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P. Natale Cardenas gesuita mazarese e le origini settecentesche del Festino di San Vito

 copertinadi Giovanni Isgrò

Non si può comprendere la straordinaria spettacolarità urbana che caratterizza la storia del Festino di San Vito a Mazara senza conoscere la passione religiosa e il talento artistico che distinsero la personalità del padre gesuita mazarese Natale Cardenas (1686-1754). A lui si deve l’ideazione e la realizzazione di un eccezionale evento in onore del Santo Patrono nella ricorrenza canonica della festa di metà giugno del 1728, ancor prima, cioè, che iniziasse la tradizione del Festino dell’ultima settimana di agosto, legata all’ingresso delle reliquie di San Vito a Mazara ad opera del Vescovo Giuseppe Stella nel 1743.

Quell’evento fu paragonabile per magnificenza a quelli attuati non soltanto a Palermo, ma anche nei centri urbani europei nei quali la Compagnia di Gesù si trovò ad operare. La ricchezza dei costumi, la perizia artigianale riscontrabile nei manufatti e nell’attrezzeria, la sapiente messa in opera delle macchine sceniche fisse e in movimento alla quale dovettero collaborare maestranze provenienti da altri centri-simbolo del teatro festivo urbano, in particolare Palermo, il policentrismo dell’azione teatrale en plein air lasciano pensare ad un impegno economico, logistico e artistico unico nella storia mazarese, e certamente al di fuori del comune,  che poté essere sostenuto da uno o più esponenti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia locali. In questo senso è verisimile che il grande promotore non poté non essere don Pietro Burgio, duca di Villafiorita, al quale non a caso p. Cardenas dedicò il ragguaglio della manifestazione itinerante del 1728 che egli intitolò La Fede Trionfante ne’ martiri invitti dell’inclita città di Mazara [1].

1aIl ruolo di questo alto esponente dell’aristocrazia mazarese (e non solo) si lega infatti al prestigio che il suo casato vide crescere proprio in quegli anni con l’assunzione del titolo di duca da parte di Nicola Burgio nel 1710, e quindi dal suo successore Pietro, appunto, nel 1720. Fra i nomi di altri benefattori laici si possono indicare don Francesco Milo e don Girolamo Sanzone, citati nell’introduzione al ragguaglio.

Il grande corteo processionale doveva comprendere alcune centinaia di personaggi storici e allegorici, a cavallo o/e a piedi nonché numerosi elementi praticabili mobili sui quali si rappresentavano scene figurate. Fra quelle di maggiore impatto spettacolare, particolare attenzione dovettero suscitare i quadri raffiguranti lo strazio dei 400 martiri cristiani, distribuiti su 17 piattaforme mobili, sulle quali erano collocati gli strumenti di tortura e i martiri così descritti nel ragguaglio dell’evento:

«Alcuni dei quali sventrati e stirati le budella in una rota; altri in una caldaia di zolfo e piombo bollente; altri lacerati con uncini e pettini di ferro; altri portati sotto la catasta; altri saettati; altri crocifissi; altri sbranati dalle fiere; altri mortificati da viperi ed aspidi; altri con lividure, piaghe e sangue flagellati; altri con denti strappati, con le lingue e la labra recise; altri con le giunture delle dita,  colle mani e braccia tagliate; altri feriti con accette e sciabole nella testa; altri trapassati con spade e coltelli nel collo; altri con canne aguzze nelle unghie delle mani e piedi; altri colle mammelle recise; altri scorticati, altri decapitati».

img271_page-0001Fra i carri, il più spettacolare dovette essere quello conclusivo raffigurante l’ascesa in cielo dei santi Vito, Modesto e Crescenza con vari angeli, allietato da suoni e canti, anche se il carro della Fede Trionfante, recante incatenata l’Idolatria, doveva essere di particolare effetto. Caratteristica non secondaria di questo spettacolo urbano fu l’interpretazione di quasi tutti i personaggi, compresi quelli a cavallo alla ricerca di Vito, non relegati al ruolo di semplici figuranti, bensì addestrati all’animazione scenica e, in alcuni casi, all’uso della parola secondo un copione regolarmente elaborato. In questo senso non si esclude, insieme all’impiego degli allievi del collegio gesuitico mazarese, anche quello di religiosi e di esponenti laici della città, ma anche l’intervento di interpreti provenienti da altri collegi gesuitici di centri relativamente vicini (probabilmente Marsala, Trapani, Salemi e Palermo) e di chierici addestrati alla recitazione.

