Introduzione
Negli ultimi decenni, l’esternalizzazione delle frontiere e la stipulazione di accordi di cooperazione con Paesi terzi sono diventate strategie centrali nella gestione dei flussi migratori da parte dell’Unione Europea e di numerosi Stati membri. Con questi strumenti si intende prevenire l’immigrazione irregolare, rafforzando i controlli esterni e delegando a Paesi di transito e di origine una parte della gestione delle migrazioni. Tale strategia può avvenire attraverso finanziamenti per il controllo delle frontiere, la creazione di centri di accoglienza in Paesi di transito o il supporto tecnico e logistico per il pattugliamento e la sorveglianza.
Nonostante l’esternalizzazione delle frontiere si presenti come una strategia politica che consente agli Stati di ridurre i flussi migratori diretti verso il proprio territorio, scaricando la responsabilità della gestione migratoria su altri Paesi, questa politica solleva questioni giuridiche complesse riguardo alla responsabilità legale degli Stati che stipulano tali accordi, coinvolgendo il diritto internazionale, il diritto dell’Unione Europea e le normative nazionali. Infatti, se da un lato può essere vista come una risposta pragmatica alle pressioni migratorie, dall’altro può comportare una grave elusione degli obblighi internazionali in materia di protezione dei diritti umani.
In particolare, il principio di non-refoulement, sancito dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951, impedisce agli Stati di espellere o respingere persone verso Paesi in cui potrebbero essere esposte a persecuzioni, torture o trattamenti inumani. Quando uno Stato delega il controllo delle migrazioni a un Paese terzo in cui il rispetto dei diritti umani non è garantito, si pone il problema della corresponsabilità per eventuali violazioni. Inoltre, la mancanza di trasparenza in molti di questi accordi, che spesso vengono siglati senza un adeguato scrutinio parlamentare o giudiziario, rende difficile valutare l’effettiva tutela dei diritti dei migranti coinvolti.
Un ulteriore problema è rappresentato dalle condizioni in cui i migranti vengono trattenuti nei Paesi terzi. In molti casi, gli accordi di cooperazione prevedono il finanziamento di centri di detenzione per migranti, strutture che spesso versano in condizioni inadeguate e in cui si registrano abusi, violenze e violazioni sistematiche dei diritti fondamentali. Organizzazioni internazionali e ONG hanno denunciato in più occasioni che questi centri non rispettano gli standard minimi di dignità e sicurezza previsti dal diritto internazionale.
In definitiva, la crescente tendenza all’esternalizzazione delle frontiere richiede un’analisi approfondita delle implicazioni giuridiche e politiche che ne derivano. È fondamentale garantire che tali pratiche siano conformi al diritto internazionale e che non si traducano in una violazione sistematica dei diritti fondamentali dei migranti. La sfida principale consiste nel bilanciare le esigenze di sicurezza degli Stati con il dovere di protezione delle persone in cerca di rifugio e protezione internazionale.
L’obiettivo di questo articolo è analizzare la validità giuridica di tali accordi di cooperazione con Paesi terzi alla luce del diritto internazionale, dei diritti umani e dei principi fondamentali sanciti dai trattati internazionali e regionali. Si esploreranno le implicazioni legali di queste pratiche, con particolare attenzione alle responsabilità degli Stati e delle organizzazioni coinvolte, cercando di delineare un quadro completo della situazione attuale.
1. Il quadro normativo internazionale
Il diritto internazionale prevede una serie di strumenti normativi che regolano la gestione delle migrazioni e la protezione dei diritti dei migranti. Questi strumenti, frutto di un lungo processo di sviluppo giuridico, sono stati creati per garantire un equilibrio tra la sovranità degli Stati e la tutela dei diritti umani. Tra i più rilevanti si annoverano la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e il suo Protocollo del 1967, che stabiliscono i diritti fondamentali dei rifugiati e il principio di non-refoulement (art. 33 Convenzione), impedendo agli Stati di respingere le persone verso Paesi in cui rischiano persecuzioni. Questo principio costituisce uno degli elementi cardine della protezione internazionale e impone un dovere inderogabile ai singoli Stati che hanno ratificato la Convenzione, che li obbliga a proteggere i rifugiati che si trovano sul loro territorio, in conformità con i relativi termini. Secondo l’articolo 31 della Convenzione, inoltre, un rifugiato ha il diritto di essere libero da sanzioni riguardanti l’illegalità del proprio ingresso o presenza in un Paese, se può dimostrare di aver agito in buona fede, ovvero se il rifugiato è convinto che vi sia una sufficiente giustificazione per il suo ingresso illegale o per la sua presenza, come ad esempio per sfuggire a reali minacce alla propria vita o la libertà, e se immediatamente dichiara la propria presenza.
Di estrema rilevanza è senz’altro anche la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, che rappresenta il primo documento giuridico a stabilire che i diritti umani fondamentali devono essere protetti universalmente. I diritti universali appartengono a tutti noi, indipendentemente dalla nazionalità, dal sesso, dall’origine nazionale o etnica, dal colore della pelle, dalla religione, dalla lingua o da qualsiasi altro status. L’articolo 14, in particolare, sancisce il diritto di ogni persona di cercare e godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni.
E, ancora, la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 1984, che prevede, all’articolo 4, che ogni Stato Parte provveda affinché qualsiasi atto di tortura costituisca un reato nel proprio diritto penale, vietando anche qualsiasi forma di maltrattamento dei migranti, compresi i respingimenti forzati in situazioni pericolose. Questo strumento è particolarmente rilevante poiché rafforza la tutela dei migranti anche nei casi in cui non siano riconosciuti come rifugiati.
Anche il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, che protegge i diritti di tutti gli individui, inclusi i migranti, garantisce un trattamento equo e dignitoso. Il Patto vieta l’espulsione arbitraria e impone agli Stati di rispettare la dignità umana dei migranti, sia durante il processo di determinazione dello status che nel trattamento successivo.
Infine, la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie del 1990, che mira a tutelare i lavoratori migranti e le loro famiglie da abusi e sfruttamento nei Paesi di destinazione [1]. Sebbene non sia ratificata da tutti gli Stati, rappresenta un importante punto di riferimento nella protezione dei diritti dei migranti, poiché sottolinea il legame tra migrazione e diritti umani, che sta diventando sempre più un tema politico cruciale in tutto il mondo. I migranti non sono solo lavoratori, ma prima di tutto sono esseri umani. La Convenzione infatti non va a creare “nuovi diritti” esclusivi per i migranti, ma mira semplicemente a garantire la parità di trattamento e le stesse condizioni di lavoro (incluso il caso del lavoro temporaneo) sia per i migranti sia per cittadini. La Convenzione è innovativa perché si basa sul concetto fondamentale secondo cui tutti i migranti dovrebbero avere accesso ad un livello minimo di protezione: la Convenzione riconosce infatti che i migranti regolari hanno la legittimità di rivendicare più diritti degli immigrati irregolari, ma evidenzia in maniera netta che in ogni caso devono essere rispettati anche i diritti umani fondamentali dei migranti irregolari, cioè come di ogni essere umano.
