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Ospitare lo straniero, ritrovare se stessi

copertinadi Johnny Dotti [*]

Sono figlio di un migrante. Mio padre negli anni ’50 è stato in Australia, entrambi i miei genitori hanno lavorato nelle miniere di amianto blu del deserto australiano e mi porto dentro il loro vissuto. Parlerò di alcune cose con una certa cognizione di causa. Vorrei parlare da battezzato, che è della mia vita la sfida principale, probabilmente la dimensione che aspiro di più a realizzare e che non ho ancora realizzato.

Come cristiani io credo che noi siamo in difficoltà a mettere in atto cose che dovrebbero invece appartenere ampiamente alla nostra tradizione, per due ordini di motivi:

primo perché il mondo in cui stiamo, (il famoso “essere nel mondo, ma non del mondo”) è stato per molto tempo plasmato da noi, producendo una serie di istituzioni (economiche, politiche, culturali, sociali) che provengono dalla nostra cultura;

secondo perché non ci siamo accorti che queste istituzioni sono diventate ben altro da quello che noi avevamo immaginato fin dall’origine. Credo che oggi noi accettiamo in maniera totalmente a-critica un certo modo di vivere di questo nostro mondo occidentale, non per cattiveria, ma perché ne siamo i diretti figli.

Perché è problematico tutto questo? Perché l’attuale “sistema” è sorretto da un pensiero costruito intorno al mito della “volontà di potenza”, espansivo e difensivo di chi questa potenza la possiede ed ha la forza di affermare in tutti i modi le sue idee. Questa idea è veicolata dalla tecnocrazia e dalla tecnica; ci sentiamo più evoluti rispetto ad “altri” perché ci spostiamo in macchina, rispondiamo al cellulare, abbiamo le telecamere, possiamo accendere e spegnere la luce etc.. Noi cristiani siamo dentro questo mito che fino ad un certo punto ha portato anche cose molto interessanti. La tecnica però non è nient’altro che l’espressione concreta di ciò che è la nostra volontà di potenza, dimentichiamo così, quella che è la nostra reale posizione nel mondo, cioè che siamo soggetti fragili e proprio perché “fragili” preghiamo: (preghiera e precario, vi ricordo, hanno la stessa radice etimologica). Tendiamo a pregare sempre meno, perché non ci sentiamo più precari, ci siamo messi in una condizione di sicurezza e temiamo che qualcuno venga a toccare le nostre presunte sicurezze. Abbiamo, addirittura, allontanato l’idea della morte; ai bambini, ad esempio, non facciamo più vedere i morti, anche se l’unica cosa certa della vita è che moriamo e tutte le altre certezze sono finte.

La nostra vita è limitata e abbiamo dimenticato che l’esistenza umana, per un cristiano, per un battezzato, è esattamente un pellegrinaggio, che abbiamo chiamato in diversi modi (percorso della salvezza, realizzazione, pienezza di sé) ma che ha come ulteriore passaggio proprio la morte.

Viviamo in un mondo dove si immagina che sia meglio vivere 130 anni piuttosto che 80, come se l’allungamento temporale possa coincidere con la dimensione profonda del tempo, ma non è affatto così. S. Francesco a 44 anni era morto, Caravaggio e Raffaello sono morti trentenni. L’Eternità è oggi, non è domani: se non è presente nell’oggi l’eternità non esiste.

Di queste cose basiche,  parlo ai miei studenti del terzo anno all’Università Cattolica, ma fanno fatica a comprenderle pienamente. I cristiani oggi immaginano che il matrimonio sia un affare tra due persone, ma non c’entra proprio nulla, difatti si celebra in chiesa (cioè in un luogo pubblico), ci sono dei testimoni, il cui ruolo è quello di ‘medium’ con la comunità. Non ci si sposa dunque per sé, ma ci si sposa per gli altri; ed un matrimonio diventa felice nella misura in cui produce vita, non difendendo soltanto la vita dei due. Questo perché nell’aldilà saremo tutti fratelli senza alcuna distinzione.