Dovette trattarsi, in effetti, di uno scenario di portata eccezionale, anche sotto il profilo teatrale, che superò il livello della processione figurata che pure nei secoli a venire continuò ad avere importanti riscontri di pubblico. Né meno impegnative sotto il profilo scenografico dovettero essere le macchine alzate nei luoghi più significativi della città; fra questi, il piano di San Nicolò, il piano del Bagno, porta Palermo, il piano della Canea; e ancora, negli spazi antistanti i palazzi dei principali benefattori: il duca di Villafiorita, don Francesco Milo, don Girolamo Sanzone; e, per la parte religiosa, i canonici don Pietro Centorbi e don Leonardo Marchese. Altri luoghi di rispetto dove furono piazzate macchine sceniche furono quelli antistanti la Cattedrale, i monasteri di San Michele, Santa Veneranda, Santa Caterina, il convento del Carmine e dei Padri Teresiani nonché il collegio dei Gesuiti. Le macchine, secondo l’uso della festa barocca, erano dispositivi con le superfici dipinte. Nel nostro caso raffiguravano le vicende esemplari della vita del Santo Patrono e dei santi Modesto e Crescenza fino alla passione, morte, e al gloria, oltre a immagini della Fede Trionfante e della cacciata dei demoni da parte degli angeli tutelari.

La testimonianza massima per impiego di artisti, performer, scenotecnici, costumisti, riscontrabile nella festa di San Vito del 1728, lasciò indubbiamente la traccia di una forma di teatro storico-allegorico itinerante che, come si è visto, portò al consolidarsi di una tradizione che, sia pure in forme più contenute, sarebbe stata seguita per secoli. Al tempo stesso, creò le premesse per la progressiva maturazione di un percorso fatto di esperienze didattiche e formative sul campo, di riflessioni teoriche e ricerche storiche, di approfondimenti di studi teologici e filosofici che avrebbero portato p. Cardenas alla stesura della sua grande opera dedicata al Santo Patrono mazarese [2].

img269_page-0001Il 14 giugno del 1733, di fronte al lungo perdurare della siccità e al pericolo che la produzione del grano nelle campagne di Mazara fosse del tutto compromessa, dopo aver trattenuto per due mesi la statua del Santo nella chiesa del collegio, p. Cardenas organizzò una sontuosa processione ideale in costume divisa in tre cori, di angeli, di vergini e di martiri che egli diresse personalmente, seguita dalla Congregazione dei Maestri Artigiani della quale p. Cardenas stesso era tutore. La grande massa di devoti al seguito della processione dilagò per le vie dell’urbe invadendo in modo spettacolare l’interno delle chiese addobbate in grande pompa e dove lo stesso Cardenas conquistò la sacra scena con appassionatissime prediche: attore e corago al tempo stesso. Fra le chiese, particolarmente coinvolta fu quella del feudo Misserandrea di proprietà della Compagnia dove si attuò, in modo più rilevante che altrove, il miracolo della sopravvenuta abbondanza del raccolto.

Le particolari doti del nostro padre mazarese non sfuggirono ad uno dei maggiori missionari predicatori dell’epoca, p. Michelangelo Lentini, instancabile visitatore e animatore spirituale delle diverse realtà gesuitiche presenti in Sicilia. Dopo aver insegnato lettere e filosofia nel collegio di Mazara nel biennio 1733-34, e avere svolto negli stessi anni il ruolo di direttore della Congregazione degli Artigiani, tornatovi nel 1751 per tenere gli esercizi spirituali, p. Lentini non poté non apprezzare le novità del Festino di S. Vito organizzato da p. Cardenas in quello stesso anno:

«Era in Mazzara il P. Natale Cardenas Gesuita, devotissimo di S. Vito Martire, il quale impegnatissimo, perché la festa del Santo riuscisse pomposa; dal Servo di Dio si sentì suggerire, che non portasse, come gli altri anni, alla Chiesa di S. Michele, ove faceva la festa, la statua di S. Vito coperta, e velata dalla Chiesa, un miglio fuori di Città, ove stava ordinariamente, ma la facesse andare a prendere con le barche ben addobbate, e col suono di strumenti musicali, e che la barca più vagamente addobbata ricevesse la Statua del Santo, la quale arrivata a riva, si facesse passare su d’un ponte posticcio, e fosse ricevuta dalle mani del Magistrato, e Canonici della Cattedrale, collo sparo dei cannoni, e dei mortaretti, e col suono di tutte le campane. Piacque l’idea, e trovandosi presente il p. Lentini, quando si eseguì la prima volta, la funzione riuscì tenerissima. Sulla porta della Chiesa di S. Michele fu collocato il pulpito, ed entrata la Statua, al gran popolo, che stava dentro, e fuori della Chiesa il P. Lentini fece una fervorosissima predica» [3].