Tutti questi strumenti normativi, nel loro insieme, sanciscono, dunque, dei principi fondamentali come il divieto di respingimento, il diritto d’asilo e la protezione dei diritti umani dei migranti, stabilendo dei limiti chiari alle pratiche degli Stati. Tuttavia, l’effettiva applicazione di questi principi dipende dalla volontà politica degli Stati e dalla loro interpretazione delle norme internazionali. In molti casi, gli Stati adottano politiche restrittive che, pur rimanendo formalmente nei limiti del diritto internazionale, compromettono la protezione dei migranti.
Un ulteriore problema riguarda l’assenza di meccanismi di enforcement efficaci. Sebbene esistano organi internazionali e regionali incaricati di monitorare l’attuazione delle norme, come l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e la Corte europea dei diritti dell’uomo, le loro decisioni non sempre vengono rispettate dagli Stati. Ciò evidenzia la necessità di rafforzare i sistemi di monitoraggio e di garantire che le norme internazionali non rimangano prive di effettività.
L’Unione Europea ha il dovere di garantire che le politiche migratorie rispettino i valori fondamentali su cui si basa il Trattato sull’Unione Europea (TUE), tra cui il rispetto della dignità umana e il principio di solidarietà tra gli Stati membri. La crescente esternalizzazione rischia invece di frammentare il sistema di asilo, riducendo il peso della protezione umanitaria in favore di una logica securitaria e deterrente.
2. L’esternalizzazione delle frontiere: sviluppi geopolitici e istituzionali
L’esternalizzazione del controllo delle frontiere e del diritto dei rifugiati si riferisce ad un insieme di strategie economiche, giuridiche, militari e culturali, attuate principalmente al di fuori del territorio nazionale, da parte di soggetti statali e sovrastatali. Queste azioni, spesso realizzate con il supporto di attori pubblici e privati, mirano ad impedire o ad ostacolare l’ingresso dei migranti, inclusi i richiedenti asilo, in uno Stato, negando loro l’accesso alle tutele giuridiche e ai diritti garantiti in quel Paese. Inoltre, tali misure rendono di fatto inammissibili le richieste di protezione sociale e giuridica. L’esternalizzazione è, dunque, un meccanismo complesso che coinvolge diversi attori con ruoli specifici ma convergenti verso lo stesso obiettivo. Tra questi vi sono le istituzioni dell’Unione Europea, i singoli Stati membri, alcuni Paesi extra-UE (come quelli africani coinvolti negli accordi migratori), l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) [2].
L’obiettivo principale di tali pratiche è contenere i flussi migratori prima che raggiungano il territorio dell’Unione Europea, riducendo il numero di ingressi irregolari e minimizzando i costi politici ed economici della gestione interna delle migrazioni. L’analisi degli strumenti principali attraverso cui si attua l’esternalizzazione permette di comprenderne la complessità della gestione esternalizzata e le relative problematiche giuridiche, tra cui la trasparenza degli accordi e la tutela effettiva dei diritti umani, soprattutto quando gli Stati coinvolti non rispettano standard minimi di protezione internazionale.
Uno degli strumenti chiave dell’esternalizzazione sono gli accordi di riammissione. Essi prevedono che i Paesi terzi accettino il ritorno di cittadini propri o di persone transitate nel loro territorio prima di entrare nell’Unione Europea. Il meccanismo alla base di tali accordi è spesso bilaterale e implica negoziati in cui l’Unione Europea offre incentivi economici e diplomatici in cambio della collaborazione del Paese di origine o di transito. Un esempio ne è l’accordo UE-Turchia del 2016, uno dei più noti, in base al quale la Turchia si è impegnata a riprendere i migranti irregolari giunti in Grecia in cambio di aiuti finanziari e della promessa di una liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi.
I partenariati per la migrazione, invece, sono strumenti di cooperazione più ampi che vanno oltre la semplice riammissione e includono incentivi economici, supporto tecnico e altre forme di assistenza allo sviluppo. L’obiettivo di questi partenariati è convincere i Paesi terzi a gestire in modo più efficace i flussi migratori, prevenendo le partenze irregolari e garantendo il rimpatrio dei migranti. Il Migration Compact con i Paesi africani, ad esempio, in particolare il Niger, ha visto l’Unione Europea investire in progetti di sviluppo e formazione professionale per ridurre la pressione migratoria e offrire alternative economiche alle popolazioni locali.
Un altro meccanismo cruciale di esternalizzazione è il finanziamento europeo volto a rafforzare le capacità di controllo nei Paesi terzi. Attraverso programmi come il Trust Fund for Africa, l’Unione Europea finanzia la formazione e l’equipaggiamento delle forze di sicurezza locali per prevenire le partenze irregolari. Questi investimenti sono spesso finalizzati al miglioramento della sorveglianza delle frontiere e alla creazione di infrastrutture di detenzione. In Libia, l’Unione Europea ha finanziato la Guardia Costiera libica per intercettare i migranti nel Mediterraneo e riportarli nei centri di detenzione locali, spesso criticati per le loro condizioni disumane.
Il coinvolgimento diretto dell’Unione Europea nei controlli di frontiera nei Paesi terzi avviene attraverso le missioni Frontex e le operazioni di polizia congiunte. Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, collabora con le autorità locali per monitorare e contenere i flussi migratori, spesso attraverso operazioni di pattugliamento marittimo e terrestre, come nel caso dell’operazione Themis nel Mediterraneo, che ha previsto pattugliamenti navali per intercettare migranti e collaborare con le autorità italiane e tunisine per il controllo delle frontiere.
Infine, un ulteriore strumento dell’esternalizzazione è la creazione di centri di transito e trattenimento, noti anche come hotspot o centri di detenzione. Queste strutture sono destinate ad ospitare migranti in attesa di rimpatrio o di una valutazione delle loro richieste d’asilo. Spesso situati in Paesi di transito come la Libia o la Turchia, questi centri sono finanziati dall’Unione Europea ma gestiti dalle autorità locali. Gli hotspot sulle isole greche di Lesbo e Samos ne sono un esempio. Creati per trattenere i richiedenti asilo in attesa della loro identificazione e della decisione sulle loro domande, questi centri sono stati spesso criticati per le condizioni di sovraffollamento e la lentezza delle procedure.
