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Oltre il silenzio: Logos e tempo

Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2023 @ 02:21 In Cultura,Religioni | No Comments

 

Big Bang

Big Bang

di Leo Di Simone 

Cosa c’era dietro il Big Bang, l’evento esplosivo teorizzato dalla fisica per cui all’incirca 13,8 miliardi di anni fa ebbe inizio l’intero universo, l’intero cosmo concentrato in una superficie microscopica dal diametro inferiore a 10-35 metri, ossia pari a un miliardesimo di un bilionesimo di un bilionesimo di centimetri? Dietro a quell’evento esplosivo che ha provocato la spinta che ha portato le particelle ad allontanarsi le une dalle altre in un moto di distanziamento in un cosmo che ancora oggi continua ad espandersi?

Evidentemente il niente, cioè il non ente, dato che da quell’evento l’entità è venuta alla luce moltiplicandosi nella miriade di enti che costituiscono il mondo nella sua variegazione, e tra questi l’entità antropica che siamo nella capacità di esprimere al passato, con “c’era”, la dimensione temporale sorta con quello stesso evento da cui ci distanzia una misura apparentemente incolmabile ma che pur ci raggiunge e ci tocca. Ci raggiunge e ci tocca almeno nella sfera del pensare il “perché l’ente e non il niente”, mentre l’atto dello stesso pensare supera la domanda nella constatazione della stessa nostra entità cui non si dà ragione sufficiente oltre l’aporia rinchiusa nel chiedere circa la trascendenza del niente e la sua non essenza.

Quando la teologia giudaico-cristiana afferma che Dio ha creato il mondo dal “niente” (ex nihilo), questo non significa un’autonomizzazione del niente, prima o accanto a Dio, ma soltanto che il mondo e l’uomo, assieme allo spazio e al tempo, devono la loro esistenza soltanto a Dio e a nessun’altra causa. Si pone ancora, in definitiva, la questione dell’essere da cui tutto ha avuto origine, di quell’archè cui ci lega l’entità metafisica del tempo e l’energia vitale da lì scaturita. Dietro il fragore di quell’esplosione, per credere alla quale è necessario un atto di fede, c’era il silenzio o l’armonia di un dialogo inudibile all’ente ancora inesistente? A questa domanda gli scienziati non rispondono, perché a loro pertiene il “com’è”; la filosofia cui attiene il “perché” non ha dato risposte univoche nei ventisei secoli del suo sviluppo, almeno in Occidente; per la teologia cristiana nella “nientità” si cela l’armonia del dialogo infratrinitario, inudibile e manifesto solo all’atto della creazione ex nihilo con mirata teleologia antropica, e cioè l’uomo che è la grande meta del processo creativo e il centro del cosmo.

A noi quell’armonia giunge sul veicolarsi dello spazio-tempo dilatato nei quaranta miliardi di anni luce, quanto i fisici stimano attualmente il diametro dell’universo, dove nuotano cento miliardi di galassie come quella in cui anche noi abitiamo accanto a cento miliardi di stelle simili al nostro sole. Ci raggiunge in questo puntino microgalattico in cui abitiamo e ci inquieta e ci sorprende inducendoci ad abbracciare quel «principio antropico» che ha indotto molti studiosi di fisica ad affermare che dietro la creazione dev’esserci un’Idea nella quale l’esistenza dell’uomo ha un suo ruolo, perché in natura solo l’antropo sembra essere in grado di recepire l’armonia di quella parola fragorosa e armonica che ruppe il silenzio del niente per giungere all’orecchio e al cuore dell’essere umano, al suo pensare e al suo vivere, dopo miliardi di anni. Solo l’essere umano può infatti pensare la vita oltre a viverla, può porsi la domanda sull’essere essendo.

briciole«Dio non pensa, Egli crea. Dio non esiste, Egli è eterno. L’uomo pensa ed esiste e l’esistenza separa pensiero ed essere, li distanzia l’uno dall’altro nella successione» [1]. Da questo assunto di Kierkegaard che sintetizza la sua polemica contro la teologia di ispirazione hegeliana secondo la quale tanto il peccato originale quanto l’incarnazione appartengono alla storia essenziale, ovvero dello sviluppo necessario dell’uomo, possiamo partire per una inattuale riflessione sul tempo cristiano sulle cui ali giunge a noi intatta quell’armonia, quella “parola creatrice” che “disse e fu” secondo le narrazioni dei miti genesiaci della Bibbia, che non possono essere scambiati per documenti dall’intento scientifico; solo testimonianza di fede circa l’origine ultima dell’universo, testimonianza che la scienza naturale non può né confermare né confutare: all’inizio del mondo c’è Dio! Riflessione inattuale almeno quanto i risultati della fisica quantistica che ha messo in discussione la possibilità di una conoscenza oggettiva della natura e la visione deterministica della scienza moderna e della fisica classica, «lasciando nuovamente spazio a Dio». «Se la fisica classica ci aveva reso presuntuosi, la fisica moderna ci sta insegnando l’umiltà e lo stupore, lasciando intravedere – in alcuni casi mostrandoci con certezza – che dietro l’universo si nasconde qualcosa di grandioso, da molti chiamato Dio». Così affrontano la questione i fratelli Michael e Anselm Grün, l’uno fisico e matematico, l’altro monaco benedettino e teologo [2].

Si chiedeva a questo proposito Werner Heisemberg, padre della meccanica quantistica: «È davvero assurdo ricercare, dietro le strutture che danno ordine al mondo una “coscienza” la cui “intenzione” costituisce queste strutture stesse? Naturalmente il fatto stesso di porsi quest’interrogativo significa cadere nell’antropomorfismo; infatti il concetto di coscienza si fonda sull’esperienza puramente umana, e quindi si applica solo alle cose umane» [3]. Ma l’essere umano è fatto di materia e spirito, e la fisica quantistica «concepisce una materia molto più differenziata rispetto alla fisica newtoniana e le è impossibile separare nettamente spirito e materia, ed è in grado di immaginare un Dio che tutto concerta» [4].

9788833924168_0_536_0_75Ora, la nostra riflessione non vuole fare altro che rintracciare, sull’arco della immaterialità del tempo, ma dalla sua “entità”, dall’archè alla coscienza antropica, il senso dell’essere all’esserci, l’intenzionalità archetipa di quell’evento fragoroso che il cristianesimo ha chiamato e chiama Logos e la scienza energia. Si tratta di due cose diverse o sono lemmi di sistemi linguistici diversi? Può l’excursus teologico cristiano avere come controparte un discorso scientifico tra filosofia, fisica e paleontologia? È vero o no che «fisica e religione sono due punti di vista complementari attraverso cui guardare a una realtà più profonda»? [5]. Perciò ritengo necessario cominciare dall’archè, problema filosofico, considerato dalla fisica e oggetto di riflessione teologica, in correlazione al mistero del tempo, questa impensabile temporalità dentro la quale noi umani siamo apparsi “all’ultimo momento”. Come, perché, con quale scopo?

