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Palermo più vicina alla Palestina

foto Bellina

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   di Serena Najmah Visconti

Nell’era del digitale che ha reso gli uomini più vicini, accorciando le distanze tra i continenti, rendendo possibili comu- nicazioni e visioni  in tempo reale di popoli che abitano in parti estreme del mondo, esiste una realtà che ancora oggi ci divide e che addirittura separa uomini e donne della stessa terra: “i muri”. Sono più di quarantacinque nel mondo creati per contrastare il flusso di gente che si muove da una nazione all’altra o da un quartiere all’altro della stessa città. La creazione di queste barriere viene giustificata con il bisogno generico e generalizzato di protezione, di difesa, di sicurezza. Si innalzano pertanto muri, fatti  di cemento, di filo spinato o semplicemente di razzismo. Queste barriere dividono gli uomini in giusti e sbagliati, in oppressi e oppressori ed è inevitabile considerare il fatto che gli oppressori sono e saranno sempre i padri, i costruttori di questi muri.

Popolazioni intere sono chiuse all’interno di questi confini, altre fuori e lontane ne prendono le distanze o addirittura ignorano la questione. La vita confinata diventa sopravvivenza, priva di libertà e di dignità umana. Così è anche quando i muri arrestano il passaggio degli uomini, il loro transito. Così è quando ne limitano la circolazione e ne impediscono scambi e contatti. I muri più difficili da abbattere sono proprio quelli che non si vedono, o quelli che apparentemente non sono muri, come l’embargo, il blocco dei traffici commerciali, l’isolamento a causa del quale un popolo può ritrovarsi anche nelle condizioni di non avere medicine o cibo.

Esistono poi i muri che sono ben radicati nelle nostre vite quotidiane perché abitano nelle nostre teste, nelle nostre azioni, quando pensiamo che persone come noi siano persone  meno di noi. Il razzismo, il maschilismo, l’omofobia sono muri che non si vedono ma che pesano nel rapporto fra noi e la conoscenza degli altri. La verità è che il passo più grande che un uomo possa  fare è quello verso un altro uomo. Un governo che educa i propri cittadini alla paura dell’altro crea dei mostri che inevitabilmente chiederanno leggi più dure, centri di detenzione più severi, muri di separazione e di discriminazione più duri.

Tra i muri disseminati in diversi Paesi quello costruito in Palestina è forse il più drammatico e il meno visibilmente conosciuto, per quanto sia radicato da più di mezzo secolo. Da qui l’iniziativa promossa recentemente a Palermo per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione in Cisgiordania, dove migliaia di coloni vivono nel cuore degli insediamenti  palestinesi. Solo per poche, forse pochissime ore, Palermo è stata più vicina che mai alla Palestina, soprattutto alla vita dei palestinesi  o a quello che può definirsi vita. La rete palermitana  “con la Palestina nel cuore” giorno 6 novembre scorso ha organizzato una perfomance a piazza Verdi nel cuore della città siciliana, urlando al cuore dei palermitani tutto il dolore dei palestinesi, la loro condizione di sofferenza e di diritti umani negati. Da qui il titolo Diritti di cartone  che dà il nome ad una serie di iniziative nella città, per denunciare quanto sta accadendo nei territori occupati a Gerusalemme e a Gaza.

“Benvenuto al Maqueda checkpoint”  è l’iniziativa di piazza Verdi che ha visto la creazione di un muro, all’ingresso di via Maqueda, un muro simbolico, che voleva ricordare quello in Palestina iniziato nel 2002 e ancora in costruzione, un emsamble di ferro e cemento. I Palestinesi hanno colorato e abbellito questo muro per sottolineare che anche dietro un muro  c’è la vita, che loro ci sono e resisteranno. Quello messo in piedi nel capoluogo siciliano è una cortina di cartone decorata con disegni creati da artisti locali. Scopo dell’iniziativa era sensibilizzare i cittadini palermitani in modo da fare rivivere loro una giornata qualunque di un qualunque palestinese. Per noi è tutto così semplice, così naturale: uscire da casa per recarsi  al lavoro, a scuola, dal medico e magari anche in palestra o per vedere amici e parenti. Sulla tua strada non incontrerai mai un posto di controllo militare ai piedi di un muro, non troverai la tua strada  da percorrere a piedi circondata da un filo spinato con dei soldati che ti puntano un fucile contro. Perchè dovresti? Tu stai soltanto andando al lavoro.

foto  bellina

foto Bellina

In Palestina tutto questo accade ogni giorno, ad ogni ora, si rimane bloccati per ore ed ore prima di avere il permesso per passare e non importa se ad aspettarti dall’altra parte del muro c’è il medico che deve consegnarti le medicine per tuo figlio gravemente malato, ridotto  così proprio da quei soldati israeliani impegnati nella operazione “fosforo bianco” sui civili.  Permesso che potrebbe  anche non arrivare. Quanti bambini hanno perso la vita davanti quel muro maledetto mentre tentavano di passare per andare a scuola, o perchè si arrampicavano solo per la curiosità di vedere il mondo dall’altra parte perché sono stati divisi dai loro familiari! Quanti i contadini, uccisi e massacrati perché volevano riconquistare le loro terre che ora si trovano proprio lì dietro!

In Palestina esistono 294 checkpoint lungo il muro, alto 8 metri, dove sono state installate telecamere e allarmi elettronici. I  Palestinesi così sono isolati anche tra di loro e non possono usufruire dei servizi base come gli ospedali e, a volte, anche delle scuole. La Corte di giustizia dell’Aja il 9 luglio del 2004 ha dichiarato che il muro è «contrario al diritto internazionale», e tuttavia  continua ad esistere, a limitare i movimenti e la vita degli abitanti.