Tra le numerose questioni giuridiche sollevate, le più discusse sono sicuramente: la conformità al principio di non-refoulement, che vieta il respingimento forzato di persone verso Paesi in cui potrebbero subire persecuzioni o trattamenti inumani; la responsabilità degli Stati per violazioni dei diritti umani, in particolare quando delegano il controllo delle migrazioni a Paesi con standard inferiori di tutela; la trasparenza e il monitoraggio delle pratiche adottate nei Paesi terzi, essenziali per prevenire abusi e garantire il rispetto delle normative internazionali.
Volendo fare un excursus storico, dal 2015, nel pieno della crisi migratoria siriana e dell’intensificarsi dei flussi attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, l’Europa ha adottato l’esternalizzazione delle frontiere come strategia principale per la gestione delle migrazioni. In quell’anno, la Commissione europea ha introdotto l’Agenda europea sulle migrazioni, prevedendo interventi diretti nelle regioni di origine e transito, tra cui il potenziamento delle capacità di gestione delle frontiere nei Paesi terzi. Questo approccio è stato ribadito nel piano d’azione adottato a novembre 2015 durante il vertice de La Valletta tra leader africani ed europei, che ha sancito l’impegno a rafforzare i controlli alle frontiere terrestri, marittime e aeree, anche attraverso finanziamenti specifici.
Il primo grande banco di prova di questa politica, come si è già accennato, è stato l’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia, siglato nel marzo 2016. In cambio di 6 miliardi di euro, Ankara si è impegnata a riaccogliere sul proprio territorio i migranti intercettati dalle autorità greche dopo l’attraversamento della frontiera, mentre Bruxelles si è impegnata ad accogliere un numero equivalente di rifugiati siriani presenti in Turchia. L’intesa prevedeva inoltre un’accelerazione del processo di integrazione della Turchia nell’Unione Europea. Secondo la Commissione, l’accordo avrebbe ridotto del 94% gli ingressi irregolari dalla Turchia, tuttavia sono emerse numerose critiche: diverse organizzazioni internazionali, tra cui organi delle Nazioni Unite, hanno denunciato abusi da parte delle autorità turche sui rifugiati siriani, spesso deportati forzatamente in Siria con il rischio di violenze e persecuzioni. Inoltre, l’attuazione dell’accordo si è rivelata ben lontana dalle promesse: fino a gennaio 2024, solo 40.000 rifugiati sono stati ricollocati nei Paesi dell’Unione.
Nel febbraio del 2017 si aggiunge un altro tassello, il memorandum d’intesa Italia-Libia, concluso sotto il governo Gentiloni e con la mediazione del ministro dell’Interno Marco Minniti. L’intesa prevede il supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della gestione dell’immigrazione, il finanziamento dei centri di accoglienza e la formazione del personale locale. Nel 2018, il governo italiano ha inoltre ceduto gratuitamente 12 unità navali alla Libia per potenziare le operazioni di contrasto all’immigrazione irregolare. Anche in questo caso, diverse inchieste e rapporti internazionali, tra cui quelli dell’ONU, hanno documentato gravi violazioni dei diritti umani da parte della guardia costiera libica, inclusi abusi nei centri di detenzione e l’uso di violenza estrema contro migranti e rifugiati. Nonostante queste criticità, l’accordo è stato rinnovato nel 2022 per altri cinque anni.
Con la vittoria del centrodestra alle elezioni del 2022, l’Italia ha dato ulteriore impulso alle politiche di esternalizzazione. Nel luglio 2023, la Commissione europea ha siglato un memorandum d’intesa con la Tunisia, fortemente voluto dalla premier Giorgia Meloni, che prevede 150 milioni di euro a sostegno del bilancio tunisino e 105 milioni per la gestione delle frontiere. L’intesa ha sollevato polemiche, sia tra alcuni governi europei esclusi dai negoziati sia all’interno delle istituzioni comunitarie. A ottobre 2023, il Mediatore europeo ha denunciato l’assenza di una valutazione d’impatto indipendente sui diritti umani prima della firma dell’accordo. Nel frattempo, le Nazioni Unite continuano a segnalare arresti arbitrari, deportazioni forzate e violenze sessuali contro migranti in Tunisia.
Tutti questi accordi, inclusa l’intesa con l’Egitto siglata nel marzo 2024 [3], sono stati stipulati sotto forma di memorandum d’intesa o dichiarazioni congiunte, anziché veri e propri trattati internazionali. Questo ha permesso di bypassare il Parlamento europeo e ridurre il dibattito pubblico, compromettendo la trasparenza. Inoltre, la gestione finanziaria di tali intese rimane poco chiara, con fondi provenienti da diverse voci di bilancio UE e da contributi volontari degli Stati membri, riducendo così il grado di responsabilità istituzionale [4] .
Negli ultimi anni, si sta esplorando una nuova forma di esternalizzazione: non solo delegare la gestione dei migranti ai Paesi di transito, ma trasferire direttamente coloro che arrivano in Europa verso Stati terzi, dove verrebbero esaminate le loro richieste d’asilo e, se necessario, avviate le procedure di espulsione. Questo modello è stato testato nel Regno Unito con il “piano Ruanda” del 2022, poi bocciato dalla Corte Suprema e successivamente abbandonato dal nuovo governo laburista di Keir Starmer. Tuttavia, secondo fonti giornalistiche, il Regno Unito starebbe valutando nuove intese simili con Turchia, Kurdistan iracheno e Vietnam. Un progetto simile è stato tentato dal governo Meloni con l’Albania, ma incontra ancora ostacoli legali e pratici. Nonostante le difficoltà, questo approccio sta attirando l’interesse della Commissione europea e di leader internazionali, tra cui Donald Trump, che starebbe valutando un piano per deportare i migranti irregolari dagli Stati Uniti verso il Ruanda.
3. Un’analisi giuridica degli accordi di cooperazione
Gli accordi di cooperazione possono assumere diverse forme: accordi formali tra Stati o tra l’Unione Europea e i Paesi terzi, che seguono procedure di ratifica parlamentare; memorandum d’intesa di natura non vincolante, che permettono maggiore flessibilità ma riducono il controllo giurisdizionale; intese operative tra forze di polizia e agenzie di sicurezza, spesso attuate in modo informale. In tutti questi casi, la qualificazione giuridica è essenziale per determinarne gli effetti e la possibilità di sindacato giurisdizionale.