A p. Natale Cardenas va riconosciuto, dunque, il merito, fra gli altri, di aver dato avvio alla tradizione della processione di S. Vito a mare, che ancora oggi ha luogo, sia pure con modalità diverse, nello specchio marino antistante la città. E non è un caso che questa apertura dell’atto devozionale verso il mare abbia inizio in corrispondenza della nuova economia marinara che affiorò a Mazara anch’essa grazie al suggerimento imprenditoriale dei gesuiti, alla metà del Settecento, fino a superare, nel corso dell’Ottocento, quella prevalentemente rurale che aveva caratterizzato per secoli la vita della città.

Il ruolo di estensore dei ragguagli del Festino di S. Vito e di autore di progetti festivi svolto da p. Cardenas iniziato alla fine degli anni Venti, continuò fino al 1752. In quell’anno l’idea artistica del Festino che ebbe luogo dal 24 al 27 agosto fu illustrata dal nostro padre gesuita in una accurata relazione che egli firmò con lo pseudonimo Andrea de Castelan, anagramma del suo vero nome [4].

2-san-vito-incisione-a-stampaLa processione “ideale” fu caratterizzata dalla presenza di centinaia di figuranti riccamente vestiti, recanti simboli riguardanti la storia delle città più importanti della Sicilia. Seguivano i sette Vizi capitali accompagnati da personaggi che si distinsero in ciascuno di essi e quindi da nove Virtù. Chiudevano lo spettacolare corteo la città di Mazara e San Vito a cavallo con una schiera vittoriosa di angeli armati, a ricordo della difesa della città dall’assedio dei saraceni avvenuta nel 1440. Questi ultimi erano raffigurati a loro volta in tenuta da combattimento a testimonianza della storica sconfitta. Da ultimo sfilava il carro trionfale con i santi protettori Vito, Modesto e Crescenza. Alla sfilata prendevano parte, come da consuetudine gesuitica, gli allievi del collegio di Mazara coordinati dai padri del medesimo collegio, che a loro volta collaboravano all’ordinamento del corteo.

Particolare attenzione era rivolta da p. Cardenas alla costumistica e all’attrezzeria. Tra le figure regali, la Sicilia e Palermo si mostravano in grande pompa, mentre tutti gli altri personaggi-città recavano simboli che riguardavano le specificità storiche di ognuna di esse, a testimonianza della conoscenza gesuitica delle diverse realtà dell’Isola, favorita dall’articolata diffusione dei collegi in Sicilia. Le figurazioni dei vizi capitali e delle virtù, con la particolare cura delle componenti simboliche, a loro volta mostravano l’attitudine della Compagnia di Gesù ad estendere la tipologia e il numero dei personaggi da utilizzare nel loro teatro edificante e di rendere comprensibile il loro ruolo alla massa dei devoti spettatori disposta lungo il percorso del corteo. Le stesse schiere degli angeli e dei turchi in armi, oltre a riproporre la memoria della leggendaria vicenda epica locale di una terribile aggressione delle armate islamiche e il miracoloso intervento salvifico del Santo protettore, riproducevano in strada la pratica teatrale dei collegi gesuitici delle cosiddette “danze armate”, particolarmente gradite agli allievi ma anche al pubblico. In questo modo p. Cardenas si rivela testimonianza esemplare del mestiere scenico dei padri della Compagnia applicato, tuttavia, alla realtà mazarese di un collegio molto attivo ma non paragonabile per imponenza e articolazione architettonica a quello di Palermo e delle grandi città, dove spazi importanti al chiuso erano destinati al teatro.

Non essendo possibile, pertanto, realizzare al coperto le grandi messe in scena dell’inizio del nuovo anno scolastico quando le diverse classi guidate dai loro docenti di retorica esibivano il risultato del loro addestramento al teatro, p. Cardenas seppe tradurre questa consuetudine nella forma del teatro festivo itinerante, legandolo alla storia del territorio. Il che non vuol dire che p. Cardenas rinunciasse a mostrare le virtù dell’oratore orientabili alla pratica scenica. La sua biografia dei santi Vito, Modesto e Crescenza, sembra in questo senso un vero e proprio manuale illustrativo della tecnica dell’oratoria e della persuasione applicabile alla rappresentazione scenica.

