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Pandemia, migrazioni e riscaldamento globale
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2020 @ 01:53 In Cultura,Migrazioni | No Comments
And the soul creeps of the tree (Louise Gluck)
La pandemia altera i ritmi della vita quotidiana e ci costringe a osservare lunghe pause di isolamento e riflessione. Si tratta di costrizioni, ma potrebbero trasformarsi in opportunità. Sapremo utilizzare questi tempi e questi spazi per interrogarci sul nostro stile di vita, sul modello di sviluppo, sulla qualità delle nostre relazioni con gli altri? Saremo in grado di convertire qualcosa di obbligato in scelta? Sapremo operare un cambiamento a livello planetario come ci impone il livello di distorsione raggiunto dall’agire umano sul mondo? Sapremo vedere in ciò che avviene la reazione del pianeta alla violenza esercitata sull’ecosistema terrestre? Personalmente, ne dubito. Eppure, tutto ciò è necessario. Anzi, indispensabile. Ne va della nostra vita, della convivenza umana, del destino delle future generazioni.
Procediamo con ordine e proviamo a dipanare la matassa intricata di relazioni che da qualche decennio a questa parte tiene insieme l’ambiente in cui viviamo in un sistema-mondo e ci impone di interrogarci sull’esistenza di una dimensione globale in chiara e evidente interazione con le innumerevoli sfere locali del nostro agire quotidiano.
È in atto la più grande mobilitazione della storia dell’umanità. Non si era mai verificato nulla di simile per ampiezza e entità degli spostamenti. Qual è il propellente? Si ha l’impressione che l’energia che muove tanti esseri umani e li sollecita a spostarsi sia data più da potenti fattori espulsivi (push factor) che da grandi forze attrattive (pull factor). Si combinano insieme: crisi economiche ricorrenti, guerre, persistenti forme d’instabilità politica e transizioni culturali. Su tutto e tutti agisce la pressione prorompente dei mutamenti climatici (inaridimenti, desertificazioni, allagamenti, deforestazioni e perdita di opportunità economiche e risorse alimentari).
Il vettore è dato dai processi di globalizzazione e dalla compressione spazio-temporale che ne deriva, ovvero dalla velocizzazione dei sistemi di comunicazione e trasporti su scala planetaria. Si impongono come direzioni prevalenti, ma non esclusive, le traiettorie Sud-Nord, lungo un asse tracciato dalle profonde diseguaglianze che solcano la superficie terrestre.
Su un universo così mosso di traslazioni tendono a sovrapporsi logiche “imperiali” in cui pochi attori geopolitici sembrano occupare la scena globale, estendendo le loro aree di influenza a scala planetaria. USA, UE, Russia e Cina, in particolare, dimostrano ambizioni di potenza, non sostenute da reali attitudini a reggere nuovi ordini e equilibri mondiali.
Assistiamo così a una tensione inedita tra il quadro mobile e in espansione dei diritti umani, rivendicati, sia a livello locale sia globale, da soggetti diseredati in numero crescente e l’architettura stessa della geopolitica mondiale, organizzata in reazione a due conflitti mondiali e fondata su istituzioni internazionali come l’ONU, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, a supporto degli Stati nazionali, dell’integrità dei loro territori e delle frontiere che li separano e uniscono (fatta eccezione per i cosiddetti “popoli senza Stato”: curdi, armeni, palestinesi, rom, ecc. in attesa di un pieno riconoscimento internazionale).
La mobilitazione in atto attiva tanti fattori di crisi, che tendono a configurarsi come tante sfide aperte nel corpo stesso delle società contemporanee:
- Sfida ambientale: il cambiamento climatico, l’annunciata fine dello sfruttamento delle energie fossili, la diffusione pervasiva delle plastiche, ecc.;
- Sfida economica: le mutazioni del capitale e la finanza al comando dell’economia globale; l’economia flessibile e il lavoro precario; dallo sfruttamento all’espulsione e all’irrilevanza di quote crescenti di umanità;
- Sfida tecnologica: Cosmopolis e cybercapitale, sviluppo tecnologico e biomedico; le società umane governate dagli algoritmi?
- Sfida politica: crisi globale e politiche nazionali; politiche securitarie, autoritarismi e libertà; la democrazia in crisi?
- Sfida culturale: le civiltà sono un’invenzione? Verso una società globale?