Il principale problema giuridico legato all’approccio dell’Unione Europea è la mancanza di trasparenza e accountability nella gestione di questi accordi. Spesso, le istituzioni europee delegano l’attuazione delle misure a enti e governi esterni, rendendo difficile monitorare il rispetto degli standard internazionali. Ma la responsabilità internazionale degli Stati non può essere elusa attraverso la delega di funzioni a Paesi terzi, come ha chiarito la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La Corte di Giustizia dell’UE e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo hanno più volte evidenziato la necessità di un maggiore controllo giuridico su tali politiche per evitare violazioni dei diritti fondamentali.
Gli accordi frutto dei processi di esternalizzazione delle frontiere non possono e non devono legittimare misure di respingimento indiscriminato o di chiusura dei porti. Secondo il già citato principio di non refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra (art.33) «nessun respingimento alle frontiere senza accesso a procedure eque ed efficaci per determinare lo status e le esigenze di protezione». È dunque possibile individuare un contenuto minimo di natura procedurale del diritto d’asilo, che «prima ancora di imporre in capo agli Stati precisi obblighi materiali di tipo positivo in ordine alla concessione del beneficio, non consente loro comportamenti che possano costituire una limitazione della libertà di accesso alle procedure, a meno di non svuotare di significato la partecipazione alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati» [5]. Ciò comporta che la persona intercettata in prossimità della zona contigua alle acque territoriali debba avere accesso alle procedure nello Stato che ha effettuato l’intercettazione, poiché questo di solito consente sia l’accesso alle strutture di accoglienza, sia eque ed efficienti procedure d’asilo, nel rispetto degli standards garantiti dal diritto internazionale.
3.1 Casi studio: il Memorandum UE-Tunisia e il Memorandum Italia-Libia
Dal 1998, l’Italia ha stipulato una serie di accordi bilaterali con la Tunisia in materia di immigrazione, comprendenti clausole per la costruzione di centri di detenzione per migranti vicino al confine libico e il riconoscimento di quote di ingresso legale in cambio di una maggiore collaborazione nelle procedure di riammissione [6]. Tuttavia, negli ultimi anni si è cercato di perseguire una strategia più ampia a livello europeo, con risultati spesso insoddisfacenti e frammentati.
Nel luglio 2023, a Tunisi, è stato firmato il Memorandum d’Intesa tra l’Unione Europea e la Tunisia. L’accordo, sottoscritto dal Commissario europeo per il vicinato e l’allargamento Olivér Várhelyi e dal segretario generale del ministero degli Affari esteri tunisino Mounir Ben Rjiba, non ha visto però la firma diretta dei leader europei, segno delle difficoltà nel trovare una posizione condivisa tra gli Stati membri. Il Memorandum prevedeva una serie di partenariati operativi per il contrasto all’immigrazione irregolare, inclusa la cooperazione tra polizia e guardia costiera tunisina. Tuttavia, la sua attuazione è stata ostacolata dalla necessità di ulteriori accordi e interventi legislativi, sia a livello europeo che nazionale, a fronte di un rapido aumento degli arrivi dalla Tunisia e delle difficoltà economiche del Paese, vicino al default. Le divisioni tra gli Stati membri dell’Unione Europea sono emerse chiaramente nelle conclusioni del Consiglio informale dei ministri degli Esteri del 31 agosto 2023, portando di fatto al blocco dell’accordo. Anche il più ampio Patto europeo su asilo e immigrazione, varato nel 2020, e il successivo piano in dieci punti presentato dalla Commissione nel 2023 [7], con l’obiettivo di regolamentare le crisi migratorie, non hanno risolto le profonde fratture sulle politiche di gestione delle frontiere.
Uno degli aspetti più controversi del Memorandum UE-Tunisia riguarda l’impossibilità per l’Italia di ottenere il rimpatrio rapido dei migranti sub-sahariani giunti via Tunisia, un obiettivo prioritario per il governo italiano. La Tunisia, memore del fallimento umanitario del campo di transito di Choucha (2011-2013), ha imposto una clausola che esclude la possibilità di trasformare il Paese in una piattaforma di rimpatrio per l’UE. Parallelamente, l’Unione Europea ha promesso supporto ai respingimenti effettuati dalla Tunisia verso i confini con Libia e Algeria, formalmente conformi al diritto internazionale. Tuttavia, numerose organizzazioni per i diritti umani, incluse le Nazioni Unite, hanno sottolineato come la Tunisia non garantisca un accesso equo alle procedure di asilo, né il soggiorno legale per chi ha diritto alla protezione. Questo aspetto è stato confermato anche da sentenze italiane che escludono la Tunisia dalla categoria dei “Paesi terzi sicuri”.
Nel settembre 2023, la Tunisia ha vietato l’ingresso a una delegazione del Parlamento europeo e ha successivamente rifiutato i fondi previsti dal Memorandum, ritenendoli insufficienti e condizionati al rispetto dei diritti umani, un vincolo richiesto anche dal Fondo Monetario Internazionale. Il presidente tunisino Kais Saied ha rifiutato tali condizioni, bloccando di fatto l’attuazione dell’accordo e dimostrando la fragilità della cooperazione UE-Tunisia in materia migratoria [8].
Parallelamente, gli accordi bilaterali tra Italia e Libia hanno consolidato il ruolo della Guardia Costiera libica nel coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso (SAR) in acque internazionali, con il supporto operativo della Marina italiana. Tuttavia, questa strategia ha aumentato i respingimenti collettivi in mare aperto, con unità libiche che intercettano e riportano i migranti in Libia, dove sono soggetti a violenze e abusi da parte delle milizie e delle forze di polizia di frontiera, spesso composte da ex trafficanti.
La situazione in Libia è ulteriormente complicata dalla frammentazione del potere tra il governo di Tripoli e quello della Cirenaica. Le operazioni SAR libiche risultano disorganizzate e sovente non coprono l’intera area SAR autoproclamata. Le motovedette fornite dall’Italia operano fino a 90 miglia dalla costa, con episodi di violenza documentati anche contro pescherecci italiani. La regione SAR sotto il controllo di Haftar è diventata un hub strategico per i trafficanti, sostenuti dalle sue milizie, che intrattengono rapporti con la Russia e sono monitorate dai governi europei.