Si impone perciò una riflessione sul rapporto Logos-tempo, ripartendo da Kierkegaard. Non da Heidegger, che pure dell’essere è stato indagatore diuturno e mai appagato. Quella che doveva essere la sua opera capitale, Essere e tempo, è rimasta incompiuta. Dopo aver analizzato la situazione dell’esser-ci (il nostro essere qui) Heidegger avrebbe dovuto rispondere alla domanda fondamentale: cos’è l’essere? Ma comprese presto che gli mancava qualcosa per rispondere a tale domanda: gli mancava il linguaggio, un linguaggio adeguato che la filosofia non gli aveva fornito, avendo eluso per secoli la domanda. Né mai pensò, forse per una sorta di orgoglio filosofico, di affacciarsi alla finestra del logos cristiano che lo avrebbe costretto a rimettere in campo Dio.

Anche la teologia, in verità, era stata avviluppata da quell’appiattimento ontico perpetrato dalla metafisica occidentale che Heidegger aveva denunciato e criticato. Kierkegaard, invece, non esitò ad identificare l’essere in quanto tale con Dio, anche se la pretesa autonomia del pensare Dio sulla linea della categoria di esistenza non sortiva, per lui, altro effetto che comprenderlo col parametro della contingenza, mettendo tra parentesi la consistenza della sua eternità e attribuendo valore assoluto al tempo che esiste invece come spazio metafisico in cui Lui si fa incontrare, essendo il tempo atto della sua parola creatrice. Ciò per Kierkegaard è “paradosso”, perché Dio, in quanto oggetto della fede, “urta” contro il principio di immanenza, contro la ragione che pretende di spiegare e di esaurire tutto non ammettendo nulla sopra di sé.

0178119_Qualche nota su dio e sulla fisica quantistica_Esec@01.iCiò che la ragione crede “assurdo” la fede lo crede paradossale, fusione di categorie opposte: Dio stesso, eterno e immutabile, mediante l’incarnazione del Logos, “muta” il suo assetto nel tempo. Stesso paradosso che Cusano aveva risolto con la coincidentia oppositorum. Il cristianesimo crede che proprio l’eterno è andato oltre il suo armonico silenzio, è apparso nel tempo creandolo; il Logos che era in principio (Gv 1,1: Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος) e «per mezzo del quale tutto è stato fatto di ciò che è stato fatto» (Gv 1, 3), σὰρξ  ἐγένετο , «si è fatto carne» (Gv1,14); l’uomo in Cristo può trovare così la sua vera dimensione esistenziale nella logica del Logos che gli insegna un nuovo linguaggio per dar senso all’esistenza, all’esserci; essendo il Logos, con l’incarnazione, il modo autentico dell’esserci.

Secondo tali assunti il tempo cristiano attiene al “mutamento” di Dio, un evento di straordinaria quanto scandalosa importanza per l’intelletto. Anche se in Occidente riteniamo essenziale anzitutto il passaggio da quel punto cronologico ab Urbe condita a quell’altro determinato dalla nascita di Gesù Cristo, che poi ha segnato la cronologia universale e che ora si percepisce come una semplice mutazione convenzionale, il fatto è che questo “tempo altro”, questo “mutamento”, anche noi cristiani lo viviamo come un semplice fatto culturale, ed anzi ne vantiamo con orgoglio la supremazia sul computo cronologico delle altre culture, senza percepirne appieno la rivoluzionaria portata metafisica che consiste nell’inaudita pretesa di avere influenza ed incidenza sulla complessità  storica di un mondo collocato in precario equilibrio su di un esile filo cronologico e angosciato a causa della heideggeriana “gettatezza” e della indicibilità dell’essere.

Forse, però, se ci riflettiamo attentamente, non ci rendiamo conto di non capire bene le cose che abbiamo creduto di capire, considerandole un semplice dato consolidato della nostra identità culturale; dagli assiomi culturali ormai storicizzati e sclerotizzati ai dogmi teologici razionalizzati ed incompresi e alle leggi fisiche e biologiche considerate ancora immutabili ed eterne. La considerazione del tempo si colloca nell’ambito di un ventaglio fenomenologico ampio che include il filosofico, lo storico, il religioso, l’esistenziale e non per ultimo il fisico, che sono sfaccettature dei modi di comprensione di ogni accadimento fenomenico.

Anche cristianamente parlando, poi, non è possibile sottrarsi alla percezione lacerante del tempo che passa, perché questa percezione, quando la lasciamo agire, quando non la anestetizziamo con fughe ideali e consolatorie, o quando semplicemente non la ignoriamo, ha un rapporto diretto con la vita di fede. I giorni che passano sono un segno della nostra schiavitù. Gli anni che passano sono annuncio della morte. Ogni anno che passa raccorcia il nostro incontro con quella cinica, spietata, inesorabile Signora. Ma non è che lei viene semplicemente verso di noi; in realtà, fuori da ogni metafora letteraria, la portiamo dentro di noi, è in agguato dentro di noi sin dall’attimo iniziale della nostra vita, già sin dal seno di nostra madre. Questo da un semplice punto di vista umano, a partire da una realistica considerazione del tempo “laico” o senza attributi potremmo dire, a partire da una severa quanto non difficile riflessione che è alla portata di tutti coloro che prestano un minimo di attenzione alla condizione umana.

Ed anche una fede cristiana solo culturalmente considerata si lascia irretire nella stessa angoscia della dissoluzione dell’essere, l’essere “per la morte”, come lo pensava Heidegger. Una fede che non tiene in nessun conto la portata non solo teologica ma anche filosofica del rapporto Logos-tempo, della portata esistenziale e salvifica di tale irruzione nell’entità temporale con l’atto creativo dell’arché, non ha raggiunto la sua piena maturazione, la sua ragion d’essere. Per tale fede il Logos è considerato un’entità rappresentativa, e non la vita stessa di chi, senza una ragione sufficiente, ha posto in atto il mondo. La filosoficità del prologo di Giovanni è pregnante quando afferma che il Logos, nel suo manifestarsi veritativo «era la vita e la luce degli uomini»:

ἐν αὐτῷ ζωὴ ἦν, καὶ ἡ ζωὴ ἦν τὸ φῶς τῶν ἀνθρώπων (Gv 1,4). Una vita che si manifesta come verità, ἀλήθεια in quanto messa in luce, etimologicamente “senza lete”, luogo dell’oblio e dell’oscurità.

carollLa fede accompagnata dalla ragione si apre a nuove prospettive, instilla altro sentire. Il “senso” che è il Logos ci suggerisce il sentire che noi siamo sottratti alla dominazione del tempo e della morte, mentre secondo la carne il fiume del tempo scivola verso il suo estuario che è la morte – il Lete, mitico fiume che scorre nell’oltretomba – e per molti si riversa nell’oscuro oceano del niente.