Iniziata nel 1744, come si evince dal testo stesso, è un lavoro complesso che nella prima parte contiene un’ampia dissertazione sulla presunta appartenenza del territorio di Selinunte alla città di Mazara, al punto da riconoscere nella nostra città Selinunte stessa. Al di là di questo primo lungo capitolo, probabilmente considerato dall’autore come propedeutico alla conoscenza storica dell’identità della città natale di San Vito, la narrazione della vita del Santo patrono e di quella dei santi Modesto e Crescenza è una ricca testimonianza del mestiere pedagogico e catechetico dei padri della Compagnia di Gesù. Animata da considerazioni artistico-culturali e da puntualizzazioni storiche, l’opera è testimonianza di un’ampia ricerca di fonti documentarie e di articolate perlustrazioni nel territorio del continente italiano (e non solo), utili ad una ricostruzione della diffusione della devozione a San Vito nell’Isola e al di fuori dell’Isola. Il che consente anche la presenza di notizie storico-geografiche e di aggiornamenti bibliografici che offrono al lettore importanti squarci di conoscenza. Uno degli esempi più significativi in questo senso è offerto dalla descrizione dell’origine del culto di San Vito nel territorio di Venezia. 11402712_928858533820037_8557538301229807482_oL’autore si sofferma su quanto accadde nell’isola di Rugia, oggi conosciuta come isola degli Schiavoni, dal nome del popolo slavo che l’aveva occupata, dove monaci della abbazia di Corvey in Sassonia nell’anno 875 iniziarono l’opera di conversione diffondendo l’esempio della santità del giovane martire mazarese seguita dalla donazione di reliquie di San Vito da parte di San Venceslao. La fonte bibliografica che p. Cardenas utilizza relativamente a questa notizia, collegata al nome oggi quasi sconosciuto dell’isola di Rugia, è un’opera di Bonifacio Viezzeri edita nove anni prima dell’inizio della ricerca storica di p. Cardenas [5], a dimostrazione dell’accurato lavoro di aggiornamento del nostro gesuita e, di riflesso, della circolazione in tempo reale delle informazioni editoriali di cui godeva la Compagnia di Gesù e della loro diffusione nei suoi collegi.

Un capitolo importante dell’opera (II, 17) è dedicato alle prime traslazioni delle reliquie del Santo e in particolare della diffusione del culto in Puglia, a partire dall’approdo delle reliquie al porto di Mariano, vicino a Polignano a Mare, ancora oggi uno dei principali luoghi di culto di San Vito, nell’anno 672. Segue quindi un’accurata descrizione delle traslazioni di reliquie in Europa, dal monastero parigino di San Dionigi a quello di Corvey in Sassonia, fino a Praga e oltre. Altrettanto puntuale è l’individuazione delle reliquie conservate nelle città del continente italiano e in Sicilia. La descrizione delle chiese di Mazara, in particolare, ci offre un quadro dei luoghi depositari di reliquie del Santo patrono di particolare interesse storico, non più rispondente in alcuni casi, tuttavia, alla realtà di oggi. Altrettanto significativa è la rassegna dei miracoli attribuiti a San Vito a beneficio del popolo mazarese [6]. In particolare, fra gli altri, alcuni miracoli sono riportati come testimonianze dirette di p. Cardenas, come avvenne per l’invasione dei grilli che minacciarono il raccolto dell’uva nel 1722, e per la guarigione di un mazarese nel 1743 e ancora per la liberazione dal pericolo della peste nel 1744. L’ultima parte dell’opera comprende la traditio sull’appartenenza del Santo alla città di Mazara fino al testo integrale della richiesta dei giurati della città del 1714 rivolta al vescovo Marco La Cava, riguardante il riconoscimento di San Vito quale patrono della sua patria.

In questa sede vanno sottolineati due aspetti fra loro complementari del volume del nostro padre gesuita che mettono in evidenza la sua personalità e il suo ruolo. Da un lato c’è l’orientamento pedagogico e catechetico fondato sulla esemplarità davvero edificante della vita dei nostri santi, dall’altro l’attitudine alla teatralità che già abbiamo iniziato ad evidenziare nelle pagine precedenti come elemento centrale dell’azione educativa dei gesuiti. In questo senso è legittimo pensare anche ad un ampio uso interno dell’opera come testo destinato all’insegnamento degli allievi del collegio mazarese.