Le questioni che abbiamo evocato si sono trasformate in interrogativi – c’è chi preferisce il più forte “interrogazioni” – che interpellano ogni singolo individuo come intere comunità e Stati. Essi sono stati proposti da storici, scienziati sociali e scrittori particolarmente propensi a leggere nelle strutture presenti della società umana i germi del futuro. Mi riferisco a storici e scienziati sociali come Saskia Sassen o Yuval Noah Harari, a scrittori come Don De Lillo o Amitav Ghosh. I lettori più informati avranno riconosciuto nell’elenco delle questioni sollevate persino i titoli di alcune delle loro opere: Espulsioni, Cosmopolis, Le civiltà sono un’invenzione? Per citarne solo alcuni.
Global warming e migrazioni internazionali
La Grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile di Amitav Ghosh [1] è stato uno dei richiami più forti lanciati verso un pubblico vasto. Contrariamente alla pandemia, il global warming costituisce un processo, lento e inesorabile all’inizio, poi via via più accelerato e devastante, di cui la società ha stentato – e stenta, tuttavia – a percepire la pericolosità: scioglimento dei ghiacciai e innalzamento della superficie dei mari e degli oceani, rischi elevati di sommersione di contesti urbani sviluppatisi a stretto contatto con il mare (Jakarta, Mumbai, New York, ecc.) sono alcuni dei fenomeni più inquietanti che lo scrittore indiano ha saputo evocare con uno stile denso di contenuti scientifici, ma reso efficace dalla sua forte propensione letteraria.
Un altro aspetto che rende insidiosa l’azione del riscaldamento climatico è dato dal suo proporsi sì in acute ed episodiche emergenze puntuali, ma nel dispiegarsi più a livello globale che locale. Così avviene che l’azione di contrasto dovrebbe impegnare più dei singoli Stati la comunità internazionale, in quanto tale. Ma quest’ultima è del tutto impreparata a reagire con coerenza e coesione. Istituzioni come l’ONU, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, che hanno preso vita nel secondo dopoguerra, come reazione agli orrori della guerra, hanno mostrato chiaramente la corda di fronte alle nuove sfide planetarie. Nemmeno aggregazioni di Stati come l’Unione Europea o la più recente e problematica Unione Africana si sono rivelate adeguate a fronteggiare i colpi delle crisi. Anzi, se pensiamo alle politiche messe in atto dall’Unione Europea – come l’Austerity in campo economico e le politiche oscillanti tra gli estremi dell’accoglienza/integrazione o dei respingimenti in campo migratorio – constatiamo che esse si sono trasformate in gabbie piuttosto che in impulsi ad un’azione coordinata, coraggiosa e efficace.
Dopo gli appelli accorati all’azione provenienti da Greta Thunberg e le lettere encicliche Laudato si’. Enciclica sulla cura della casa comune (2015) e Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia sociale (2020) di papa Francesco, viene a suonare il de profundis sul riscaldamento globale l’agile pamplhet di Jonathan Franzen: E se smettessimo di fingere? Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica [2]. Dobbiamo dunque ammettere con il nostro autore che non è più possibile fare nulla per prevenirla? Pur essendo piuttosto pessimista in materia, ritengo che ancora molto si possa fare. Si tratta di operare una netta inversione di tendenza sul piano dei comportamenti individuali e degli stili di vita adottati, ma soprattutto sul terreno delle comunità nazionali e degli organismi internazionali. Qualunque mutamento del sistema dei valori e degli stili di vita individuali sarà vano se non sarà accompagnato da una sostenuta azione da parte della mano pubblica. È questo un campo d’azione in cui non è possibile che singoli e comunità esprimano azioni dissonanti. Potreste domandare: com’è plausibile attendersi qualcosa di così incisivo in un’epoca caratterizzata da crisi globali e inanità delle politiche nazionali? In un’epoca in cui siamo stati indotti a interrogarci sulla tenuta stessa della democrazia in quanto tale?
