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Oltre il museo: restituzioni e memoria culturale

Parigi, Museo d'Orsay, Statuette del Dahomei

Parigi, Museo Quai Branly, Statuette originari del Dahomej

di Federico Costanza 

Con un solenne discorso nel 2017 all’Università di Ouagadougou, in Burkina Faso, il Presidente francese Emmanuel Macron provò a tracciare una nuova via nelle relazioni tra la Francia e i Paesi africani. Pur dovendo ammettere il discutibile passato coloniale, quello di Macron fu il tentativo di offrire un cambio di prospettiva nei rapporti con le ex colonie. Nell’ambito di nuovi modelli di cooperazione condivisa, propose la restituzione di preziosi oggetti trafugati durante le campagne coloniali nell’Africa sub-sahariana e finiti, nel tempo, ad arricchire le collezioni museali pubbliche francesi.

Incaricò, così, due studiosi universitari di realizzare un elenco ufficiale di questi oggetti, indagare la loro provenienza e le circostanze del loro prelievo, nonché di capire le modalità di restituzione, suggerendo una costante collaborazione fra esperti culturali europei e africani per la tutela e la valorizzazione di questo patrimonio.

Il “Rapport sur la restitution du patrimoine culturel africain. Vers une nouvelle éthique relationnelle” fu presentato un anno dopo, nel 2018, dall’economista e scrittore Felwine Sarr e dalla storica dell’arte Bénédicte Savoy. Ebbe il merito di ridiscutere il modello epistemologico delle collezioni museali e stimolò un dibattito internazionale pubblico sul patrimonio culturale che incrociava già da tempo obiettivi di giustizia riparativa e discussioni di diplomazia culturale.  

Macron a

Macron in Burkina Faso

Sebbene già negli anni 80 e 90 del Novecento si criticasse il concetto di museo come strumento di costruzione di un’ideologia di supremazia delle nazioni europee in ambito culturale, il Rapporto Sarr-Savoy del 2018 determinò un’accelerazione che, pian piano, cominciò a restituire degli esiti.

Un primo risultato di questo processo fu, comunque, la restituzione al Benin, nel 2021, delle prime 26 opere provenienti dal Musée du Quai Branly di Parigi. Le opere appartenevano a una serie di migliaia di oggetti trafugati durante le campagne coloniali di fine Ottocento in quella parte d’Africa e originarie del regno del Dahomey – antica potenza regionale, centro di rilievo durante la tratta degli schiavi, ma anche in ambito artistico. Si trattava di una trentina di statue raffiguranti antichi re, figure mitologiche o divine, spesso erano oggetti con funzione di talismani, magiche o rituali.

locandinaDahomey

La regista franco-senegalese Mati Diop ha vinto nel 2024 l’Orso d’Oro alla Berlinale con il film documentario “Dahomey” che racconta il viaggio a ritroso di questi importanti reperti, facendo emergere tutta la densità simbolica di questa avventura.

Le statue, protagoniste silenziose del saccheggio coloniale, parlano con voce acusmatica in lingua Fon, rivolgendosi allo spettatore. Pongono interrogativi traducendo le stesse inquietudini che, nella seconda parte del film, saranno espresse dai giovani partecipanti a un dibattito presso l’Università di Abomey-Calavi, a seguito del ritorno di questi oggetti in Benin e della loro esposizione con cerimonia solenne presso il Palais de la Marina di Cotonou.

Da una parte, abbiamo questi oggetti nella loro funzione storica e rituale, sacra o magica; dall’altra, l’intreccio di diverse generazioni che si interrogano sull’eredità coloniale, su come risolvere le lacerazioni che il colonialismo ha generato nella propria storia e cultura, su come riappropriarsi di una tradizione che, nel frattempo, è stata in parte dispersa dai colonizzatori, frammentata, travisata, se non, a volte, reinventata.

Questo fa ammettere all’opinionista culturale tanzaniano Charles Kayuka che «[...] le maschere e i feticci che oggi sono conservati nei musei europei, non servirebbe a niente restituirli, perché questi oggetti non hanno alcun valore per gli africani. Sono vuoti, morti, disincantati, hanno perso il loro significato originario perché sono stati strappati dal loro contesto e sono quindi diventati oggetti senza significato. Perché non erano oggetti d’arte, ma oggetti religiosi, rituali e magici. Ecco perché erano così importanti per le società africane dell’epoca» (Bloch, 2019).