Plasmare l’allievo modello, fatto a immagine e somiglianza di Dio in uno spazio educativo privilegiato qual era il collegio, utilizzando il teatro, uno degli strumenti pedagogici di cui disponeva la Compagnia, era in effetti pratica fondamentale dei gesuiti. L’esercizio teatrale era un tramite visibile della disciplina corporis volto ad esaltare il controllo di anima e corpo ispirato dall’imitatio Christi, secondo la cultura della devotio moderna. E devozione, contemplazione, imitazione dei misteri di Cristo ne costituiscono i cardini, raccolti da sant’Ignazio negli Esercizi Spirituali. L’esercizio della rappresentazione serviva altresì a migliorare la capacità oratoria ed a coinvolgere le funzioni fisiche e psicologiche in un processo di continuo disciplinamento. In tal senso esso funzionava come plasmatore di personalità; affinava la sensibilità dell’allievo e favoriva l’interiorizzazione di valori e contenuti.

san-vito-xilograL’esemplarità di San Vito, che non a caso è stato argomento di numerosi drammi gesuitici europei sei-settecenteschi, è già nei primi capitoli della biografia contenuta nell’opera nei quali si descrivono i primi anni della sua vita dopo la morte della madre. L’intenzione apologetica è caratterizzata da un linguaggio semplice e descrittivo che esalta la bellezza interiore ma anche fisica del fanciullo, come espressione di una sintesi ideale fuori dal comune al punto da farlo apparire di natura divina. P. Cardenas non limita la descrizione dell’esemplarità del giovane Vito alle sue qualità morali e spirituali; ma va oltre dando indicazioni precise sul suo modo di incedere e di porgere lo sguardo.

«Mirate con che maestoso contegno e con qual gravità muove i suoi passi; con che maestria regola gli andamenti; come se gl’intronizza la serenità nella fronte, e la modestia nel volto; come si gli legge nell’esterna composizione de’sentimenti l’interna onestà sua verginale» [7].

È il riflesso della pratica diffusa nei collegi di tutto il mondo gesuitico nei quali l’insegnamento dell’ars rethorica comprendeva, oltre all’uso della parola, anche il portamento e l’atteggiamento. Il giovane allievo doveva infatti essere educato a mostrarsi alla società convincente nella dialettica, ma anche disinvolto nella gestualità e nell’uso del proprio corpo. Per questa ragione l’esercizio alla pratica teatrale destinato ai saggi di fine/inizio di anno scolastico era una componente fondamentale della disciplina oratoria. Non a caso fra i testi studiati dagli allievi dei corsi di retorica non mancavano gli scritti classici sull’arte oratoria: l’Institutio oratoria di Quintiliano e il De Oratore e l’Orator di Cicerone.

L’importanza e l’attualità di questa disciplina è confermata del resto dalla diffusione presso le biblioteche dei collegi anche di testi più recenti, in particolare quello del padre gesuita Francisco Lang, Dissertatio de actione scenica (Riedlin Vidux, Monaco 1727). In particolare a quest’ultimo si collegano proprio le indicazioni sopra riportate sul modo di porsi del giovane Vito come esempio da imitare anche negli esercizi destinati alla scena, dei quali, come si è visto, il nostro maestro/corago era particolarmente esperto.

Anche nel caso delle due guide spirituali del Santo, la descrizione delle loro virtù pedagogiche è complementare alla loro immagine. La descrizione della nutrice sembra illustrare il prodigio di una esemplare bellezza che l’autore paragona a quella dell’architettura di un tempio perfetto nella sua figurazione esterna ed interna. La figura di Modesto è a sua volta modello di cultura e di virtù morale che sono le fondamenta del metodo educativo della Compagnia di Gesù. Il mestiere dell’oratore in effetti è ben percettibile nel corso dell’opera, essendo essa frequentemente animata, come già abbiamo cominciato a vedere, da esternazioni rivolte direttamente al lettore/pubblico con interrogazioni spesso incalzanti. Così ad esempio a proposito della spiegazione del decalogo da parte di Modesto: «Stimate voi bene, che il mondo adori per suo Dio, e per vero Signore un bue, un tronco, un Saffo, un demonio? E che a queste creature sorde, cieche, impotenti e rubelli si pieghi ogni ginocchio umano signorile, e plebeo a porgere a loro voti? No direte voi: si onori e si adori un solo Dio, unico e vero signore»[8].