Secondo la fede “logica”, secondo il Logos, il tempo viene ed è portatore di vita piena, piena manifestazione del Regno di Dio che è giunto a noi nella «pienezza del tempo» per dirla con Paolo: «Quando però venne la pienezza del tempo…»: ὅτε δὲ ἦλθεν τὸ πλήρωμα τοῦ χρόνου; hote de ēlthen to plērōma tou cronou (Gal 4,4). Come si può notare, in questa celebre frase Paolo utilizza il termine kronos, uno dei tre sostantivi con cui i Greci denominavano il tempo: Aion, Kronos e KairosAion rappresentava l’eternità, l’intera durata della vita, l’epoca, l’evo; era il divino principio creatore, eterno, immoto e inesauribile; Kronos indicava il tempo nelle sue dimensioni di passato, presente e futuro, lo scorrere delle ore; Kairos era invece il tempo opportuno, la buona occasione, il momento propizio, quello che noi oggi definiremmo il tempo debito. Con Kairos si denominava un tempo sostanzialmente diverso: non una mera successione fluente di attimi ma una opportunità da cogliere al volo nel determinismo del Kronos e nella complessità immensa di Aion.

Nella tradizione cosmologica greca Aion era una delle immagini del Tempo, una sua personificazione. Il tempo che unisce a sé ogni momento. Iconograficamente Aion lo si raffigurava con una testa leonina e avvolto da un serpente che intorno al suo corpo compiva sette giri e mezzo, corrispondenti alle sfere celesti. Si rappresentava così una sua connotazione metafisica, immobile. Kronos, invece, costituiva l’archetipo di un maschile ancestrale, indifferenziato dalla controparte femminile. Personaggio che divora ciò che ha generato: un padre aggressivo e ossessionato, che non vuole far crescere i figli per timore di esserne spodestato e ucciso. Kronos chiede in continuazione, non dona, non offre nulla di sé, è un predatore in ricerca perenne di rapina, un “divoratore” come il “sarcofago” che è mangiatore di carne.

Airon, rilievo marmoreo , prima metà del II secolo d. C.

Aion, rilievo marmoreo , prima metà del II secolo d. C.

E c’era poi Kairos, il “momento giusto o opportuno”, l’occasione. Mentre Kronos si riferiva al tempo logico e sequenziale, Kairos rappresentava “un tempo nel mezzo”, un momento di un periodo di tempo indeterminato nel quale “qualcosa” di speciale accade. Mentre Kronos è quantitativo, Kairos ha una natura qualitativa. Nella lotta tra Kairos e Kronos, Kairos è sempre stato perdente. Ed è con questa perdita che la sua cognizione cessa, si decultura potremmo dire, cedendo il posto ad un’angoscia cronologica dove nulla di nuovo può apparire tra la sequenza frenetica dell’identico. Il mito, prima che la filosofia, o il mito quale filosofia prelogica, aveva intuito la dimensione trascendente del tempo oltre quella empiricamente mortifera del Kronos, e la descrisse a suo modo, col suo linguaggio, in ipostasi emblematiche. A tutti è nota la figura truce e sanguinolenta di Kronos divoratore dei suoi figli. Kairos, invece, è un leggiadro fanciullo con le ali ai piedi, e a volte anche sugli omeri, figura a mezzo tra l’Ariel shakespeariano e un moderno Punk, col cranio rasato sul quale troneggia un lungo ciuffo residuo sulla fronte; è figura meno nota del parco mitologico della nostra memoria culturale.

Kairos, affresco di Francesco salviati , 1543-1545, sala dell'Udienza, palazzo Vecchio, Firenze

Kairos, affresco di Francesco Salviati , 1543-1545, sala dell’Udienza, palazzo Vecchio, Firenze

La difficoltà di comprendere Kairos consiste nella stessa difficoltà dell’acchiapparlo al volo, al momento giusto, ad altezza giusta, mentre volteggia sul filo cronologico, e ancor più trattenerlo per quello svolazzante ciuffo che rischia di sfuggirci dalle dita. Tra le mani Kairos ha una stadera, precorrendo così l’iconografia di san Michele arcangelo, e tenta di dare equilibrio al tempo soppesandolo. Kairos è, secondo Aristotele, il contesto del tempo e dello spazio in cui la prova sarà affrontata. Un buon stratega militare sa che la vittoria non è una semplice questione di superiorità numerica, ma “un momento” in cui l’attacco sull’avversario porterà il panico e darà un esito definitivo alla battaglia. Nella liturgia bizantina, prima dell’inizio della sinassi il Diacono canta: «Καιρός τοῦ ποιῆσαι τῷ Κυρίω» (Kairos tou poiesai to Kyrio). «È tempo che il Signore agisca»; e indica che il momento della Liturgia è un incontro con la Eternità, con l’azione creatrice e ricreatrice di Dio, un momento in cui entrare.

Questo è il kairos: l’opportunità, il momento favorevole di cui approfittare, il momento della salvezza che giunge inatteso, imprevisto e imprevedibile, sbucando dal nulla. Anche il trentenne Gesù di Nazaret sbuca dal nulla nella narrazione del racconto evangelico più antico, quello di Marco. Il proto evangelista non si cura di riferirci i trascorsi cronologici del Nazareno. La sua vita precedente sembra senza grande importanza. Il racconto di Marco è un enigma, nel significato che Eschilo nell’Agamennone attribuisce al termine ainigma: “detto oscuro” o “rompicapo tristemente profetico” [6]. Gesù esce da un ainigma che nessuno studioso della questione del “Gesù storico” ha saputo sciogliere in maniera soddisfacente. Per tutto il tempo in cui resterà sulla scena marciana la sua identità sarà nota solo attraverso la sua missione che comincia in quel preciso “momento” in cui Marco avvia la narrazione, il suo mythos: il mythos come verità che va oltre la storia; senso della verità che attraversa la storia impregnandola della sua essenza [7]. Marco piuttosto che di una nascita cronologica parla di una genesi. Le sue prime parole sono:

«Ἀρχὴ τοῦ εὐαγγελίου Ἰησοῦ Χριστοῦ» (Archē tou euangeliou  Iēsou Christou). Inizio della buona notizia di Gesù Cristo (Mc 1,1).

E le prime parole di Gesù che Marco gli fa pronunciare quattordici versetti dopo sono:

Πεπλήρωται ὁ καιρὸς καὶ ἤγγικεν ἡ βασιλεία τοῦ θεοῦ: μετανοεῖτε καὶ πιστεύετε ἐν τῷ εὐαγγελίῳ (Peplērōtai ho kairos kai ēngiken  basileia tou Theou: metanoeite kai pisteuete en to euangeliō. Cioè: è stato colmato il tempo ed è vicino il regno di Dio: cambiate mente e credete nella buona notizia (Mc 1,15).