Statuetta del re Behanzin di Dahomej

Statuetta del re Behanzin di Dahomej

Nel film, gli oggetti non tornano semplicemente “a casa”, ma rimangono presenze animate che agitano spettri di un passato mai passato. Come sostiene Giulia Grechi riguardo alle società post-coloniali, «il colonialismo è un passato che non passa. Cambia forme e modalità di espressione, cambia linguaggi e luoghi di azione, ma la sua potenza non si è ancora esaurita» (Grechi, 2021).

La regista Diop ricorre spesso alla prosopopea per esprimere concetti più ampi e astrarre dal contesto: nei suoi film, utilizza spiriti, spettri fantasmagorici di parenti e antenati perché fungano da voce della coscienza, consiglieri, mentori, come spesso avviene presso le più antiche civiltà africane.

Mentre si ascolta la voce fuori campo di queste statue, si percepisce quasi una situazione di estraniamento, lo stesso vissuto dai milioni di immigrati e giovani afrodiscendenti che in Europa si sono ritrovati a costruire o ricostruire un’identità nazionale e culturale, partendo magari dal riconoscimento della loro appartenenza a culture diverse.

Lo stesso senso di straniamento è mostrato anche nel dibattito fra gli universitari nella seconda parte del film: cosa rimane dell’identità precoloniale e del suo problematico rapporto con la modernità? Non dimentichiamo, come suggerisce il filosofo congolese Valentin Mudimbe, che il corpus del sapere sull’Africa è fortemente segnato da quello che lo studioso ha definito biblioteca coloniale (Mudimbe, 1988), cioè un’etnologia e un’antropologia coloniale che muovevano da un’idea di superiorità culturale e pregiudizio razziale, con lo scopo di dominare popoli e culture “non occidentali”. Queste sedimentazioni culturali hanno segnato anche la coscienza dei giovani africani, che sentono il bisogno di recuperare la tradizione seppure spesso non riescano più a riconoscerla.

Il film è quindi un atto poetico e politico, una meditazione sulla memoria e sul potere, sull’identità e sul futuro, ma anche una critica implicita all’inerzia istituzionale che ancora caratterizza molti musei europei di fronte alle domande poste dalle trasformazioni demografiche in corso. Cosa raccontano alle nuove generazioni afrodiscendenti in Europa i beni culturali sottratti al continente africano?

i__id11672_mw600__1xI musei come luoghi di riconciliazione?

Le restituzioni non vanno, quindi, lette unicamente in termini di patrimonio, ma come operazioni politiche che incidono sulla legittimazione del sapere e sulla riconfigurazione delle relazioni culturali tra Europa e Africa.

L’idea stessa di collezione etnografica e la sua esposizione in vetrina nasce da una logica di possesso e classificazione che rifletteva la gerarchia coloniale. D’altronde, come asserisce il filosofo senegalese Issa Samb, «[…] la classificazione contiene il germe del razzismo» [1]. E, in questo senso, il museo pubblico occidentale del XIX secolo è stato uno strumento per costruire un’ideologia di supremazia culturale europea, il suo allestimento non è mai stata un’operazione neutra e imparziale. Come si è detto, a metà degli anni Ottanta del secolo scorso la “New critical museology” mise in evidenza come l’istituzione museale fosse parte di una rete di relazioni di potere ed espressione della società che l’ha prodotto.

D’altronde, neanche il coinvolgimento di comunità ed esperti nativi aveva mai effettivamente inciso sul potere decisionale dei musei e sulle proposte di restituzione. Piuttosto, è interessante seguire l’evoluzione del contesto internazionale che norma la gestione delle restituzioni e che rimane uno dei nodi di questa second wave dei processi di decolonizzazione, come spiega bene Maria Pia Guermandi [2]. Così come un altro problema che ha caratterizzato il dibattito sulle restituzioni riguarda ancora le opportunità di trattamento di questi reperti e le competenze dei musei che dovrebbero ricevere e tutelare questo patrimonio.