L’affermazione e il protagonismo di soggetti statuali chiaramente improntati a politiche autoritarie, se non totalitarie, come la Cina di Xi Jinping, la Russia di Vladimir Putin, la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, il Brasile di Jair Bolsonaro e la stessa America di Donald Trump [3], non lasciano spazio a grandi slanci utopistici. Eppure è questo il momento in cui non possiamo fare a meno della democrazia, della partecipazione popolare e di un rinnovato senso di comunità. D’altronde, appare ormai manifesto che se l’appello degli scienziati e dei giovani rimane inascoltato, ciò dipende dal fatto che le politiche ispirate dal neoliberismo economico reclamano come complemento forme di autoritarismo in campo politico. L’unico modo di coniugare la tendenza alla mutazione dei valori e degli stili di vita individuali con un’efficace politica delle istituzioni nazionali e sovranazionali è riporre fiducia nel motto di Naomi Klein, condensato nel titolo del suo ampio saggio del 2014: Una rivoluzione ci salverà [4]. Il sottotitolo dell’opera, Perché il capitalismo non è sostenibile, chiarisce il senso della perentorietà dell’enunciato. La crescita ad ogni costo, sostiene l’autrice americana, sta uccidendo il pianeta. La risoluzione non è più una questione ideologica. È una questione di sopravvivenza.
La trasformazione radicale di ogni cosa oggi s’impone non come un’istanza ideale, ma con la forza di un imperativo categorico. Sono cosciente che tale consapevolezza, seppur necessaria, non è tuttavia sufficiente a creare la base di un cambiamento. Occorre che sussistano altre condizioni, di cui si cominciano a intravedere le prime occorrenze: una rivoluzione scientifica e l’adozione di due leve potenti. Le due leve, a cui mi riferisco, sono, da una parte, un’azione conseguente e efficace, orientata verso la riduzione delle emissioni di CO2, la seconda, ancora tutta da esplorare è quella indicata da Stefano Mancuso ne La nazione delle piante.
Nel primo senso, operano gli accordi internazionali sul clima, che hanno preso avvio dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite, stipulata a Rio de Janeiro nel 1992, e si sono sviluppate con il Protocollo di Kioto e con gli accordi di Parigi, entrati in vigore nel 2016. Non sono mancati appannamenti nell’azione complessiva e significative battute d’arresto – la più grave è seguita al recente annuncio da parte del Presidente degli Stati Uniti del ritiro dal sostegno all’impegno per il contrasto ai cambiamenti climatici – ma si tratta, comunque, di un percorso già tracciato che va perseguito con sempre maggiore convinzione.
La seconda leva è ancora allo stato larvale, in quanto si basa su una elaborazione teorica di tutto rilievo a cui non sono seguite azioni concrete concordate a livello internazionale.[5] Si segnalano soltanto iniziative pur lodevoli ed esemplari di singoli Paesi, di gran lunga superati dall’azione in senso opposto mossa da grandi imprese sovranazionali, interessate allo smantellamento del manto forestale per sostituirlo con piantagioni industriali (soia, palme da olio, banani, ecc.) soprattutto in ampie regioni di zone tropicali. Le colture intensive sono destinate, infatti, a suscitare preoccupazioni non inferiori all’allevamento intensivo di bovini, suini e polli, considerato da tanti osservatori devastante per i suoli in cui si sviluppa e per il contributo alle emissioni di CO2 nell’atmosfera. D’altronde, che non ci sia in atto alcun ravvedimento nelle relazioni tra i paesi più avanzati e il resto del mondo, lo constatiamo attraverso la spregiudicata operazione di smaltimento delle plastiche in contesti già compromessi dall’incuria e dalla corruzione politica e istituzionale e da regimi autoritari in Africa, in Asia e in America Latina.
Essere arborei, una scoperta tardiva
Concedetemi a questo punto una parentesi autobiografica. Negli ultimi cinquant’anni della mia vita mi sono dedicato con passione agli studi antropologici e geografici. Ho cercato così di mettermi in sintonia con il mondo variegato delle società e delle culture umane. Negli ultimi anni – fin dalla sua costituzione – ho fatto parte del Dipartimento Culture e Società dell’Università degli Studi di Palermo. Ero, e sono, fiero di questa denominazione. Essa contiene una grande conquista: l’umano si può cogliere soltanto attraverso la molteplicità delle culture e delle società. Non è patrimonio esclusivo di un gruppo umano, magari più ricco, istruito e potente degli altri. La conseguenza implicita, ma evidente, è che per ogni cultura che scompare l’umanità si impoverisce. Perde in varietà e complessità. Nessuna singola società può compendiare in sé – come il mondo occidentale ha a lungo preteso – tutto il repertorio dei saperi, delle tecniche, delle competenze e delle abilità che l’universo delle esperienze umane è in grado di esprimere.