13L’orientamento “teatrale” di p. Cardenas, già percettibile anche in questa biografia del Santo nelle forme della relazione col pubblico ora evidenziate, si sviluppa nel corso dell’opera su tre livelli tra loro interrelati:

a) l’ambientazione scenica di molti momenti della narrazione e il movimento delle figurazioni soprattutto in forma ascensionale-discensionale, tipico delle rappresentazioni gesuitiche; e ancora l’attitudine alla spettacolarizzazione, in particolare nel caso della rappresentazione dei miracoli.

b) i dialoghi, espressi con tempi e caratteristiche rispondenti ai ritmi della recitazione.

c) gli espedienti scenici della predica ispirati anche dalla pratica missionaria.

Per quanto attiene il primo livello, la sequenza ricorrente è quella riguardante la presenza degli angeli nella vita del Santo, tale da determinare spettacolari collegamenti fra cielo e terra. Così è quando, nel momento dello sconforto di San Vito messo in carcere da Diocleziano, Gesù Cristo con la corte celeste scende a liberarlo dalle catene, intanto che «la terra tremò vertiginosa e si illustrò l’oscura carcere con risplenditissima luce»[9], per poi sollevarlo verso il cielo. Siamo in presenza, in questo caso, di una immagine ricorrente nel teatro gesuitico che fa uso di ingegni scenotecnici per la discesa e la risalita di personaggi celesti, ma anche per gli sprofondamenti di diavoli e peccatori nel baratro infernale. Le rappresentazioni teatrali di p. Stefano Tuccio, avviate con successo già nel Collegio Mamertino di Messina, costituiscono da questo punto di vista un riferimento importante, in particolare per quanto riguarda la messinscena del Christus Judex [10].

La mutazione scenica del carcere in Paradiso, una delle tante ricorrenti in questa biografia, è a sua volta tipica del teatro barocco, come pure il frequente intervento di “musiche deliziose”. È quanto accade anche nel corso di un’altra discesa degli angeli, questa volta nella stanza di Vito dove egli era tenuto rinchiuso dal padre Ila, circondato da donzelle tentatrici. Qui San Vito diventa a sua volta musico e cantore celeste, vero e proprio interprete di teatro musicale. In effetti la realtà della condizione di San Vito nella sua vita terrena stimolata alla fede dai suoi tutori e dalla frequente discesa degli angeli, trova sostegno nell’armonia di voci e musiche celesti presenti nel corso della narrazione; una sorta di commento sonoro all’azione descritta, che verosimilmente risponde all’addestramento scolastico del collegio destinato a potenziali esibizioni sceniche. Né sono da meno, nel movimento delle discese degli angeli, situazioni di spettacolarità estreme, come quella della presenza di dodici angeli alati che a Vito «parvero aquile di grandi ale di somma bellezza e di non mai veduto splendore»[11]. È il trionfo della luce come altro elemento frequente nelle messinscena del teatro gesuitico, unito a quello musicale di cui si è detto, e che trova riscontro anche negli effetti scenografici delle macchine delle Quarant’ore.

Il gioco visionario di p. Cardenas si evidenzia anche nelle immagini destinate alla condanna morale delle forme cultuali dei pagani. L’enfatizzazione delle loro pratiche peccaminose fa parte della tecnica censoria della Compagnia di Gesù che si avvale spesso della contrapposizione netta fra il male e il bene espressa nelle forme estreme. Così è nella spettacolare descrizione del rito pagano celebrato nella casa di Ila in onore di Venere:

«Sussurrando i sacerdoti con non so che di magiche parole, d’un fenestrino scendevano a volo nel tempio alcune colombe, così avvezze a prender cibo sopra l’altare di quel bugiardo nume; e queste allora eglino uccidendo, le sagrificavano, consummandole nelle fiamme, e preso prima di loro il di loro cuore, lo mettevano nel Turibolo insieme coll’incenso, ed altri odoriferi aromi, e prostrati colle ginocchia a terra, incensavano la Dea de’ profani amori: dopo citavano gli adoratori tutti intervenuti a quell’infernali cerimonie come uomini, come donne al sontuoso convito, in cui satollando l’ingordo ventre con delicati apparecchi, ed ottenebrando la mente con preziosi e gaiardi vini, ubriachi aveano ogni libertà d’operare a lor voglia, terminando quelle sagrificio infame con offerire a quell’idolo d’abbominazione ogni sorta di nefandità indegna di nominarsi tra noi cristiani»[12].