Un dibattito che ha coinvolto, in verità, anche le industrie culturali di Paesi interessati dal cosiddetto “settlement colonialism” (il colonialismo di insediamento) come l’Australia (si pensi alla riforma di politica culturale “Creative Nation” del 1994), la Nuova Zelanda, gli Stati Uniti o il Canada. Qui il ruolo delle popolazioni native è stato importante nel rivendicare il patrimonio culturale come elemento identitario. I primi risultati si sono avuti con l’apertura del Te Papa Tongarewa (Nuova Zelanda, 1998) e del National Museum of American Indian (USA, 2004), con la collaborazione di rappresentanti delle popolazioni native [3].

81evn7hl2yl-_ac_uf10001000_ql80_Un processo che non è stato altrettanto efficace in Europa, anche a causa dell’iniziale opposizione delle istituzioni museali. La restituzione dei materiali sottratti durante il colonialismo è stata a lungo vista come una minaccia all’integrità delle collezioni europee. Spesso, si è andati quindi solo incontro a mere operazioni di superficie, riallestimenti, riorganizzazioni etnografiche e cambi di nomenclature, senza l’avvio di pratiche museali di decolonizzazione più ampie.

Decolonizzare come verbo significa piuttosto sovvertire l’impianto epistemologico del museo nelle sue pratiche di mostrazione (Grechi, 2021). L’interpretazione da abbandonare vede ancora il museo come un accumulo di ricchezze da contemplare, uno specchio colossale nel quale l’uomo «[…] si abbandona all’estasi espressa in tutte le riviste d’arte», come ebbe a definirlo l’intellettuale Georges Bataille sulla rivista “Documents” del 1974 (Bataille, 1974: 177-178). Si tratta di un modello presumibilmente tutto occidentale, quello di accumulare, collezionare, classificare e, infine, contemplare tale raccolta ordinata, in cui l’individuo europeo vede riflesso se stesso, ponendosi culturalmente in una situazione di superiorità rispetto agli altri.

Un’attitudine che stenta a evolversi se pensiamo anche a come sono state riorganizzate alcune prestigiose collezioni etnografiche europee, nate proprio per cercare di ricucire lo strappo con le culture di provenienza dei reperti ivi conservati. Spiccano esempi come quello del Museo del Quai Branly che doveva mettere in evidenza la diversità culturale come ricchezza, ma in cui fu riproposto, in realtà, un approccio gerarchico, le culture non occidentali presentate comunque come legate al passato, senza, peraltro, tenere in conto il contesto coloniale nel quale vennero costituite tali raccolte.

Museo Reale dell’Africa Centrale di Tervuren in Belgio,

Museo Reale dell’Africa Centrale di Tervuren in Belgio

L’altro esempio è quello dell’ex Museo Reale dell’Africa Centrale di Tervuren in Belgio, nato come Museo del Congo per illustrare ai belgi e ai possibili investitori nell’impresa coloniale lo splendore dell’opera di re Leopoldo II in Congo. Chiuso nel 2013, il museo ha riaperto cinque anni dopo come AfricaMuseum grazie anche agli interventi artistici dei congolesi Aimé Mpane e Chèri Samba, nel tentativo di ripensare criticamente le proprie collezioni e collocarsi all’interno del dibattito internazionale sulle restituzioni e i processi di decolonizzazione.

«Tuttavia – come asserisce l’antropologa Valentina Lusini – l’atto stesso di musealizzare le dinamiche delle relazioni di dominio che hanno fondato e fondano l’esistenza stessa del museo poggia sull’inevitabile trappola della storicizzazione, che relega nella visione retrospettiva dal presente il passato come flusso di fatti e vicende finite da tempo, non più legate alla vita delle persone» [4].

Un tentativo fallito perché incapace di “provincializzare l’Europa” come incoraggiava a fare Dipesh Chakrabarty (Chakrabarty, 2000), ovvero respingere la centralità che il mondo occidentale ha sempre dato di sé stesso, ma anche di considerare le diseguaglianze che questo modello ha perpetrato fino ai giorni nostri.

In fondo, questo dissociare l’oggetto dalle persone è un tratto tipico di quella che la saggista e curatrice Ariella Azoulay definisce violenza imperiale, oggetto della sua ricerca più attuale (Azoulay, 2019). Secondo questa interpretazione, l’imperialismo in ogni sua emanazione storica opera non solo saccheggiando ma sostituendo le entità esistenti, privando le popolazioni non soltanto degli oggetti e del loro valore materiale, quanto del corollario di funzioni giuridiche, artistiche, sociali, religiose, politiche che essi avevano all’interno delle società dominate. L’imperialismo crea nuove istituzioni che legittimano la divisione fra “cittadini” e “non cittadini”. L’esempio delle masse di migranti provenienti dalle ex colonie europee e respinte alle frontiere della “fortezza Europa” è evidente.