Nel 2011, approdavo così a una consapevolezza, che allora mi appariva come grande saggezza, e la esprimevo in una formula sintetica, che sapeva di aforisma: esseri umani, essere umani. Ne La città cosmopolita. Geografie dell’ascolto concludevo certe mie riflessioni con queste frasi che riassumono il senso di un lungo processo di ricerca:
Il mio pensiero di allora era permeato da alcune parole che ne riassumono il senso: interazione umana, contingenza, società del presente, divenire. I singoli esseri umani non venivano concepiti in astratto, ma nell’interazione con gli altri. Tale interazione è il fuoco dell’attenzione e la nozione di luogo assume non la centralità – non sarebbe coerente – ma una sorta di nodalità. Nessun agire umano può essere compreso se si prescinde dal contesto.
Lo so. Voi leggete queste frasi e avvertite qualcosa che manca. Lo avvertivano tutti, anche allora. Io solo non me ne accorgevo. O meglio, me ne accorgevo, ma mi ostinavo a difendere la mia sofferta conquista. Il distillato del mio discorso. Ma come, mi dicevano, tu sei geografo – ho preteso di insegnare geografia per più di trent’anni – e identifichi i luoghi con l’interazione umana? E dove è finito il contesto, l’ambiente fisico, che di questo sistema di relazioni costituisce una componente essenziale?
Semplice, intuitivo, quasi scontato. Non per me. C’è voluto un evento, l’incontro con una persona, per rimettere tutto in discussione. Per avviare un nuovo sofferto apprendistato. Questa persona è mia moglie e si chiama Giovanna Soffientini, e da lei ho imparato a vedere ciò che prima mi sfuggiva. Sono diventato più attento agli insetti, alle piante, agli alberi. Ho cominciato a soffrire per le ferite, le offese, che questi esseri continuamente patiscono. Contrariamente a me, Giovanna ha un senso che definirei naturale di compassione. Letteralmente: patire con. Il suo corpo e la sua mente patiscono le violenze che continuiamo ad arrecare all’esistenza degli altri esseri viventi, come strappi della sua pelle sottile e delicata.
Io da allora mi sono sottoposto, come dicevo, a un lungo apprendistato. Ho provato a colmare il divario. Mi sono buttato a capofitto nella lettura di due autori, Emanuele Coccia e Stefano Mancuso e due libri. Il primo, che per me è stato una specie di rivelazione, è La vita delle piante. Metafisica della mescolanza di Emanuele Coccia [7]. Il secondo, in ordine di lettura, La nazione delle piante di Stefano Mancuso [8]. Quest’ultimo con la sua stringente semplicità mi ha costretto a cambiare paradigma.
Quando si parla di migranti, rifugiati e richiedenti asilo, da qualche anno sentiamo riproporre una improbabile distinzione tra chi fugge dittature, guerre, persecuzioni politiche e chi, invece, non è altro che un migrante economico. Tale artificiosa distinzione è funzionale a delle politiche che tendono – sulla carta ovviamente – ad accogliere i primi e respingere i secondi. Fatica a farsi strada una più pregnante espressione, quella di “profughi ambientali”, che nella realtà tende a coprire la gran parte delle attuali e future generazioni di migranti. A causa del riscaldamento globale, i fenomeni più estremi – siccità, alluvioni, perdita di fertilità dei terreni, desertificazione, ecc. – tendono a essere sempre più frequenti in ogni parte del globo, ma in alcune aree manifestano particolare virulenza. Chi abbandona la propria casa e la propria famiglia spesso è forzato a farlo dal fatto che la terra, in cui è sempre vissuto e da cui ha tratto sostentamento, è diventata inospitale, di fatto inabitabile.
Perché stenta a farsi spazio un’espressione che pure sembra attagliarsi a un alto numero di spostamenti? Il motivo è lo stesso, ritengo, che ha portato una parte del mondo politico e pubblicistico ad adottare termini meno appropriati alla realtà attuale – cambiamento climatico piuttosto che riscaldamento globale, migranti economici piuttosto che rifugiati ambientali – e meno cogenti rispetto alle politiche da adottare. Mutamenti del clima ce ne sono sempre stati, ma l’attuale riscaldamento globale è un fenomeno inedito, le cui responsabilità sono chiaramente da imputare all’azione umana.