In Galati 4, 4, come abbiamo visto, la misura del kronos era stata ritenuta colma; e Marco, che verosimilmente redige il suo scritto dopo Paolo, e plausibilmente sulla scorta di una tradizione aramaica, riformula col kairos l’immagine della pienezza del tempo perché essa è visibile, in carne ed ossa, nella persona di Gesù di Nazaret. Il tempo è “soddisfatto”, “riempito”, “completato” nella sua persona che rende presente l’euangelion, la “buona novella”, il “buon/dolce evento” di cui era colma l’intenzionalità archetipa. Gesù di Nazareth è il Kairos, l’Evento designato dello scopo di Dio e manifestato secondo il suo imperscrutabile disegno prendendo poi forma paradossale nel Kairos che è la croce, l’ora in cui si realizza ciò che conta nel dramma dell’umanità, con una diversa logica di metamorfosi che sembra smentire la “buona notizia” mentre la invera nella sua portata asimmetrica sia teologica che logica: il Dio crocifisso è una variante non irrilevante nella concezione della divinità, una mutazione ontologica archetipale anch’essa, che prelude all’ainigma  della vita che sfocia dalla morte del chicco di grano (cfr. Gv 12,24). Nell’inno ai Filippesi (2, 5-11) Paolo descrive assiomaticamente questa mutazione kenotica di Dio.

Nei codici più antichi del Vangelo di Marco il mythos si conclude con la scena delle donne al sepolcro vuoto al mattino di Pasqua. Di Lui nessuna traccia. Scomparso nell’enigma dal quale era venuto. Il racconto appare come versione midrascica [8] del mito di Kairos che sta lì seduto sul lato destro del sepolcro vuoto e ha l’aspetto di un giovinetto rivestito di una stola candida. Lo stesso giovinetto che portava «un lenzuolo sul corpo nudo» e che Marco introduce nel racconto dell’arresto di Gesù nell’Orto degli Ulivi? E che per sfuggire anche lui all’arresto lascia il lenzuolo nelle mani degli sgherri e «fuggì via nudo»? (Mc 14, 51-52). Strana figura, su cui Marco punta la sua attenzione narrativa non senza un recondito motivo. Enigmatico ragazzo, cruccio degli esegeti. Ma Marco è profondo e sottile, semina indizi, simbolizza dopo aver sparpagliato i cocci. Questo giovinetto, neaniskos (νεανίσκος), che significa “colui che è nuovo”, è un discepolo iniziato pronto per il battesimo; nudo si lascia alle spalle il suo vecchio sé come un serpente che cambia pelle. Simboleggia, non secondariamente, colui che emerge a vita nuova dalla sepoltura del battesimo in cui l’uomo vecchio è stato “liquidato”, con il ritorno alla nudità adamitica prima del peccato, che non creava imbarazzo. È “tipo” del Cristo risorto che Paolo chiama “nuovo Adamo” e che l’iconografia paleocristiana rappresenterà sui sarcofagi come un Cristo giovane e imberbe, Cristo Logos autore e datore di vita. Ed eccolo riapparire il giovinetto di Marco, con indosso la sua veste bianca battesimale, nel racconto pasquale, a lato del sepolcro: «se ne stava seduto alla destra, rivestito di una veste bianca» e le donne «furono spaventate» (Mc 16, 5). Ecco Kairos! Il kairos della vita nuova! Un kairos però che incute tale timore alle donne che esse perdono la parola e non dicono a nessuno ciò che Kairos aveva loro ordinato di proclamare: la risurrezione, la vita! Non solo non lo riconoscono ma non comprendono il senso di quella straordinaria esperienza, di quell’evento. Kairos non si afferra con la razionalità, semmai con l’intuizione del discepolo che Gesù amava e al quale basta uno sguardo dentro il sepolcro vuoto per capire tutto, come narra Giovanni (20, 3-8).

Sarcofago di Giunio Basso, Cristo Logos in trono, 359 d. C.

Sarcofago di Giunio Basso, Cristo Logos in trono, 359 d. C.

Ed è proprio nell’ordine del “senso”, del significato profondo da ricercare nel mythos di Gesù di Nazaret che l’Evangelista Giovanni, che da molti è considerato il grande esegeta di Marco, crea il suo midrash riferendosi anche lui all’arché ma trasformando l’euaggelion in Logos: Ἐν ἀρχῇ  ἦν ὁ λόγος (Gv 1,1). Logos, che si traduce comunemente con “parola” ma che possiede le accezioni di “pensiero”, “senso”, “progetto”. Il termine Logos, il Verbo, ha ricoperto un ruolo centrale nella filosofia e nel misticismo greco, di cui Giovanni doveva avere una sicura cognizione. Un concetto cardine nella elaborazione teologica del filosofo ebreo Filone alessandrino e in quella dottrina filosofico-religiosa di matrice ellenistica nota come ermetismo. Per Filone il Logos è lo strumento di Dio nell’atto della creazione, sorta di elemento mediatore fra Dio e l’umanità. Nel misticismo ermetico, che persegue la deificazione dell’uomo attraverso la conoscenza, il Logos è chiamato «figlio di Dio». L’espressione, riecheggiante nel «Figlio unigenito che è nel seno del Padre» (Gv 1, 18) del Prologo, costituisce il principio formante e ordinatore del mondo ed anche la rivelazione del mistero di Dio che «nessuno ha mai visto»; ed anzi Giovanni specifica il senso della rivelazione dicendo che il Figlio fa l’esegesi del Padre: ἐξηγήσατο. Lui ce lo ha spiegato!

Si può anche pensare che sotto la foggia greca del Logos faccia capolino l’idea ebraica del Verbo divino, strumento in mano all’Altissimo nella creazione dell’universo. Esso ricorda uno dei Memra (verbo/parola) delle parafrasi aramaiche di Genesi 1, 1, ove si legge: «Attraverso il Verbo Dio creò il cielo e la terra» [9]. Nominato quattro volte, nei versi 1 e 14 del Prologo, il misterioso Logos divino, esistente prima della creazione del mondo, quindi del tempo, domina l’esordio del quarto vangelo per non più ripresentarsi nei capitoli successivi e soltanto altre due volte nel resto della letteratura giovannea. Situato nel primo versetto del Vangelo e culminante nell’equazione «e il verbo era Dio», il Logos è chiaramente inteso quale indizio decisivo della storia di Gesù di Nazareth, stato ontologico dell’eterno esistere del Figlio. Anche la Gnosi, corrente di pensiero conosciuta da Giovanni, considerava il logos un concetto importante, molto più che verbum, parola, ma un concetto che esprime una legge universale: l’idea divina, la ragione divina [10]. Giovanni così attribuisce al kairos marciano una ontologia eterna, fuori dal tempo, eminentemente pneumatica, e afferrabile a determinate condizioni esplicitate nel suo vangelo in maniera paradigmatica.