Truculenza, lascivia, impudicizia risaltano nelle efferatezze pagane di fronte alla riservatezza ed alla purezza del Santo che cerca dal maestro Modesto quella dottrina che è argomento delle lezioni scolastiche gesuitiche. L’acme spettacolare è raggiunto nelle sequenze dei tormenti patiti dai tre santi ordinati dall’imperatore Diocleziano. La descrizione dell’evento sembra confermare la potenzialità di un progetto scenico dell’autore, il quale, al fine di portare all’estremo dell’orrido lo strazio delle carni di Vito e compagni, impossibile da rappresentare al vero, sembrerebbe riservare questa descrizione alla voce di un narratore, mentre lo spettacolo del turbamento del cielo e della terra conseguenti all’esecuzione dei tormenti stessi richiama effetti ampiamente in uso nel teatro gesuitico.

bella-antica-stampa-popolare-devozionale_san-vito_decorativa-litografia-colorata-jpegbay-1La componente dell’opera di p. Cardenas che in ogni caso è decisiva per un accostamento diretto alla pratica teatrale è quella dell’uso del “dialogo”. Considerato dagli storiografi come la forma che dà avvio al teatro gesuitico, nato come esercitazione all’attività teatrale vera e propria, il dialogo costituisce l’addestramento di base per gli allievi dei collegi. Strumento didattico non soltanto in ambito catechetico e teologico, ma anche retorico in quanto esempio del come argomentare e comunicare una verità, il lavoro di p. Cardenas è in effetti un eccellente ausilio all’apprendimento dell’arte oratoria e della recitazione, e argomento drammaturgico esso stesso.

Le declamazioni, insieme alle rappresentazioni dei dialoghi, venivano del resto inserite nel curriculum formativo degli insegnamenti di umanità e retorica. I lunghi monologhi catechetici e le digressioni teologiche di Modesto e Crescenza, ma anche dello stesso Vito, sono brillanti orazioni evangelizzatrici, ricchi di passione retorica, in grado di trascinare potenziali platee e indurle alla devozione. Alternati ad essi, i numerosi dialoghi sono sempre caratterizzati da grande vivacità espressiva che richiede particolari capacità interpretative. Fra essi, quelli fra i tre santi, fra Vito e l’angelo, ma anche fra Vito ed Ila, fra Vito ed Artemide, e ancor più fra Vito e Diocleziano, sembrano essere stati concepiti per una rappresentazione teatrale. In particolare, la contrapposizione antagonistica fra il linguaggio dell’imperatore, violento e colorito, e quello del nostro Santo ispirato e fermo nella certezza della fede, sono un esempio di contrasto drammatico di forte cattura emozionale.

In questo senso Vito, padrone assoluto della propria libertà in nome della fede, è testimonianza esemplare della tipizzazione dell’eroe destinato a diventare espressione particolarmente significativa della proposta pedagogica dei Gesuiti nella sua configurazione di martire. Il personaggio di Vito dell’opera di p. Cardenas, esprimendo il momento più alto ed agonistico della santità, lascia intravedere così l’aspetto combattivo della spiritualità della Compagnia. Al tempo stesso il nostro padre gesuita nel concepire la tensione drammatica del contrasto martire/tiranno, mostra di aderire alle discussioni teoriche sostenute da eminenti esponenti dell’Ordine, come p. Pietro Sforza Pallavicino e p. Tarquinio Galluzzi, rivolte all’invenzione di un modello rinnovato di tragedia in grado di legare la tradizione classicistica con i principi etici del cattolicesimo riformato. Anche sul piano tecnico è evidente che la scrittura dell’opera di p. Cardenas è tutta orientata al dramma: dal ritmo serrato del dialogo al rispetto dei tempi teatrali. Le stesse descrizioni dei movimenti dei personaggi assomigliano a vere e proprie didascalie di scena.