Numerosi rapporti delle Nazioni Unite denunciano la persistenza di corruzione e violenze nei centri di detenzione libici. La sentenza del Tribunale di Messina del 28 maggio 2020 ha evidenziato come le strutture di detenzione tra Sabratha e Zawia siano gestite da milizie coinvolte nel traffico di esseri umani, operanti con il supporto della Guardia Costiera libica, fornita di mezzi dall’Italia nell’ambito della missione Mare Sicuro. Un’inchiesta giudiziaria italiana ha accertato che un’organizzazione criminale a Zawia sequestra migranti, li sottopone a torture e richiede riscatti per permettere loro di proseguire il viaggio verso l’Europa.
Dal punto di vista giuridico, l’accordo bilaterale Italia-Libia del 2017, che riprende i precedenti trattati del 2007 e 2008, dovrebbe considerarsi nullo ai sensi dell’articolo 61 della Convenzione di Vienna sui trattati, poiché le condizioni originarie sono mutate in modo irreversibile. Le disposizioni che affidano la gestione delle operazioni SAR alla Guardia Costiera libica si sono rivelate inattuabili, con un numero crescente di naufragi non soccorsi. Inoltre, la sentenza del giudice delle indagini preliminari di Trapani nel caso Vos Thalassa (luglio 2018) ha dichiarato che il Memorandum Italia-Libia è contrario al principio di non-refoulement, sancito come norma di diritto internazionale cogente.
L’assenza di un controllo giurisdizionale sull’attuazione di tali accordi solleva ulteriori preoccupazioni in relazione al principio di legalità e alla tutela dei diritti umani. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte ribadito, in casi come Hirsi Jamaa c. Italia (2012), che i respingimenti collettivi costituiscono una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Pertanto, il rinnovo sistematico degli accordi con Libia e Tunisia, senza un effettivo monitoraggio indipendente, appare in contrasto con gli obblighi internazionali dell’Italia e dell’UE in materia di protezione dei rifugiati e richiedenti asilo.
3.2 Il Protocollo Italia-Albania
Il 6 novembre 2023, la Presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, e il Primo Ministro albanese, Edi Rama, hanno annunciato un accordo internazionale volto alla gestione dei flussi migratori. Tuttavia, la mancata consultazione preventiva del Parlamento italiano e delle istituzioni europee ha sollevato critiche riguardo alla trasparenza del processo negoziale. Tale intesa prevede la costruzione in Albania di due centri per la gestione dei migranti sotto la supervisione italiana, destinati ad ospitare fino a 3.000 richiedenti asilo soccorsi in mare dalle navi militari italiane: uno a Shengjin, destinato alla procedura di identificazione e accoglienza, e uno a Gjader, destinato ai rimpatri. Il centro di Gjader ospiterà i migranti privi dei requisiti per l’asilo, i quali potranno comunque presentare ricorso prima dell’espulsione. Il progetto prevede una capacità di 880 posti per la valutazione delle richieste di protezione e 144 per la detenzione in attesa del rimpatrio. La Prefettura di Roma ha avviato il bando per la gestione dei centri il 21 marzo 2024, con una previsione di spesa iniziale di 16,5 milioni di euro, destinata a raggiungere gli 82 milioni nei primi cinque anni, con un fondo di garanzia di 100 milioni di euro. Tuttavia, la Ragioneria Generale dello Stato ha evidenziato criticità infrastrutturali nelle aree individuate, tra cui la mancanza di fognature e problemi nell’approvvigionamento idrico ed elettrico.
Le stime per la realizzazione delle strutture indicano un costo iniziale superiore a 300 milioni di euro, con una spesa complessiva di circa 726 milioni di euro in dieci anni, a causa di necessità infrastrutturali e gestionali impreviste. Queste cifre sollevano interrogativi sulla sostenibilità economica dell’intero progetto, specialmente in un periodo di ristrettezze di bilancio a livello europeo.
Uno degli aspetti più controversi riguarda la legittimità dell’esternalizzazione delle procedure di asilo, un tema che, come stiamo riscontrando, è di crescente rilevanza nel panorama europeo. Il Protocollo stabilisce che l’Italia mantenga piena giurisdizione sulle strutture in Albania, ma la Corte Costituzionale albanese ha sottolineato il principio della doppia giurisdizione, generando incertezze sulla compatibilità dell’accordo con le normative internazionali. L’UNHCR ha inoltre evidenziato che, secondo il diritto internazionale, le richieste di asilo devono essere valutate dal Paese di arrivo, sollevando dubbi sulla compatibilità del Protocollo con il principio di non respingimento sancito dalla Convenzione di Ginevra. Le autorità italiane, tuttavia, affermano che il Protocollo rispetta le normative, differenziandosi dall’accordo Regno Unito-Ruanda, in quanto le domande di asilo saranno esaminate da funzionari italiani secondo il diritto italiano ed europeo.
Dal punto di vista giuridico, il Protocollo Italia-Albania solleva numerose questioni critiche. In primo luogo, l’esternalizzazione delle procedure di asilo rischia di violare l’articolo 18 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che garantisce il diritto di asilo nel rispetto della Convenzione di Ginevra. La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha più volte ribadito il principio di non refoulement, che vieta il trasferimento forzato di migranti verso Paesi dove potrebbero subire trattamenti inumani o degradanti. L’assenza di una valutazione individuale prima del trasferimento potrebbe configurare una violazione dell’articolo 3 della CEDU, che proibisce la tortura e i trattamenti disumani.
Un ulteriore nodo giuridico riguarda la natura giurisdizionale delle strutture italiane in Albania. La duplice giurisdizione sancita dalla Corte Costituzionale albanese crea un conflitto normativo tra la legislazione italiana e quella albanese, rendendo incerta l’effettiva applicazione delle garanzie legali per i migranti. Questo solleva interrogativi sull’accesso alla giustizia e sui rimedi giuridici disponibili per i richiedenti asilo, che potrebbero trovarsi in una sorta di limbo giuridico, senza chiari riferimenti normativi. Inoltre, la detenzione dei migranti in Albania potrebbe essere contraria all’articolo 5 della CEDU, che stabilisce il diritto alla libertà e alla sicurezza, imponendo che qualsiasi forma di detenzione sia basata su decisioni giudiziarie motivate e soggette a riesame periodico. La possibilità che i migranti vengano trattenuti in strutture offshore senza un adeguato controllo giurisdizionale rappresenta un rischio concreto di detenzione arbitraria.