E poi fa il discorso del «vento [che] soffia dove vuole e tu ne odi la voce, ma non sai da dove viene né dove va»; il discorso a Nicodemo narrato nel terzo capitolo del suo vangelo e che pare midrash [11] di Marco 1, 12 in cui lo pneuma, il vento, il soffio, conduce Gesù nel deserto per immergerlo nel silenzio e farlo tentare dal diavolo, da una parola non vera in cui l’essere non può abitare perché fu essa a generare la morte agli esordi dell’umanità. Ed è immediatamente dopo questa prova che a Gesù esce di bocca la parola vera: Πεπλήρωται ὁ καιρὸς […]  μετανοεῖτε, «il tempo si è colmato, cambiate mente…». Cioè: è il tempo della ricreazione antropica, perché al mutamento di Dio in Gesù fatto Cristo deve corrispondere, in lui, il mutamento antropologico. Ma occorre il cambiamento di mente, la μετάνοια che è atto dello spirito prima che del pensare, opera del soffio del Logos librato sullo scorrere dei millenni fino a raggiungere, non molto tempo fa, l’antropo che ne ha avvertito l’alito e ha avuto la possibilità di afferrarlo al volo nel kairos di Gesù «che fa la verità [e] viene alla luce perché siano manifestate le sue opere che in Dio sono state operate» (Gv 3,21). L’opera del Logos è dunque la stessa opera di Dio che giunge agli uomini nel soffio dello spirito.

Non un vento qualsiasi dunque: il vento carico di intensità, di novità, il respiro cosmico che al principio «aleggiava sulle acque» (Gen 1,2), la misteriosa forza motrice che il profeta Elia percepisce come soffio mormorante in cui coglie il kairos della presenza di Dio. Gesù viene sospinto da questo soffio dopo il battesimo d’acqua conferitogli da Giovanni, sospinto nell’enigma del deserto dopo che il soffio, anche per Lui, s’è fatto voce del dolce compiacimento dell’eudochia teleologica che in lui ha trovato il suo approdo rompendo il tempo dell’attesa e trasformando il kronos in kairos. In Marco tutta la scena ha anche il significato del kairos del nuovo culto. Il Battista lo proclama ad alta voce che Gesù battezzerà ἐν πνεύματι ἁγίῳ, «nel soffio santo» (Mc 1,8). Nel midrash di Giovanni con la donna samaritana sarà Gesù stesso a proclamare la divinità dello pneuma: πνεῦμα ὁ θεός, «il soffio è Dio» (Gv 4, 24). Due narrazioni diverse per annunciare la novità del culto in spirito e verità, un modo nuovo di rendere culto a Dio, un Dio “diverso” che cerca nell’apertura antropica l’occasione per realizzare il culmine del suo progetto di “coltivare” l’uomo. Prima che l’uomo renda culto a Dio (culto da colere), Dio coltiva l’uomo nello spirito.

L’ ἀρχῇ del Prologo giovanneo rimanda chiaramente all’inizio della Genesi: Bereshìt barà Elohìm. Queste sono le prime parole del primo libro della Torà, da cui prende il titolo Bereshìt, (בראשית), Genesi. Secondo una esegesi cabalistica ci si accorge che Bereshìt è una parola composta dall’avverbio di luogo be, (ב, in, nel) e dal sostantivo reshit, (ראשית), che significa inizio, capo, testa, l’incipit, o l’inizio degli inizi nel quale è, in molti sensi, già compendiato tutto il resto. Questa combinazione fa sì che bereshìt possa significare non solo “in principio”, ma anche “in ogni principio”, o “in questo principio”, schiudendo possibilità interpretative del testo molto interessanti, poiché la creazione in cui noi, e i nostri avi prima di noi, siamo coinvolti potrebbe essere una fra molte, in una possibile “successione di creazioni”.

Osservando la posizione della parola bereshìt nel corpo della frase notiamo che si trova all’inizio senza nessun’altra che la preceda e questo suggerisce che questo principio è il “principio di tutti i principi”, continuo, sempre re-iniziante dalla sua fine: a indicare che l’andamento del processo creativo è ciclico, e ricomincia dalla sua fine. L’insegnamento che se ne trae è che ogni principio, sia nel macrocosmo che nel microcosmo, contiene in sé la sua fine che coincide con un nuovo inizio ad un diverso livello. Dio inizia la Sua creazione ben conoscendone l’evoluzione e la fine, intesa non come un arresto definitivo ma come un passaggio evolutivo verso quello che i Saggi chiamano il mondo a venire, ‘Olàm HaBà e i cristiani «la vita del mondo che verrà».

Bastino queste esemplificazioni per convincerci dell’assoluta asimmetricità del tempo cristiano, del kairos cristiano rispetto alla semplice narrazione cronologica, anche culturalmente cristiana, come all’accanimento sulla questione del Gesù storico. Questa, senza quello, senza l’afflato pneumatico che emerge dall’enigma da afferrare al volo, si sbiadisce in semplice cronaca, pur intrigante ed interessante ma senz’anima, così come la storia dell’umanità senza Cristo, della cultura senza logos. Ciò che conta per i narratori dei racconti delle origini del cristianesimo, è mettere in luce la forte differenza qualitativa del kairos di Gesù Cristo rispetto al suo itinerario cronologico-biografico che nei racconti resta in ombra dietro quella luce.

La pregnanza del kairos cristiano, manifestatasi in Gesù di Nazareth, consiste nel ripristino della condizione dell’archè, della storia come fu al principio quando Dio creò tutte le cose e secondo l’intenzionalità antropica, in un disegno unitario che si chiama uni-verso. Questo è il senso dell’archè che rinveniamo in Marco e Giovanni. «Dio non pensa, Egli crea» rammentava Kierkegaard, e con l’atto della creazione dà inizio, col tempo, al processo teleologico dell’incarnazione, kairos del suo stesso mutamento, mutamento del suo Logos in antropo, coronamento del suo atto creativo; l’antropo realizzato secondo l’intenzionalità contenuta nel Logos, nell’inudibile esplosione, se esplosione è stata, del Big Bang 13,8 miliardi di anni fa.

Una domanda a questo punto pare ineludibile: come mai così tardi la «pienezza del tempo»? E se è vero, come pare la scienza dimostri, che le prime tracce antropiche oscillino tra 6 e 4 milioni di anni fa e che la comparsa di noi “Sapiens” sia riscontrabile in Africa equatoriale solo 150 mila anni fa [12], che viaggio cronologico ha fatto questo Logos per essere percepito da una “mente” che a sua volta è comparsa molto tempo dopo il cervello antropico? Prodigio di quella «incredibile ipertrofia encefalica [che] rende possibile il pensiero astratto, il linguaggio, la tecnica e l’adattamento culturale» [13], la percezione metafisica unitamente alla percezione del sé; tutto ciò che può definirsi “ominizzazione”, secondo il termine coniato da Pierre Teilhard de Chardin nel 1938, nella sua opera Le Phénomène humain in cui coniugò le sue acquisizioni di paleontologo con l’intelligenza di teologo cristiano. L’ominizzazione si determina proprio con «il passaggio dal cervello alla mente», anche se bisognerebbe capire come «i segnali fisico-chimici che raggiungono i nostri organi di senso si convertono in percezioni, sentimenti, idee, argomentazioni critiche, emozioni estetiche, valori etici»; e poi «in che modo, dalla diversità delle esperienze, emerga la realtà unitaria della mente o sé, il libero arbitrio, il linguaggio, le istituzioni politico-sociali, la tecnica e l’arte»; tutto ciò può rappresentare «un valido fondamento per la concezione religiosa dell’uomo come creatura speciale di Dio», argomenta il biologo e filosofo  Francisco J. Ayala [14].