 TOPSHOTS-GREECE-EUROPE-MIGRANTSL’immigrazione ci dà fastidio esattamente perché mette in discussione le nostre finte certezze: economiche, politiche, culturali, religiose; ci ricorda che siamo qui per poco tempo, che siamo pellegrini e che non siamo qui per ‘consistere’, ma siamo qui per ‘esistere’. Oggi noi immaginiamo di consistere, ma l’esperienza che facciamo nella vita è l’esistenza, non la consistenza.

Se noi immaginiamo di difendere, di possedere quello che la vita e la realtà, ci hanno regalato o ci ha fatto incontrare, siamo morti. E infatti noi siamo una civiltà morta. Questo però non vuol dire che l’altro sia in sé buono, l’altro ogni tanto dà fastidio: questo voglio dirlo chiaramente. Io vivo da tanto tempo in una comunità di famiglie, ospito gli altri gratuitamente, ma perché è il prolungamento dell’ospitalità rispetto a mia moglie e ai miei figli, non è un “servizio sociale” e non è una questione istituzionale, ma esperienziale. L’ospite è “altro” ed è un “mistero” perché non è identico a me e non è la mia proiezione: non mangia come me, non ha i miei ritmi, vede le cose in modo molto diverso dal mio, radicalmente in alcuni casi, ma è esattamente quell’altro che aiuta a dare senso al mio pellegrinaggio. Per poter pellegrinare, io ho bisogno di un altro che mi aiuti ad andare altrove.

Sono tutti dei passaggi che hanno a che fare con il “noi”. Ospitare lo straniero è ricordarci che siamo pellegrini, fragili e mortali: tre condizioni che il sistema e il mondo nascondono costantemente. Pensate a tutte le politiche e le enfasi sulla sicurezza: il sistema ci dice che non siamo persone ma individui, cioè monadi isolate, al massimo diventiamo una massa quando queste monadi si mettono insieme, non considerando che tradizionalmente noi costituiamo nodi radicali di relazioni. Noi non esistiamo se non pensiamo di essere il tu di qualcuno, l’egli di qualcuno, il con di qualcuno, il voi di qualcuno: altro che individuo: una persona è costituita da almeno sei pronomi.

Lo straniero ci ricorda che siamo stranieri a noi stessi, cioè siamo un mistero a noi stessi, ci compiamo solo dentro ad un percorso e ad un affidamento che va oltre noi stessi, noi non ci fondiamo su noi stessi, ma è l’altro che esattamente ci mette nella condizione di sentire l’esistenza, questo venire al mondo, che non è mai certo ma sempre incerto. La vita è un’avventura e non è un’autostrada con le uscite precise e questo costituisce il fondo del fastidio dello straniero.

Arrivo della nave Siem Pilot con oltre mille migranti a bordoNon voglio entrare nella polemica dei centri di accoglienza, dei servizi sociali, perché non parlo di un problema soltanto istituzionale, ma soprattutto di relazione fra le comunità, di noi come famiglie, noi come cristiani: crediamo o no che la vita è un pellegrinaggio? Che si resuscita solo se si muore? Che noi siamo il tu dell’altro? Compreso il tu di Dio? Noi non siamo l’io di Dio.

L’attuale fenomeno migratorio è un vero segno dei tempi: non è un fenomeno che accade per farci sentire buoni, ma serve per rimetterci in cammino per costruire il senso del “Noi, di chi siamo?”. Se noi rimaniamo in una dimensione puramente difensiva, per difendere ciò che immaginiamo di avere, cosa succede? Succede che quando incontri l’altro (che è un mistero), immaginando che debba accontentare tutti i nostri bisogni, finisce il film. Bisogna comprendere che c’è tra noi la libertà e il mistero della vita ed è un affidamento costante, pellegrinare è uscire da , è fare l’esperienza dell’altro.

Come fenomeno generale, storico-culturale, sociologico, politico l’immigrazione non fa altro che sollevare ciò che noi abbiamo rimosso nelle nostre vite, e quindi con l’altro si litiga, ma in maniera sana, perché si riconosce all’altro il fatto che esiste, ed esistendo esprime la sua diversità che a volte non si incastra con la nostra. Siamo capaci di accogliere anche ciò che non capiamo dell’altro? Di avere la pazienza di una comprensione che spesso risulta essere difficile?