Infine, la questione del rimpatrio dei migranti respinti resta irrisolta. L’Unione Europea ha accordi di riammissione con un numero limitato di Paesi e, attualmente, l’Italia riesce a rimpatriare solo una piccola percentuale di migranti irregolari. Questo potrebbe portare a situazioni in cui i migranti rimangono in Albania per periodi prolungati, in condizioni di incertezza legale e sociale, contravvenendo agli standard internazionali di protezione dei rifugiati.
In conclusione, ancora una volta, il Protocollo Italia-Albania, così come tutti gli accordi di esternalizzazione delle frontiere, pone interrogativi sulla sua conformità ai principi di diritto internazionale e alle normative europee. Pur configurandosi come una strategia innovativa di gestione dei flussi migratori, le criticità operative, economiche e giuridiche sollevano dubbi sulla sua effettiva efficacia e sostenibilità. Una gestione più inclusiva e sostenibile dei flussi migratori richiederebbe soluzioni che rispettino pienamente i diritti fondamentali e favoriscano politiche migratorie più equilibrate e umane.
4. Conclusioni e prospettive future
Come emerso lungo l’intero contributo, l’esternalizzazione delle frontiere e la stipula di accordi con Paesi terzi rappresentano strumenti funzionali a precise esigenze politiche e strategiche di contenimento dei flussi migratori. Tuttavia, tali strumenti sollevano rilevanti criticità sotto il profilo giuridico e umanitario. L’opacità delle procedure negoziali e la scarsa tracciabilità nell’attuazione di tali accordi rendono difficile il controllo sul rispetto dei diritti fondamentali nei Paesi di origine e di transito, mettendo seriamente in discussione la loro compatibilità con il diritto internazionale e con l’ordinamento dell’Unione Europea.
Tra le criticità più gravi si annoverano il concreto rischio di violazione del principio di non-refoulement, la compromissione dell’accesso alla giustizia per i migranti respinti e la sistematica delega di responsabilità a Stati che non offrono garanzie minime di tutela e protezione. Tali dinamiche impongono una profonda revisione del paradigma di governance migratoria, che dovrebbe fondarsi su un equilibrio tra esigenze di sicurezza e obblighi di tutela, anziché su politiche di deterrenza e subappalto della gestione delle migrazioni.
Per rendere tali accordi più legittimi ed efficaci, è imprescindibile garantire trasparenza decisionale, rafforzando i meccanismi democratici di controllo e revisione, sia a livello nazionale che europeo. L’Unione Europea e i suoi Stati membri dovrebbero vincolare la validità di tali strumenti al vaglio parlamentare e alla predisposizione di meccanismi indipendenti di monitoraggio dei diritti umani nei Paesi partner. Parallelamente, si impone la necessità di ampliare le vie di accesso legale all’Europa, attraverso programmi di reinsediamento e corridoi umanitari, così da ridurre la dipendenza da rotte migratorie irregolari e pericolose. È altresì urgente sviluppare una cooperazione internazionale basata su responsabilità condivise, coinvolgendo attori come la società civile e le organizzazioni internazionali nella costruzione di un sistema migratorio realmente sostenibile e rispettoso della dignità umana. Senza una riforma strutturale dell’approccio europeo alla gestione dei fenomeni migratori, l’esternalizzazione continuerà a produrre effetti disfunzionali, configurandosi come una soluzione solo apparente ma gravida di conseguenze giuridiche e umanitarie.
Se l’Unione Europea e i suoi Stati membri impiegano risorse finanziarie, politiche e militari con l’obiettivo di istituzionalizzare un modello di esternalizzazione del controllo delle frontiere e dei rifugiati, tale strategia si traduce nella creazione di un “vuoto di tutela giuridica” per migranti e richiedenti asilo (anche potenziali). Questi ultimi, di fatto, vedono preclusa la possibilità di accedere a un territorio che sia legalmente e sostanzialmente sicuro. La conseguenza, lucidamente pianificata dalle istituzioni europee, è la sottrazione della loro condizione giuridica a qualsiasi controllo giurisdizionale, esponendola invece alla discrezionalità di Stati o fazioni in conflitto. Questo obiettivo sta già producendo effetti tangibili e richiederebbe risposte politiche adeguate, piuttosto che retoriche dichiarazioni di adesione ai diritti fondamentali e alla lotta contro il traffico di esseri umani, le quali si scontrano con pratiche sistematicamente disumane e degradanti osservabili nei centri di detenzione e accoglienza in Libia, Ciad, Niger, Sudan e altri luoghi.
Non può costituire giustificazione a tale politica la distinzione artificiosa tra migranti economici e rifugiati politici, o tra migranti regolari e irregolari. Queste classificazioni si basano su criteri autoreferenziali, che derivano dalla conformità a norme stabilite dagli Stati europei di destinazione, senza alcuna considerazione per le reali motivazioni che spingono le persone a migrare, affrontando trattamenti inumani e rischi di morte. Qualunque sia la distinzione operata, resta imprescindibile il principio dell’unicità della persona umana e il rispetto che le è dovuto, come sancito dalle principali convenzioni internazionali [9], le quali vengono palesemente violate dalle politiche di esternalizzazione.
Di fronte a questo scenario, risulta necessario indagare le responsabilità giuridiche dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri, qualora le loro politiche abbiano determinato o favorito violazioni dei diritti umani in violazione delle norme internazionali. Eludere tale analisi significa accettare il mantenimento di un sistema che priva migranti e richiedenti asilo di tutela giuridica. È evidente che Stati come la Libia, il Niger o il Sudan, non avendo ratificato le principali convenzioni internazionali in materia di diritti umani e dei rifugiati, non subiranno conseguenze legali per le loro gravi violazioni. Tuttavia, non è altrettanto chiaro se la stessa impunità debba essere concessa all’Unione Europea e ai suoi Stati membri, qualora questi, con piena consapevolezza, abbiano agevolato direttamente o indirettamente tali violazioni.
Infatti, l’Italia e l’Unione Europea, essendo a conoscenza delle atrocità perpetrate contro i migranti in Libia, Turchia, Egitto, Sudan, Niger e altri Paesi, potrebbero essere ritenute giuridicamente responsabili nel caso in cui abbiano contribuito, anche solo indirettamente, a tali violazioni. L’analisi di questa responsabilità deve fondarsi sulle norme del diritto internazionale, sia consuetudinario sia pattizio, data l’inefficacia delle normative europee e statali nel contrastare simili fenomeni. Al contrario, le politiche di esternalizzazione mirano a deresponsabilizzare i governi europei, dissociando la violazione dei diritti umani dal loro diretto operato e delegandola a Stati terzi. Tuttavia, in un sistema democratico non può esistere un potere privo di responsabilità: l’individuazione degli strumenti giuridici per accertare tali responsabilità è un dovere delle democrazie.