Il fenomeno umano è certamente un mistero evolutosi in qualche milione di anni quale culmine di una lentissima evoluzione di 13,8 miliardi di anni a partire da quell’esplosione di energia, di quel Logos in virtù del quale «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (Atti 17,28), come argomenta l’apostolo Paolo muovendosi nel quadro della filosofia stoica che vedeva Dio vicino ad ogni persona, perché Dio «abita dentro l’uomo» [15]. Mentre «la scienza non può rispondere a tutte le domande sul tema delle origini, ma nel descrivere una natura rivelatrice della sua dinamicità pone domande sul significato dei cambiamenti, sul senso ultimo dell’evoluzione e sollecita risposte che vanno oltre il terreno specifico delle scienze della natura» [16].

 È certamente un mistero il passaggio dal cervello alla mente, ma anche la mente non esaurisce il mistero dell’uomo, né determina la sua compiutezza. Per valutare nella sua complessità il fenomeno dell’ominizzazione bisogna anche considerare il passaggio dalla mente allo spirito. «Lo spirito è più della mente, così come la mente è più del cervello» [17]. Il cervello è un organo biologico, la mente è calcolo, lo spirito è amore. Ed è nella dimensione dello spirito che si dà compiutamente il processo di ominizzazione in cui si riflette e si mostra il mistero dell’essere. Se è stata ragionevolmente opportuna la critica di Heidegger a ciò che lui ha denominato «pensiero calcolante» (Denken als Rechnen), il pensiero come calcolo che ha ridotto il mondo ad un enorme apparato tecnico, non è tuttavia spiegabile la lunga e perfino penosa reticenza da parte del filosofo nei riguardi di chi gli chiedeva una spiegazione delle mostruosità che erano accadute sotto il regime nazista; il motivo è spiegato in maniera documentata nel poderoso volume di Rüdiger Safranski su Heidegger:

«La presa di potere da parte dei nazionalsocialisti fu per Heidegger una rivoluzione; era per lui molto più che un fatto politico: un atto nuovo della storia dell’essere, un sovvertimento epocale. Con Hitler egli vede l’inizio di una nuova era […] un avvenimento metafisico fondamentale […] con la rivoluzione del 1933 era giunto per lui il momento storico dell’autenticità» [18].

5000089579619_0_0_536_0_75Era quella una manifestazione dello spirito? L’inizio di una nuova antropologia? Il nazismo e tutti gli altri movimenti totalitari che sono apparsi e appaiono nell’arco della storia hanno a loro fondamento l’eliminazione dello spirito, anche quando si costruiscono idoli e credono di adorare qualche divinità. Ma non il Dio cristiano che per definizione è spirito e amore; amore spirituale da non intendere, come abitualmente accade, come un sentimento romantico, emozionale, ma come il principio ontologico dell’uni-verso che si espande per mezzo del suo Logos e tutto riattrae a sé. Ma Heidegger aveva messo tra parentesi il Dio cristiano per cogliere la «mondità» pura del mondo. E intanto in Germania si andava delineando il programma “culturale” del Reich, elaborato da Ernst Krieck che tracciava la tipologia dell’uomo eroico: «Egli non vive a partire dallo spirito, ma dal sangue e dalla terra» [19]. Una tipologia antropica sopravvissuta fino ai nostri giorni, e prospera più che mai.

Ogni uomo porta in sé la passione per la divisione, l’aggressività che divide e che si ammanta a volte di idee, ma che rimane logica nefasta di contrapposizione. L’ablazione dello spirito non ha certo condotto l’umanità alla sua piena realizzazione secondo la teleologia del Logos; il processo evolutivo di ominizzazione è ancora in corso e, in fondo, sono passati pochi millenni da quando lo spirito del Logos ha toccato la sensibilità antropica e ha sussurrato al suo orecchio i temi della sua amorevole unità. Non tutti l’hanno ascoltato, non tutti hanno accolto il dono, non tutti hanno saputo o voluto afferrare al volo Kairos: «Venne nella sua proprietà e i suoi non lo accolsero» ricorda Giovanni nel Prologo (Gv 1, 11), intendendo che l’accoglienza di questo alito luminoso non è un fatto scontato e riguarda la libertà che è pur parte intrinseca della intenzionalità antropica con cui il Logos ha operato nel corso dei millenni. Ha attraversato i tempi antropologici, ma su chi ha fatto presa? Chi lo ha rifiutato?

L’homo erectus presente a Giava fino a 100 mila anni fa, o l’Homo neanderthalensis presente sul pianeta fino a 30 mila anni fa, o l’Homo sapiens che 100 mila anni fa è comparso in Africa dilagando poi in tutto il pianeta e soppiantando le altre specie antropiche con alcune delle quali si è anche ibridato? Se la paleontologia non ha ancora risposte definitive per una descrizione fenomenologica delle origini dell’antropo, neanche la teologia pretende di datare scientificamente il “peccato originale”, riuscendo soltanto, col linguaggio simbolico, a individuare la causa del disastro della situazione antropica con l’opposizione allo spirito, il rifiuto del “senso vitale” di quel Logos che ne ha costituito evolutivamente i sensi di percezione oltre la mente. Da quando l’antropo ha cominciato ad intendere e ad intendere sempre più chiara-mente ed oltre la mente? Dalla “caduta dei progenitori” e attraverso le storie dei Patriarchi i racconti veterotestamentari trattano emblematicamente di questo difficile intendimento ed anche dei molteplici fraintendimenti in cui possono rispecchiarsi i nostri. Lì si parla già ed ancóra di noi. La Bibbia è un testo antropologico oltre che teologico.

Lo spirito non è fragoroso, non si manifesta nell’eclatanza, non desta su di sé l’attenzione delle masse, non agisce magicamente. Il focoso profeta Elia, avvilito e perseguitato dal potere regale, attendeva che Dio ritornasse a sostenerlo (1Re 19). Forse si sarebbe rivelato nel «vento impetuoso e gagliardo» che stava soffiando? O nel terremoto che, all’improvviso, aveva squassato le rocce del Sinai? O nel fulmine della tempesta che si era scatenata? No, Dio gli si era presentato in una qol demamah daqqah (1Re 19,12) che in ebraico può significare letteralmente «una voce di silenzio sottile». L’irradiazione di questa impercettibile voce nello spirito del profeta provoca un’osmosi di vita su cui la morte non ha potere. Ed Elia vive per sempre. Il filosofo ebreo Martin Buber nel suo dramma Elia ha sciolto il significato simbolico del cocchio di fuoco che conduce Elia verso il cielo: «Elia entra nell’eternità senza gustare la morte per essere il messaggero dell’eterna presenza di Dio nell’uomo giusto» [20].

