paesi vasti, di grande mobilità, il termine si neutralizza nella burocrazia. Lui, però, ha uno slancio di riflessione commossa: «qual è il focolare, quale la “terra dei padri” di quei cittadini in eterna trasferta?», per concludere che in molti non lo sanno, ma proseguono nell’ossequio che la retorica tributa al “morire per la patria”.

Leggendo la pagina, però, la mia percezione è stata di disagio, quando ho letto accostate le due espressioni, ciascuna delle quali di per sé non mi meraviglia: cioè, “il focolare” inteso come “terra dei padri”. Ma non vale lo stereotipo per cui è la donna l’angelo del focolare? E allora, che intendeva Pio XII quando approvava il voto delle donne, così da «contenere le correnti che minacciano il focolare»? Evidentemente, ci sono stereotipi – o forse ideologie – conflittuali.

C’è un poemetto di Pascoli, intitolato Il focolare, uno dei brani raccolti nei Primi Poemetti, del 1900. Le sette strofe sono una sequenza di sette momenti tra loro collegati, ma in una situazione, direi, simbolico-metafisica. Ecco l’argomento, in sintesi: la notte sorprende una serie di sconosciuti, di varia condizione. Prevale lo smarrimento: «Piangono i più». Ma, intravista una capanna, è là che tutti si dirigono: possono occuparla, in quanto deserta. In cerchio, mentre lo sconforto si attenua, si gode di un presunto focolare. Ci si sente a proprio agio: è la capanna che contrasta la tempesta. Ma qualcuno esce allo scoperto, a suo rischio; invece la veglia insieme dona sogni.

Una situazione, appunto, simbolica: dove il centro non è un elemento materiale, ma un centro aggregante: politico, in definitiva, il fulcro di una nazione, già “dispersa”. 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 
Note
[1] La Costituzione italiana. Con Introduzione di Saulle Panizza e Roberto Romboli. Aggiornata a gennaio 2016, Pisa, University press, 2016.
[2] F. Bellucci, Il ’15- ’18. Empoli come retrovia. Ricognizione documentaria, in La Grande Guerra in una piccola città, «Quaderni d’Archivio» a. V, 2015: 53- 62, 59.
[3] R. Pepicelli, Né Oriente né Occidente. Vivere in un mondo nuovo, Bologna, il Mulino, 2025.
[4] Giulio Meotti, Se questo è uno stato, in «Il Foglio», 9 dicembre 2013. 
Riferimenti bibliografici 
Battaglia, R., R. Ramat, Un popolo in lotta. Testimonianze di vita italiana dall’Unità al 1946, Firenze, La Nuova Italia editrice, 1961
Bellucci, Franca, Il ’15- ’18. Empoli come retrovia. Ricognizione documentaria, in La Grande Guerra in una piccola città, «Quaderni d’Archivio» a. V, 2015: 53- 62:  59.
Chiarini Scappini, Rina, La storia di “Clara”, Milano, La Pietra, 1982
Costituzione (La) italiana. Con Introduzione di Saulle Panizza e Roberto Romboli. Aggiornata a gennaio 2016, Pisa, University press, 2016
Levi, Arrigo, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 2007 (1986¹)
Pepicelli, Renata, Né Oriente né Occidente. Vivere in un mondo nuovo, Bologna, Il Mulino, 2025
Sani, Paola, Renzo Fanfani. Prete operaio. Con antologia degli Scritti (1969 – 2011), San Pietro in Cariano, Il Segno dei Gabrielli editori, 2021 
Riferimenti sitografici
<https://www.treccani.it/vocabolario/occidente/>
<https://it.wikipedia.org/wiki/Suffragio_femminile_in_Italia>
Giulio Meotti, Se questo è uno stato, in «Il Foglio», 9 dicembre 2013, in https://www.ilfoglio.it/articoli/2013/12/09/news/se-questo-e-uno-stato-55900/
Pascoli, Giovanni, Il focolare, in https://www.poemiitalici.altervista.org/index.php/poetiscrittori/poesia/521/giovanni-pascoli-primi-poemetti-i-due-fanciulli—i-due-orfani-il-focolare- 

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Franca Bellucci, laureata in Lettere e in Storia, è dottore di ricerca in Filologia. Fra le pubblicazioni di ambito storico, si segnalano Donne e ceti fra romanticismo toscano e italiano (Pisa, 2008); La Grecia plurale del Risorgimento (1821 – 1915) (Pisa, 2012), nonché i numerosi articoli editi su riviste specializzate. Ha anche pubblicato raccolte di poesia: Bildungsroman. Professione insegnante (2002); Sodalizi. Axion to astikon. Due opere (2007); Libertà conferma estrema (2011).

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