L’esternalizzazione del controllo delle frontiere rischia di configurarsi come un vero e proprio “appalto a terzi” per la gestione di attività lesive dei diritti umani. A differenza delle esternalizzazioni produttive, in cui sono coinvolte multinazionali, in questo caso sono gli Stati a delegare atti illeciti, nonostante siano soggetti a obblighi di diritto internazionale. In particolare, per l’Italia, gli articoli 10 e 117 della Costituzione impongono il rispetto del diritto internazionale, rendendo inaccettabile la deresponsabilizzazione delle proprie azioni attraverso accordi con Paesi terzi [10].
Il fondamento della responsabilità giuridica dello Stato di destinazione (come nel caso dell’Italia) rispetto a un danno subito da una persona straniera, in conseguenza di respingimenti o detenzioni attuati da uno Stato di transito (come la Libia), può costituire titolo per radicare la giurisdizione della Corte EDU. Tale responsabilità sussiste allorquando lo Stato europeo abbia agito con consapevolezza, seppure indiretta, delle violazioni perpetrate, a condizione che vi sia un nesso causale tra l’azione (o l’omissione) dello Stato membro del Consiglio d’Europa e le violazioni commesse altrove. Il fondamento giuridico risiede nei principi del diritto internazionale, in particolare nel principio di non-refoulement e nei criteri che regolano la responsabilità di uno Stato per illeciti commessi da altri Stati, qualora vi sia un coinvolgimento, anche solo indiretto, del primo.
Tale impostazione si estende anche a situazioni in cui non vi sia stato un respingimento fisico, ma in cui la persona sia rimasta bloccata in un Paese di transito e lì abbia subìto un danno secondo il diritto internazionale. Di nuovo, il principio di non-refoulement sancisce il divieto di espulsione verso uno Stato in cui lo straniero rischi torture o trattamenti inumani o degradanti, e gli artt. 4 e 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE rafforzano ulteriormente tale protezione. Il principio costituisce il perno di ogni sistema di protezione internazionale, estendendosi anche a persone che non rientrino tecnicamente nella definizione di rifugiato ma che rischino comunque trattamenti lesivi nei Paesi di provenienza. La sua portata extraterritoriale è ormai acquisita: esso si applica non solo in caso di respingimenti diretti, ma anche nei cosiddetti “respingimenti a catena” verso Paesi che a loro volta trasferiscono la persona in Stati dove rischia gravi violazioni. L’espressione “in nessun modo” dell’art. 33 della Convenzione di Ginevra è rivelatrice di tale estensione, che trova conferma nelle altre norme internazionali richiamate [11].
È quindi necessario superare l’approccio formale della “giurisdizione territoriale” e valorizzare il criterio del “controllo effettivo” o dell’“assistenza consapevole”, come ribadito da sentenze significative della Corte EDU. In presenza di aiuti o supporto a Stati che violano sistematicamente i diritti umani, la responsabilità dello Stato europeo può configurarsi anche extra territorialmente. La Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite ha chiarito che uno Stato è responsabile quando fornisce assistenza consapevole a un altro Stato nell’esecuzione di un atto illecito.
La giurisprudenza recente e l’evoluzione del diritto internazionale indicano chiaramente che la responsabilità condivisa, l’assistenza materiale e la consapevolezza delle violazioni altrui sono elementi sufficienti per attribuire responsabilità giuridica anche a Stati non direttamente esecutori. La Corte EDU stessa ha affermato che i diritti enunciati nella Convenzione vanno interpretati alla luce dell’evoluzione del diritto internazionale e del principio dell’effettività. Ciò vale soprattutto nei casi in cui le violazioni non potrebbero verificarsi senza il sostegno logistico, economico o politico di uno Stato membro dell’Unione Europea.
L’applicazione extraterritoriale della Convenzione, in presenza di prassi sistematiche e di controllo politico o logistico, risponde all’esigenza di non lasciare impunite gravi violazioni dei diritti fondamentali commesse grazie all’intermediazione complice di Stati formalmente estranei ma sostanzialmente coinvolti. In tal senso, il principio di complicità, sancito dall’art. 16 del progetto ARSIWA dell’ONU, diviene centrale per attribuire responsabilità agli Stati membri dell’Unione per l’assistenza a violazioni compiute da Stati terzi non aderenti alla CEDU.
Questa prospettiva impone una lettura evolutiva e non formalistica della nozione di giurisdizione, come richiesto anche dalla funzione vivente della Convenzione. Solo attraverso un tale adattamento interpretativo è possibile garantire giustizia a coloro che, pur non essendo fisicamente presenti sul territorio europeo, subiscono gravi danni a causa delle politiche europee. L’impunità non può essere il prezzo della delega: in un sistema democratico fondato sul diritto, la responsabilità deve seguire la capacità di determinare o agevolare atti contrari ai diritti umani.
In ultimo, l’esternalizzazione delle frontiere non può essere l’unica risposta a un fenomeno strutturale che riguarda sia la demografia sia l’equilibrio economico globale. L’Europa, oggi un’area ricca ma demograficamente stagnante, si trova in una condizione simile a quella dell’Impero Romano nel III secolo, quando l’editto di Caracalla del 212 d.C. concesse la cittadinanza a tutti gli abitanti liberi dell’Impero, un atto che può essere letto come un tentativo di integrare le popolazioni esterne per rafforzare la struttura sociale e fiscale dell’Impero stesso.
Oggi dovremmo trarre ispirazione da questa esperienza storica per pensare ad una politica migratoria più programmata e aperta, ma anche più controllata, che non si limiti a contenere i flussi ma li indirizzi in un’ottica di sviluppo reciproco. L’Africa, con la sua crescita demografica e la ricchezza di risorse naturali, non deve essere vista come un “problema” da gestire, bensì come un’opportunità: investire nello sviluppo africano significa non solo ridurre le spinte migratorie forzate, ma anche costruire un sistema economico più equilibrato, in cui le due sponde del Mediterraneo possano crescere insieme.
Autori come Stephen Smith [12] (La Ruée vers l’Europe), Paul Collier [13] (Exodus: How Migration is Changing Our World) e Saskia Sassen [14] (Expulsions: Brutality and Complexity in the Global Economy) hanno analizzato le dinamiche migratorie e le loro implicazioni a lungo termine, sottolineando come una gestione più lungimirante dei flussi possa portare benefici reciproci. Inoltre, il pensiero di Amartya Sen [15] sull’importanza dello sviluppo come libertà offre una chiave di lettura per concepire la cooperazione euro-africana non come mera assistenza, ma come un investimento strategico per il futuro.