Parigi, Museo Quai Branly, statuetta della Nigeria

Parigi, Museo Quai Branly, statuetta della Nigeria

L’inizio di un nuovo patto culturale?

In Europa si stima che oggi vivano oltre 9 milioni di persone con origini africane. Tra il 1985 e il 2020 la popolazione di UE e Gran Bretagna è cresciuta di 45 milioni di unità, i due terzi dei quali hanno origini extra europee. Secondo diverse stime, entro il 2050 ci confronteremo con una popolazione che dagli attuali 5 passerà a circa 20 milioni di nuovi europei di origine sub-sahariana.

Il corollario a questa straordinaria congiuntura demografica è l’ineludibile necessità da parte di queste nuove generazioni di indagare il proprio passato. Sarà un’opportunità – e una responsabilità – per ripensare l’approccio culturale verso i nuovi europei con background migratorio in maniera organica. Da questo punto di vista, i musei europei del futuro potrebbero trasformarsi da templi della memoria a veri e propri laboratori di cittadinanza.

“Io sono il volto della metamorfosi” dice la voce in sottofondo a chiusura del film Dahomey, mentre sfilano le immagini di mannequin su pannelli pubblicitari che mostrano tutte le contraddizioni dei modelli culturali con cui si confrontano quotidianamente le giovani generazioni africane (pensiamo al fenomeno violento dello sbiancamento della pelle, per esempio).

Il ritorno delle statue in Benin ci aveva lasciato con una domanda pronunciata da un’opera: “è questa la fine del mio viaggio”? Infine, la stessa voce in lingua Fon risponde con un messaggio perentorio: “cammino, non mi fermerò mai”.

Questo è il giovane continente in marcia, pronto a mutare, sognante come la donna che chiude il racconto e descrive quella modernità che uno degli autori del Rapporto sulle restituzioni, Felwine Sarr, ci ricorda essere un atopos, un luogo non ancora abitato dall’Africa che sta arrivando e che chiameremo “Afrotopia” (Sarr, 2018).

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 
Note
[1] Estratto da una conversazione con Clémentine Deliss, contenuta in Deliss, 2020.
[2] Guermandi M. P., Fra nuove leggi e vecchie criticità, in “Africa e Mediterraneo. Cultura e Società”, n. 1/24 (100) Novembre 2024: 20-27, Edizioni Lai-Momo Bologna.
[3] Guermandi M.P., Le storie degli altri. Decolonizzare i musei e non solo in “93 per cento”, #35/giugno 2023 (https://novantatrepercento.it/035-02-le-storie-degli-altri-decolonizzare-i-musei-e-non-solo)
[4] Lusini V., Un patrimonio condiviso? Cronaca di una visita all’AfricaMuseum di Tervuren, in “Africa e Mediterraneo. Cultura e Società”, n. 1/24 (100) Novembre 2024: 84, Edizioni Lai-Momo Bologna. 
Riferimenti bibliografici
Azoulay, A. A., Potential History: Unlearning Imperialism. Verso Books 2019.
Bataille, G., Documents, Dedalo Libri, Bari 1974.
Bloch, W., Tansania und die Kolonialzeit – Der afrikanische Blick, im Deutschlandfunk Kultur – 26 febbraio 2019.
Chakrabarty, D., Provincializing Europe: postcolonial thought and historical difference, Princeton University Press, Princeton 2000.
Grechi, G., Decolonizzare il museo. Mostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incarnati, Mimesis Edizioni, Milano – Udine 2021
Mudimbe, V.-Y., The invention of Africa. Gnosis, Philosophy and Order of Knowledge, Indiana University Press 1988.
Sarr, F., Afrotopia, Edizioni dell’Asino, Roma 2018.

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Federico Costanza, si occupa di progettazione e management strategico culturale, con un’attenzione specifica all’area euro-mediterranea e alle società islamiche. Ha diretto per diversi anni la sede della Fondazione Orestiadi di Gibellina in Tunisia, promuovendo numerose iniziative e sostenendo le avanguardie artistiche tunisine attraverso il centro culturale di Dar Bach Hamba, nella Medina di Tunisi.

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