Eppure, che il riscaldamento globale sia la priorità assoluta, anche per i tempi ristretti che impone all’agire umano, è una convinzione e un sentire profondo che tende a diffondersi tra la popolazione in ogni angolo della superficie terrestre. Soprattutto tra i giovani. Ecco perché non può non suscitare sgomento un fenomeno, per cui la Sicilia si presenta ancora una volta come terra di frontiera e di evidenti contraddizioni. Essa, infatti, continua a distinguersi per un fenomeno presente e diffuso in ogni dove, in Italia e nel mondo, ma che nell’Isola mostra una sorta di orrida e beffarda sistematicità: la distruzione del manto boschivo ad opera di incendi di natura dolosa. Le attività distruttive messe in atto ogni qual volta spiri lo scirocco o comunque le condizioni climatiche siano favorevoli alla diffusione degli incendi ci hanno indotti a pubblicare una petizione, promossa da Giovanna Soffientini e da me, su un canale dedicato, change.org, che in pochi giorni ha raccolto più di 4.000 firme. Ecco l’incipit della nostra petizione:
La rottura paradigmatica: fare appello alle piante per riscoprire il senso della solidarietà e della cooperazione
Eccola qui la rottura paradigmatica: l’ambiente dell’esperienza umana si qualifica come una sottile pellicola, che ospita la vita. Ma questo sottile strato biotico [10], che fa del pianeta Terra un apax, osserva Bruno Latour ne La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico [11], non è il prodotto né del caso né della necessità. Come scrive Stefano Mancuso ne La Nazione delle piante [12], esso è il frutto di un processo di creazione e di manutenzione costante da parte delle piante. Il punto sta proprio qui: il pur breve percorso evolutivo – tale appare se commisurato alla scala del mondo abiotico – che ha interessato la comparsa e la diffusione della vita sulla Terra ha come protagonista assoluto il mondo vegetale. Esso prevale sul mondo animale, non soltanto per il suo ruolo attivo e generativo, ma anche per la durata e per la dimensione quantitativa. E non finisce qui, le piante costituiscono la nostra unica opportunità di sopravvivenza di fronte alla sfida epocale che ci troviamo dinnanzi:
Pur avendo immaginato per millenni di essere le creature più perfette dell’universo, abbiamo irresponsabilmente attivato un processo di distruzione dell’ambiente che ci circonda e dona la vita. Il riscaldamento globale rappresenta un processo che noi, esseri umani, abbiamo innescato e non siamo più in grado di arrestare. Anche se riuscissimo a rispettare gli impegni di riduzione delle emissioni assunti in importanti eventi internazionali alla scala globale, il sistema delle azioni e delle reazioni di fatto scatenato con il consumo massiccio di combustibili fossili negli ultimi secoli farebbe sì che questi sforzi non sarebbero comunque sufficienti a garantire l’arresto della sesta estinzione di massa di specie in atto sulla superficie terrestre [14]. Soltanto l’ausilio da parte delle piante, come abbiamo visto, potrebbe contribuire a riparare e restaurare una situazione già in larga parte compromessa.
Perché non riusciamo a prendere atto della scarsa rilevanza dell’umano rispetto all’incidenza positiva del mondo vegetale? Forse ciò dipende dal fatto che non abbiamo del tutto assorbito le tre ferite narcisistiche di cui parlò a suo tempo Sigmund Freud e tanto meno siamo disposti ad accettare che ce ne venga inferta una quarta. Per comprendere fino in fondo la lezione delle piante e configurare l’umano entro lo sfondo della grande storia disegnata dal mondo vegetale nella conquista della Terra, bisogna prima rivivere i tre traumi che secondo Freud hanno caratterizzato la formazione stessa della cultura occidentale moderna:
Sono riti di passaggio, per così dire, di cui è lastricata la strada che ci porta verso una visione adulta del nostro posto nel mondo. Lo stesso Bruno Latour, però, integra il processo di promozione di nuove rotture paradigmatiche, quando ci suggerisce che l’ambiente non può più essere interpretato come qualcosa di inanimato. In chiave geostorica non soltanto viene rimesso in questione il rapporto tra le società umane e il contesto in cui esse vivono. Quest’ultimo non costituisce lo sfondo e la cornice in cui la storia umana e i conflitti sociali prendono forma, ma si anima di una serie d’intenzionalità tali da mettere in forse la distinzione tra soggetti umani e non umani. Soltanto se assumiamo coscienza della pluralità e singolarità degli agenti in gioco, possiamo comprendere la lezione che proviene dalla Nazione delle piante.