Elia è il “tipo” pneumatico del Logos incarnato, ne simbolizza la natura divina nella scena evangelica della Trasfigurazione che è di per sé kairos della metamorfosi antropica nello spirito. Quella scena descrive il travaglio antropico della metamorfosi (trasfigurazione, cambiamento di figura, non rende bene  μεταμόρφωσις che è cambiamento di forma); la bellezza che traspare dal corpo irradiato dallo spirito, la luminosità di una condizione di umanità nuova che ha sotto gli occhi il Logos luce che si presenta come il punto di arrivo del processo di ominizzazione costituito dalla filiazione divina. Il processo trasfigurativo si può compiere solo a partire dall’ascolto e dall’accoglienza del Logos. Il Padre che si compiace dell’umanità piena del Figlio fa sentire la sua voce univoca col Logos: «Questi è il Figlio mio, l’amato (ὁ ἀγαπητός), ascoltatelo» (Mc 9,7 e //).

Il Logos non impone, suggerisce, illustra nella sua incarnazione in Gesù di Nazareth il modello, la statura di «uomo perfetto» (ἄνδρα τέλειον) come suggerisce Paolo (Ef 4,13). Egli opera per un uomo diverso, un uomo che continuamente si rinnovi nella capacità ricevuta col dono dello spirito, di quella componente oltre l’intelligenza che gli consente di trascendere se stesso per essere ciò che realmente è chiamato ad essere; secondo l’antropologia biblica «a immagine e somiglianza di Dio». E di conseguenza, secondo la natura pneumatica di questa filiazione l’uomo perfetto non può volere altro che ciò che Dio vuole: la vita, la verità, la gioia, la libertà, la pace, la salvezza, la grande felicità ultima dell’uomo quando avrà attraversato la porta stretta della morte. Tutto ciò è il contenuto della buona notizia di Gesù (τοῦ εὐαγγελίου Ἰησοῦ Χριστοῦ) che per Marco è l’inizio (Ἀρχὴ) dell’umanità nuova ed anche l’inizio del dramma umano di Gesù, perché il nuovo da lui incarnato diventa pericoloso per l’antico in cui si sono arroccati egoismo, potere, odio, che hanno lo scopo ragionato, razionale, del controllo e dello sfruttamento del genere umano, e spesso si trincerano dietro una patina religiosa ma dia-bolica.

0I «sepolcri imbiancati», secondo la non tenera definizione di Gesù; tutti coloro che non vivono secondo la condizione dello spirito del Logos ma «secondo la carne», per usare la terminologia giovannea, in una condizione antropica, cioè, ancora imperfetta e incompiuta nonostante i grandi progressi della mente, della scienza e della tecnologia. Non sono queste le componenti di una umanità che attendiamo. La mente può rinnovarsi e assumere nuova configurazione e Paolo suggerisce agli Efesini di “rinnovarsi nello spirito della loro mente” (ἀνανεοῦσθαι δὲ τῷ πνεύματι τοῦ νοὸς ὑμῶν), se proprio hanno ascoltato la verità che è in Gesù, per cui devono deporre l’uomo vecchio e rivestire quello nuovo, «creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Cfr. Ef 4, 20-24]. È dunque dall’ascolto del Logos che può scaturire il rinnovamento, l’antropologia nuova, e nel cogliere al volo il kairos delle sue significazioni. Paolo lega la «pienezza del tempo» alla donna che ha consentito l’incarnazione del Logos. E questa donna, Maria, a differenza della protodonna, ha ascoltato e colto il kairos. È per l’apertura dello spirito antropico che il Logos spirituale ed eterno ha potuto incarnarsi. Non prima. In Maria si è attuato il passaggio dalla mente allo spirito, la prima vera metànoia [21]. La fecondazione dello spirito genererà il «santo» (Lc 1,35: τὸ γεννώμενον ἅγιον), senza ombra di sacralità che è invece labbaglio della mente.

Prima e dopo di Lei, nella vicenda evolutiva dell’antropo, non sono mancati quanti hanno ascoltato o intuito i significati e gli insegnamenti del Logos. La cultura cristiana dei primi secoli ha parlato di  Logoi spermatikoi o Semina Verbi, i semi del Verbo che sono i semi di verità sparsi lungo la cronologia della storia dell’Homo sapiens. Noi riusciamo ad individuare solo quelli conosciuti dalla storia degli ultimi millenni, prima e dopo Cristo, come affermava l’apologista filosofo e martire Giustino (100 – 163/167 d. C.), dicendo che il Logos è disseminato in tutta la storia degli uomini ed è questo il motivo per cui anche prima di Cristo molti filosofi con l’uso della ragione sono arrivati ad alcune verità, anche se mai alla verità tutta interna che è data dalla conoscenza di Gesù. I grandi del passato, quelli che hanno scoperto le più importanti verità, sono stati considerati da Giustino cristiani ante litteram. Abramo e Socrate vengono presentati come prototipi.

«La nostra dottrina dunque appare più splendida di ogni dottrina umana, perché per noi si è manifestato il Logos totale, Cristo, apparso per noi in corpo, mente, anima. Infatti tutto ciò che rettamente enunciarono e trovarono via via filosofi e legislatori, in loro è frutto di ricerca e speculazione, grazie ad una parte di Logos» [22].

Alle orecchie dei Greci e degli ellenizzati il termine Logos non poteva suonare che come “Ragione”. Giustino, intento a presentare ai Romani il Cristianesimo come la vera filosofia, procede su questa via dell’incontro. Il Logos, infatti, prosegue Giustino, era presente nel mondo ancor prima della sua Incarnazione avvenuta in Galilea in Gesù di Nazareth e, ancor prima della sua Incarnazione, gli esseri umani ne parteciparono. L’Apocalisse di Giovanni li sintetizza nella visione della «moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua» (Ap 7,9), brano che nella liturgia viene proclamato nella “festa di tutti i Santi” che non sono solo quelli del calendario ma la gran moltitudine anonima di donne e uomini che si sono lasciati plasmare spiritualmente dall’energia del Logos.