Solo per un paio d’ore a Palermo sono state simulate le violenze subite dai Palestinesi nell’attraversare il muro e raggiungere i luoghi di destinazione. La simulazione consisteva nel fermare la gente che passeggiava per le vie della città, chiedendo loro i documenti e il permesso per passare ed arrivare dall’altra parte del checkpoint: se non ne erano in possesso erano pregati di tornare indietro. Lo sgomento nelle facce dei ragazzi e delle ragazze fermati era evidente, così come il disagio che stavano subendo; non riuscivano a capire come dei “pazzi” potessero decidere di non farli passare, di non fargli proseguire la passeggiata in giro per negozi. Altri, invece, stavano lì ad osservare la simulazione, nei loro sguardi persi e lucidi si leggeva la timida presa di coscienza  dei soprusi consumati ogni giorno senza che nessuno nel mondo civile muova un dito. Come se queste persone non esistessero, come se non potessero provare dolore, eppure sono lì sotto gli occhi di tutti, sotto gli occhi del mondo intero .

Il movimento “Con la Palestina nel cuore“ a piazza Verdi forniva informazioni, dati e testimonianze a chi voleva saperne di più o fosse interessato alla situazione palestinese, offriva documentazione  su come si sopravvive in quella terra, su come sia difficile per questo popolo gestire la vita quotidiana. Ciò che per noi è davvero semplicissimo in Palestina diventa tutto complicato, rischioso, pericoloso. La gente sembrava molto interessata, chiedeva, si informava. Le storie che ascoltava erano davvero sconcertanti e pensare che qui si era creato “solo” un muro di cartone, a simulare quello di cemento che vorresti abbattere ma non ci riesci, perché come i palestinesi sei da solo. Sono tutte storie di sofferenza, di crudeltà, di umiliazione dei diritti elementari come quelle  che ci racconta un ragazzo che, come noi, era in piazza per assistere alla performance. Ci riferisce che appena tre giorni prima, il 3 novembre scorso, a Hebron ad un checkpoint è stato impedito il passaggio a degli attivisti internazionali tra cui tanti italiani che dovevano recarsi nella parte della città dove avevano affittato una casa diventata il centro delle loro attività di volontari. I militari israeliani non li fecero passare sostenendo che quella fosse una zona militare interdetta, che è la stessa motivazione che l’esercito usa per bloccare e complicare la vita ai civili palestinesi residenti ad Hebron.

La Palestina è quasi tutta ormai una zona militare, da qui le difficoltà che la gente deve affrontare ogni giorno per muoversi all’interno della propria città, della propria terra. Gli stessi attivisti l’indomani sono stati nuovamente fermati all’interno dell’ospedale dove stavano prestando assistenza a bambini palestinesi ricoverati e costretti a lasciare immediatamente l’edificio sotto la minaccia di arresto perché non erano in possesso della residenza a Hebron. Ecco cosa succede a chi decide di aiutare i palestinesi.

foto  Bellina

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Un’altra e più tragica storia ce la racconta un ragazzo incuriosito dall’iniziativa che ha assistito recentemente a Jenin, sempre in Cisgiordania, presso un checkpoint all’uccisione di due ragazzi di 16 e 18 anni. Gli israeliani pretendono e ordinano alle famiglie delle vittime di organizzare funerali nel silenzio più totale e di notte; se si rifiutano non sarà consegnato loro il corpo. Può anche accadere che questi morti innocenti vengono depredati  degli organi interni per aiutare un israeliano che ne ha bisogno. A tutto questo si aggiunge il sistematico rastrellamento delle case di famiglie palestinesi semplicemente sospettate di dare protezione a ricercati e poco importa se il ricercato è  un bambino di appena otto  anni.

Questo accade in Palestina nell’indifferenza dell’opinione pubblica occidentale. Tutte queste storie  ci rendono deboli e inutili. Ascoltare i particolari di questi soprusi guardando davanti a noi un muro di cartone con un cartello che dice “vi auguriamo un passaggio sicuro e piacevole”, pare proiettarci   dentro un film, un bruttissimo film, come se tutto questo non potesse davvero succedere. Eppure accade e accade ogni giorno ad ogni ora, da sempre ormai.

Noi che dentro le nostre vite arriviamo a stento con lo stipendio alla fine del mese, noi che soffriamo a fare la fila alla posta o in attesa alla fermata dell’autobus, ci accorgiamo quanto piccoli, banali e quasi stupidi siano i nostri problemi se confrontati a quelli che quotidianamente  affrontano i palestinesi in Cisgiordania.

Mentre torno a casa allontanandomi sempre più da quella bandiera palestinese posta sotto la maestranza del Teatro Massimo, nella certezza che nessuno potrà fermare il mio passo e che sarò soltanto io a decidere se tornare indietro o no, mi tornano alla mente alcuni versi della grande poetessa palestinese Fadwa Tuqan, che sottolinea le umiliazioni che il suo popolo deve subire aspettando un permesso, il permesso per passare dall’altro lato del muro:

«Ahimè! Mendicare un permesso!
E la voce di un militante straniero
Scoppia furiosa come uno schiaffo
Sul volto della folla:
“Arabi…Disordine…Cani!…
Tornate indietro
Non venite vicino al cancello!
Indietro!…Cani!…”»
Dialoghi Mediterranei, n.17, gennaio 2016

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Serena NajmahVisconti,  laureata al Dams presso l’Università degli studi di Palermo, con una  tesi sulle tradizione musicali dei tunisini che vivono a Palermo, si occupa d’arte e musica araba all’interno di una prospettiva antropologica e politica.

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