L’Europa può dunque rispondere all’attuale scenario con un approccio più sofisticato e meno emergenziale: controllare meglio i flussi, ma anche programmare un’integrazione strutturata; contenere quando necessario, ma soprattutto creare le condizioni affinché il partenariato con l’Africa generi sviluppo e stabilità, ponendo le basi per un futuro condiviso.
Dialoghi Mediterranei, n.73, maggio 2025
Note
[1] Il trattato non si applica ai rifugiati o richiedenti asilo.
[2] Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, L’esternalizzazione delle frontiere e della gestione dei migranti: politiche migratorie dell’Unione Europea ed effetti giuridici, dicembre 2019, https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2020/01/2020_1_Documento-Asgi-esternalizzazione.pdf (consultato il 26/02/2025).
[3] La Commissione Ue ha stanziato 7,4 miliardi di euro in 3 anni (2024-2027) da erogare a vario titolo. Di questi, 200 milioni di euro andranno a sovvenzioni per la gestione delle migrazioni (sicurezza ai confini, formazione di manodopera qualificata, misure per favorire la migrazione legale e scoraggiare quella illegale).
[4] VALENTI P., Esternalizzazione delle frontiere: cos’è e come (non) funziona la strategia europea per fermare i migranti, Rivista Lavialibera, n. 30, novembre 2024, https://lavialibera.it/it-schede-2071-esternalizzazione_frontiere_migranti_europa_diritti (consultato il 26/02/2025).
[5] PALEOLOGO F. V., Esternalizzazione delle frontiere e accordi contro i diritti umani, ADIF, 14 Dicembre 2023, https://www.a-dif.org/2023/12/14/esternalizzazione-delle-frontiere-e-accordi-contro-i-diritti-umani/ (consultato il 26/02/2025).
[6] PAOLETTI E., Migration Agreements between Italy and North Africa, Middle East Institute, 20 dicembre 2012, https://www.mei.edu/publications/migration-agreements-between-italy-and-north-africa-domestic-imperatives-versus (consultato il 13/03/2025).
[7] CAMILLI A., Il nuovo Patto europeo sui migranti non è una vittoria per l’Italia, Internazionale, 6 ottobre 2023, https://www.internazionale.it/opinione/annalisa-camilli/2023/10/06/accordo-europeo-sui-migranti (consultato il 13/03/2025).
[8] PALEOLOGO F. V., Esternalizzazione delle frontiere e accordi contro i diritti umani, ADIF, 14 Dicembre 2023, https://www.a-dif.org/2023/12/14/esternalizzazione-delle-frontiere-e-accordi-contro-i-diritti-umani/ (consultato il 26/02/2025).
[9] Tra essi, la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, il Patto internazionale sui diritti civili e politici di New York del 1966, il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione del 1966, la Convenzione internazionale contro la tortura ed altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti, la Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo di Roma del 1950. Occorre poi ricordare pure il diritto fondamentale alla libertà dalla fame, garantito dall’art. 11 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, per effetto di una situazione generale di insicurezza alimentare acuta o di fame cronica in atto, attestata dai rapporti di organizzazioni internazionali (FAO o Programma alimentare mondiale).
[10] CARELLA G., Il sonno della ragione genera politiche migratorie, in SIDIBlog, http://www.sidiblog.org/2017/09/11/il-sonno-della-ragione-genera-politiche-migratorie/ (consultato il 19/03/2025).
[11] Tra cui primeggiano sia l’art. 3 della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti del 1984, sia art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955 n. 848.
[12] Stephen Smith si è occupato di Africa per Libération (1988-2000) e poi per Le Monde (2000-2005). Ha lavorato come analista per le Nazioni Unite e L’International Crisis Group.
[13] Paul Collier è un economista britannico dello sviluppo. Nel 2010 e nel 2011, è stato nominato dalla rivista Foreign Policy come uno dei migliori pensatori globali.
[14] Saskia Sassen è una sociologa ed economista statunitense nota per le sue analisi sulla globalizzazione e i processi transnazionali.
[15] Amartya Kumar Sen è un economista e filosofo indiano, Premio Nobel per l’economia nel 1998.
Sitografia
Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, L’esternalizzazione delle frontiere e della gestione dei migranti: politiche migratorie dell’Unione Europea ed effetti giuridici, dicembre 2019, https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2020/01/2020_1_Documento-Asgi-esternalizzazione.pdf.
CAMILLI A., Il nuovo Patto europeo sui migranti non è una vittoria per l’Italia, Internazionale, 6 ottobre 2023, https://www.internazionale.it/opinione/annalisa-camilli/2023/10/06/accordo-europeo-sui-migranti.
CARELLA G., Il sonno della ragione genera politiche migratorie, in SIDIBlog, http://www.sidiblog.org/2017/09/11/il-sonno-della-ragione-genera-politiche-migratorie/.
PALEOLOGO F. V., Esternalizzazione delle frontiere e accordi contro i diritti umani, ADIF, 14 Dicembre 2023, https://www.a-dif.org/2023/12/14/esternalizzazione-delle-frontiere-e-accordi-contro-i-diritti-umani/.
PAOLETTI E., Migration Agreements between Italy and North Africa, Middle East Institute, 20 dicembre 2012, https://www.mei.edu/publications/migration-agreements-between-italy-and-north-africa-domestic-imperatives-versus.
VALENTI P., Esternalizzazione delle frontiere: cos’è e come (non) funziona la strategia europea per fermare i migranti, Rivista Lavialibera, n. 30, novembre 2024, https://lavialibera.it/it-schede-2071-esternalizzazione_frontiere_migranti_europa_diritti.
______________________________________________________________
Stefania Di Giorgi, dopo essersi laureata in Mediazione Linguistica e Culturale, ha vissuto tra Marocco ed Egitto, dove ha approfondito le sue conoscenze linguistiche arabe e, contemporaneamente, ha insegnato italiano a stranieri in una scuola privata ad Alessandria d’Egitto. Successivamente, si è laureata al corso di Laurea Magistrale in Diritti dell’Uomo, delle Migrazioni e della Cooperazione Internazionale e nel contempo ha intrapreso la carriera di collaboratrice parlamentare. Attualmente, oltre a proseguire la sua carriera professionale, frequenta un Master di II livello in Economia, Diritto ed Intercultura delle Migrazioni presso l’Università di Roma Tor Vergata.
______________________________________________________________