Il Concilio Vaticano II ha esteso la concezione patristica dei Logoi spermatikoi alle religioni e alle culture non cristiane. Sono i semi del Verbo divino che la Chiesa riconosce con gioia e rispetto [23], e che fanno parte di «quanto opera lo Spirito nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e nelle religioni» [24]. Vengono anche riconosciuti gli elementi di bene e di vero presenti tra i non cristiani, che possono essere considerati una preparazione all’accoglienza del Vangelo [25]. Queste ed altre dichiarazioni importanti del Concilio trovano il loro sviluppo nei primi passi, in verità recenti, compiuti nel dialogo interreligioso, con l’intento che finalmente le religioni “si parlino” per dichiarare e mostrare al mondo la verità, la bontà e la bellezza del Logos che le ha ispirate. Il Documento sulla Fratellanza umana per la pace e la convivenza comune, redatto da papa Francesco nel corso del viaggio apostolico negli Emirati Arabi Uniti nel febbraio 2019, e co-firmato anche dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, rappresenta una pietra miliare nella storia del dialogo interreligioso e un impegno serio a ricercare insieme e ad approfondire il senso delle impronte che il Logos ha impresso negli animi di quanti cercano Dio anelando, ad un tempo, al bene dell’umanità.

t-de-chardinResta da rivisitare la grande lezione di Pierre Teilhard de Chardin che ha ipotizzato una evoluzione spirituale dell’antropo oltre quella biologica e mentale. Non siamo ancora ai vertici dell’evoluzione dell’antropo solo perché riteniamo che lo sviluppo dell’intelligenza mentale abbia prodotto, in pochi secoli, i risultati di cui oggi andiamo così fieri. Se solo constatiamo la “ferinità” che ci segna e i cui risultati sono le brutali crudeltà delle guerre e i disastri da noi provocati nel mondo, c’è di che interrogarsi seriamente per concludere che la cultura del Logos è ancora ai suoi esordi, nonostante duemila anni di cristianesimo e di altre confessioni religiose più antiche. Le religioni possono e devono farsi catalizzatrici di una comune filosofia dello spirito, che non può coincidere con un indistinto sincretismo religioso o con qualche forma artificiale di “super religione”, come qualcuno ha stoltamente ipotizzato. Si tratterebbe di sommare e amplificare gli errori che le religioni, chiuse in recinti sacrali, confessionali e istituzionali hanno commesso sino al presente, presumendo un loro monopolio della verità e della cognizione della divinità. Devono invece avvertire la necessità di una comune metánoia, consistente nel distacco dal proprio sé, e alla luce delle ragioni disseminate nel mondo dal Logos archetipo comprendere meglio il sé che non si è ancora [26], andando “oltre la mente” che è il vero senso della metánoia, verso l’alto, nella dimensione dello spirito.

Il peccato del mondo, nella sua origine, non è che frattura della dimensione dello spirito. Una frattura che bisogna ricomporre per avviarsi verso quel punto Ώ preconizzato da Teilhard de Chardin nel suo Le Phénomène humain come telos dello sviluppo umano, punto di arrivo del processo evolutivo dell’umanità e dell’universo, ma anche la causa efficiente per la quale l’universo si muove e converge nella direzione di una sempre maggiore complessità e coscienza. Il Punto Ώ è trascendente, si trova all’esterno del contesto in cui si evolve ogni cosa, perché è ad un tempo causa di attrazione e causa finale, per cui l’uni-verso tende necessariamente verso di esso. Teilhard lo identificava nel Cristo cosmico prefigurato dall’annuncio apocalittico di «nuovi cieli e nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati», e che aveva detto: «Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine, il primo e l’ultimo» (Ap 21-22). Che sarebbe come dire il Logos archetipo e teleologico già nella sua archetipicità, uniformemente presente in tutta la realtà da lui originata. Una uniformità non ancora del tutto realizzata, come intuì bene Dante nell’incipit del Paradiso:

La gloria di Colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove. 
Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023
Note
[1] S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle “Briciole di filosofia”, in Id., Opere, Sansoni, Firenze 1972: 441.
[2] M. e A. Grün, Qualche nota su Dio e sulla fisica quantistica. Due facce della stessa medaglia, TEA, Milano 2019: 68; 76.
[3] W. Heisemberg, Fisica e oltre.Incontri con i protagonisti 1920-1965, Bollati Boringhieri, Torino 2013: 233.
[4] M. e A. Grün, Qualche nota su Dio e sulla fisica quantistica, cit.: 79.
[5] Ibid., 4^ di copertina.
[6] Cfr. S. Beta, “I morti uccidono i vivi”. Il linguaggio enigmatico nella tragedia greca, in A. Taddei (a cura di), Hierà kai hosia. Antropologia storica e letteratura greca. Studi per Riccardo Di Donato, ETS, Pisa 2020: 123-142.
[7] Cfr. John Carrol, L’enigma Gesù, Campo dei fiori, Roma 2013: 20; 27.
[8] Con il Midrash gli ebrei andavano al di là del senso peshat, letterale delle Scritture, e con l’uso delle tecniche dette middot, esegetiche, cercavano una attualizzazione del testo, adattandolo ai bisogni e alle concezioni della comunità e traendone applicazioni pratiche e significati nuovi che sono lontani dall’apparire a prima vista.
[9] Memra, aramaico, parola. La Parola di Dio da cui l’universo è stato creato. Il termine “memra” ricorre nella letteratura Targum -traduzione aramaica della Bibbia ebraica- con connotazioni simili al termine greco logos , inteso da Filone come la mente di Dio rivelatasi nella creazione.
[10] Cfr. G. Vermes, I volti di Gesù, Bompiani, Milano 2000, 61-62; M. e A. Grün, Qualche nota su Dio e sulla fisica quantistica, cit.: 25.
[11] Il termine Midrash fa anche riferimento a un racconto che spiega passi della Bibbia con il fine di insegnare un aspetto della Legge ebraica e di farne emergere una lezione morale. Spesso un Midrash cerca di fornire la risposta a una domanda che sorge dal testo o tenta di risolvere un’apparente incoerenza.
[12] Cfr. F. J. Ayala, Il dono di Darwin alla scienza e alla religione, Jaca Book/San Paolo, Milano 2009: 147-148.
[13] Ibid.: 162.
[14] Ibid.: 154.
[15] M. e A. Grün, Qualche nota su Dio e sulla fisica quantistica, cit.: 74.
[16] F. Facchini, in Ibid., 4^ di copertina.
[17] L’osservazione è di Vito Mancuso, in L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina ed., Milano 2007: 64.
[18] R. Safranski, Heidegger e il suo tempo. Una biografia filosofica, TEA, Milano 2001: 279; 284; 285.
[19] Ibid.:287.
[20] Cit. in G. Ravasi, Il racconto del cielo, Mondadori, Milano 1997: 182.
[21] Per gli aspetti mariologici di questo discorso rimando al mio articolo Generare Dio. Per una fenomenologia del culto mariano, in Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
[22] Giustino, II Apologia, X, 1.
[23] Cfr. Concilio Vaticano II, Decreto Ad gentes, n. 11; Dichiarazione Nostra aetate, n. 2.
[24] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Redemptoris missio, n. 18.
[25] Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 16.
[26] Questa definizione di metànoia è data dal teologo francese Dominique Collin, in ll cristianesimo non esiste ancora, Queriniana, Brescia 2020: 190.
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Leo Di Simone, teologo, scrittore, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo e docente stabile di teologia presso la Scuola Diocesana di Teologia. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per i Migranti. Attualmente è Referente diocesano per il Sinodo dei Vescovi. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti – Firenze): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018).

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