Qui, però, il discorso di Latour si fa più impervio, soprattutto quando, sulla scia di Lovelook e di Pangulis, prova a spiegare la sibillina frase: «There is only one Gaia, but Gaia is not One». Una visione olistica di Gaia ci indurrebbe a sottovalutare la sua più importante proprietà: essa non funziona come un superorganismo che tutto contiene e comprende, quanto piuttosto come la risultante mobile, fluida, complessa e imprevedibile di un pullulare continuo e costante di una molteplicità di agenti, ciascuno dei quali appare mosso da una propria intenzionalità:
Quando incrociamo Mancuso e Latour, ne deriva una miscela esplosiva: se il primo ci ricorda che, attraverso la sintesi clorofilliana, le piante hanno messo a disposizione degli altri viventi l’ossigeno, presupposto della loro vita, il secondo, affermando che l’ossigeno è pur sempre tossico, mutageno e probabilmente cancerogeno e che per questo fissa un limite alla durata della vita, ricorda però, al tempo stesso che fu proprio la disponibilità di un po’ di ossigeno, alla fine dell’Archeano, a modificare la chimica dell’ambiente e ad innescare la mutazione dei primi ecosistemi di allora.
Le implicazioni di questa miscela non possono sfuggire ai cultori della ricerca storica e delle discipline sociali e umane: ora sì che comprendiamo perché la vecchia storia evenemenziale aveva comunque una presa sull’animo umano: «tutto quel che accade non accade che una volta sola, non accade che a noi, qui» [17]. Sta tutto in quel “qui”, la dimensione locale dell’esistenza esplode con forza incomprimibile nel divenire globale del mondo. Si fondono così locale e globale, naturale e culturale, e precipitano insieme con la stessa forza rivelata nel mondo fisico dalla scissione dell’atomo. Tutto ciò appare difficile, anzi quasi impossibile da governare entro un quadro teorico ed epistemologico coerente, che potremmo chiamare geostorico, ma dobbiamo comunque provarci. Come accade a tutti i viventi, anche ai ricercatori non è dato sottrarsi alla dittatura della contingenza.
Pur considerando ormai definitivamente persa la battaglia per contrastare la catastrofe climatica, lo stesso Jonathan Franzen riconosce che:
La pandemia attuale potrebbe essere convertita in una grande opportunità di ripensamento valoriale. Questo esito, seppur poco probabile, va perseguito con instancabile energia. Gli effetti in caso contrario potrebbero essere devastanti e non soltanto per l’estensione sempre più ampia del contagio e i numerosi decessi che esso sta provocando in ogni parte del mondo. Il primo terribile effetto da contrastare è dato dalla perniciosa equivalenza tra contatto umano e contagio. Sul piano sociale e culturale esso potrebbe nella mente di molte persone determinare un pericoloso arretramento sul fronte delle interazioni umane e delle relazioni interculturali. In sostanza, sono in forse le conquiste più preziose che le società umane siano state in grado di elaborare dopo il conflagrare di ben due guerre mondiali.
Il secondo dispiega i suoi effetti con sempre maggiore evidenza là dove le economie interferiscono con il sostrato ambientale. Sia il primo focolaio in Asia, nella città di Wuhan e nella provincia di Hubei, che il primo focolaio in Europa, nella regione padana, si sono attivati là dove sussistevano ambienti fortemente compromessi da forme di inquinamento di notevole entità (distretti industriali, aree metropolitane ad alta intensità abitativa, ecc.). È stata così subito palese la forte correlazione positiva tra alto rischio pandemico e livelli alti di inquinamento.
Le prime risposte emotive non hanno fatto altro che aggravare la situazione, spostando l’attenzione dal sostrato ecologico della crisi alla questione dell’identità, finendo così per alimentare una spirale di chiusure identitarie con il suo correlato di alto potenziale di rischio di ricorso alla violenza [19]. Così avviene che, laddove sarebbe opportuno che si affermasse un senso largo e forte di identità con il vivente (piante e animali, per intenderci) – orientato alla salvaguardia dei differenti ecosistemi e della biodiversità – si afferma piuttosto il contrario e si diffonde una nozione ristretta e debole di identità, legata sempre più a “piccole patrie” immaginarie.
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