L’altro grande tema è quello della “comunità”, che non consiste in un “noi” che sa tutto di se stesso, altrimenti si rischia di cadere nell’immunità, nelle corporazioni, nella mafia, nella morte; la comunità è pellegrina, è la solidarietà tra fragilità che chiedono di migliorare affinché insieme costituiscano una forza che nessuno singolarmente ha, costruendo un linguaggio che tende a cambiare nel tempo perché incontra gli altri. La comunità “base” familiare (intesa nel paradigma e nel mito cristiano) è una casa che ha porte e finestre, non è l’appartamento (che ha la stessa radice di ‘apartheid’ “separazione”) . È chiaro che gli immigrati sollecitano la questione della comunità, se noi restiamo fermi sull’immunità (di vecchi – gli over 65 fra poco supereranno gli under 25) con i tassi di fertilità che abbiamo, scompariremo fra poco più di cento anni.

Che scambio avete tra di voi? Che tipo di convivialità avete? Portate i figli degli altri nelle vostre case e viceversa? Siete capaci di osare azioni che non sono previste dalla legge? Un cristiano è sempre trasgressivo, perché l’amore è più importante della legge. Siete capaci di condividere la sorte? Ecco: un migrante spinge e sollecita verso questa direzione, le vostre, nostre zone, stanno perdendo decine di migliaia di giovani che fanno a loro volta i migranti da qualche altra parte, cosa facciamo noi come comunità cristiane? Siamo in attesa di una qualche legge regionale forse? Credete che a risolvere il problema sarà la politica? I migranti invitano a riflettere su questo aspetto della comunità: la rigenerazione. Abbiamo creato tante istituzioni diverse in duemila anni di storia cristiana, perché si sono sempre affrontate le provocazioni della realtà accettandole e cercando (pregando e invocando) le precarie, misere, povere e popolari soluzioni.

L’integrazione non è avere uno di “colore” che viene a messa, o un cinese che battezza i figli, non può fermarsi a riti sociologici. L’integrazione consiste nell’incontrare davvero l’altro perché entrambi ci mettiamo su una strada nuova. I migranti non rientrano nella categoria dei miseri che devo per forza aiutare (per essere chiaro) e concludo con un ricordo personale: il più grande desiderio di mio padre era quello di tornare a casa. Il punto è: noi costruiamo e promuoviamo questi sogni? Promuoviamo quella libertà che fa uscire ma fa anche tornare? Che fa incontrare? Che fa scambiare? Tutto questo sta alla base del commercio, inteso non come il mercato capitalista, ma come luogo di incontro, dove si va e si ritorna e questo i siciliani lo sanno bene, visto che abitano in mezzo mondo!

Sognare da “vecchi” è una grande sfida che va accolta, perché l’integrazione è perseguire questo sogno di libertà comune senza restare dentro uno schema ormai ammuffito. E questa sfida è ancora possibile.

Dialoghi Mediterranei, n.32, luglio 2018
[*] Intervento al Convegno: “Volti in fuga verso l’Europa: un grembo che accoglie e protegge, promuove e integra” , Trapani, 16 maggio 2018. Testo sbobinato a cura di Vera Bocina.
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Johnny Dotti, pedagogista, imprenditore sociale, monaco novizio, attualmente amministratore delegato di ON Impresa Sociale. Docente a contratto presso l’Università Cattolica di Milano. È stato fondatore della Rete CGM, presidente e amministratore delegato di Welfare Italia Servizi srl, società dedicata allo sviluppo dei servizi per le famiglie, è autore di diversi studi. Ha pubblicato, con Maurizio Regosa, il saggio Buono è giusto: il welfare che costruiremo insieme ( 2015); Oratori generatori di speranza ( 2016); con Mario Aldegani, Giuseppe siamo noi  (2017); Con:dividere ( 2018).
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