gian-giacomo-adria-dagli-scritti-su-san-vitoPer assicurare maggiore forza drammatica alle sequenze relative a quanto accade presso la corte di Diocleziano, delle quali i dialoghi stessi costituiscono la componente portante, non a caso p. Cardenas cerca nel testo della tragedia La fragilità costante nel martirio de’ Santi Vito, Modesto e Crescenza opera tragi-sacra di Andrea Perrucci, come del resto il nostro gesuita dichiara, un appoggio drammaturgico estremamente efficace. Ciò è un’ulteriore conferma dell’aggiornamento culturale anche in campo teatrale di p. Cardenas che contribuì in questo modo, a sua volta, a diffondere in Sicilia, sia pure implicitamente, la conoscenza di un tragediografo che si occupò anche di mettere in scena le vicende esemplari di Vito, Modesto e Crescenza dopo avere scritto altre importanti opere teatrali e teoriche (rispettivamente La cantata dei pastori e Dell’arte rappresentativa, premeditata e all’improvviso) ampiamente riconosciute dalla storiografia teatrale. A sua volta, l’anfiteatro, ossia lo spazio dove si consuma lo strazio dell’esecuzione delle pene cui sono sottoposti i tre condannati, che viene allestito a vista, assume le caratteristiche di teatro nel teatro, intanto che l’agitazione e i clamori del pubblico che assiste all’esecuzione della condanna diventano elemento vivo dell’azione rappresentata.

A questo punto ci si può chiedere come mai tanto lavoro svolto da p. Cardenas non diede luogo ad una vera e propria rappresentazione teatrale. Una ragione è verosimilmente da collegarsi alla morte dello stesso p. Cardenas sopravvenuta alcuni mesi dopo la pubblicazione dell’opera. Iniziata sull’onda dell’entusiasmo per l’ingresso a Mazara delle reliquie di San Vito ad opera del vescovo Stella nel 1743, l’opera avrebbe potuto segnare il ritorno di p. Cardenas alla pratica attiva dello spettacolo devozionale, questa volta sulla base di un consistente impianto drammaturgico. Ci rimane così la testimonianza di un progetto che si configura, almeno in buona parte, come scrittura teatrale tout court, e in quanto tale, come raro exemplum a stampa della forma gesuitica del rappresentare.

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
 Note
[1] Edito a Palermo, stamperia Cristoforo d’Anselmo, nell’anno 1728.
[2] Natale Cardenas, Istoria dell’ammirabile vita del glorioso e inclito martire S.Vito, Gramignani, Palermo 1753.
[3] A. Guidetti, Le missioni popolari. I grandi gesuiti italiani, Rusconi, Milano 1988:138
[4] Il Ragguaglio, pubblicato a Palermo nella stamperia Giuseppe Carmignani nello stesso 1752 è dedicato a “Donna Costanza Pignatelli e Medici, duchessa di Terranova, principessa e marchesa di varie città e terre sì nel nostro regno, come altrove in altri regni”. Il titolo del ragguaglio è L’inclita città di Mazzara /…/ in ossequioso ringraziamento ai due suoi principali Patroni e Protettori, il SS. Salvatore del Mondo e l’inclito fanciullo martire e suo cittadino S. Vito /…/ il che tutto si farà a vedere in Mazzara con una figurata Processione ideale di vari personaggi.
[5] B. Viezzeri, Gran teatro storico, Albrizzi, Venezia 1735. Per le notizie sulla cristianizzazione dell’isola Rugia, p. Cardenas si avvale anche del saggio di Mauro Orbini Ranseo, Il Regno degli slavi oggi corrottamente degli Schiavoni, Concordia, Pesaro 1601.
[6] La fonte aggiornata di questi argomenti è il panegirico al Santo recitato nella Cattedrale di Messina da padre Pietro Matrona, il lunedì di Pasqua, edito da Fernandez e Maffei, Messina, 1728. Altre testimonianze dirette sono riportate nel cap. XVIII del secondo libro.
[7] P. Natale Cardenas, cit.:103-104
[8] Ivi: 224-225.
[9] Ivi:393.
[10] Cf. in proposito, G. Isgrò, Il Sacro e la Scena, Bulzoni, Roma, 2011: 202 sgg.
[11] Ivi: 234.
[12] Ivi: 110-111.

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Giovanni Isgrò, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Palermo, è autore e regista di teatralizzazioni urbane. Ha vinto il Premio Nazionale di Saggistica Dannunziana (1994) e il premio Pirandello per la saggistica teatrale (1997). I suoi ambiti di ricerca per i quali ha pubblicato numerosi saggi sono: Storia del Teatro e dello Spettacolo in Sicilia, lo spettacolo Barocco, la cultura materiale del teatro, la Drammatica Sacra in Europa, Il teatro e lo spettacolo in Italia nella prima metà del Novecento, il Teatro Gesuitico in Europa, nel centro e sud America e in Giappone. L’avventura scenica dei gesuiti in Giappone è il titolo dell’ultima sua pubblicazione.

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