Il termine “ideologia” ha due principali significati. Il primo, il più comune e diffuso, indica un sistema, più o meno coerente, di idee, credenze e convinzioni che orientano l’azione sociale e politica (finalità, strategie, tattiche, metodi etc.) di soggetti individuali e collettivi (associazioni, organizzazioni, movimenti, partiti, sindacati etc.). Si parla così, ad esempio, di ideologia liberale, socialista, comunista, fascista. In questo senso (prevalente nella politica pratica e nella storia del pensiero politico) un suo semi-sinonimo è “dottrina”, peraltro non sempre interscambiabile. Dottrina cattolica e ideologia cattolica sono due cose diverse. Ma la Storia delle dottrine politiche (uno dei primi insegnamenti della facoltà di Scienze politiche) era la denominazione tradizionale di quella che spesso è ora chiamata la Storia del pensiero politico. Quando a prevalere è la credenza, si può anche parlare, nello stesso senso, di “fede” (fede cristiana, fede socialista, fede comunista etc.).
Nel secondo significato l’ideologia è invece il termine tecnico con cui in filosofia e in sociologia si indica un sistema di pensiero influenzato o condizionato dalla posizione sociale del soggetto: un sistema che, come tale, differisce da quello scientifico, che almeno tendenzialmente dovrebbe essere estraneo a tali influenze, cui peraltro, di fatto, non è mai interamente sottratto.
In molti casi i due significati coesistono, s’intrecciano e si sovrappongono, soprattutto nell’uso polemico del termine, cui farò cenno più avanti. Per questo in ambito scientifico è meglio utilizzare un termine più neutro, come “pensiero” (per esempio, pensiero illuminista, pensiero romantico, pensiero evoluzionista etc.).
In questo scritto mi soffermerò soprattutto sul secondo significato, apparso nella prima metà dell’Ottocento (così come lo stesso termine “ideologia”), sebbene non erano mancate in precedenza intuizioni e affermazioni anche icastiche che ne implicavano l’idea. Cito, per tutte, l’asserzione, attribuita a più di un autore, secondo cui “in un castello e in una capanna si pensa diversamente”.
Fra le elaborazioni più significative dei secoli precedenti va ricordata la critica ai vizi del pensiero presente nella pars destruens del Novum Organum (1620) di Francesco Bacone (1561-1626), una delle opere fondative del pensiero scientifico. Bacone, elencando gli elementi che ostacolano una corretta conoscenza (abbagli, distorsioni, illusioni e credenze infondate, individuali e collettive) ha distinto idola tribus, idola specus, idola fori e idola theatri: una classificazione ricordata e spiegata anche nei manuali di storia della filosofia.
Successivamente questi e ad altri elementi distorsivi sono stati analizzati da diversi illuministi e poi da alcuni loro epigoni, gli idéologues, dedicatisi specificamente allo studio delle idee. È stato il loro caposcuola, Antoine Destutt de Tracy (1754-1836), che ha introdotto il termine “ideologia” (Projet d’éléments d’idéologie, 1801) e ha poi pubblicato un’opera che, pur avendo al suo centro altri temi, ha aperto la strada al riconoscimento dei condizionamenti sociali della coscienza e della conoscenza (Éléments d’idéologie, 1825-27). Ad attribuire al termine ideologia una connotazione negativa non è però stato lui, ma Napoleone Bonaparte, che in un suo discorso (1812) ha criticato aspramente, in nome del realismo politico, il “dottrinarismo” degli idéologues, che avversava per la loro critica del suo autoritarismo, pur espressa con una certa prudenza (Destutt de Tracy, pur non essendo mai stato un nemico della Rivoluzione, durante il Terrore era stato messo in carcere, come molti altri sospettati di autonomia intellettuale, e buon per lui che non gli era stata tagliata la testa, come a molti altri personaggi non solo politici).
Il primo utilizzatore del termine “ideologia” nel moderno senso critico è stato però Marx (1818-1883), che nell’Ideologia tedesca (scritta con Engels tra il 1845 e il 1846, ma abbandonata alla “rodente critica dei topi” per il venir meno dell’editore e pubblicata postuma solo molto più tardi, nel 1932) se ne è servito per denunciare i pregiudizi e le distorsioni presenti nel pensiero dei suoi avversari, che esprimevano (anche in buona fede, ma con “falsa coscienza”) gli interessi delle classi dominanti. Il suo pensiero, a quanto riteneva, era invece esente da simili “echi” e “riflessi” negativi, poiché rappresentava gli interessi di una classe sociale in ascesa, il proletariato, che non aveva privilegi da tutelare. Una classe che, come scrisse, sempre con Engels, nel Manifesto (1848), non aveva altro da perdere che le proprie catene e, liberando sé stessa, avrebbe liberato tutta l’umanità, ponendo fine al succedersi delle società di classe, “preistoria” della vera storia umana.
In altre parole, per Marx, il pensiero ideologico era, in sostanza, una difesa o una promozione degli interessi delle classi dominanti, cui i suoi oppositori appartenevano o erano più o meno collegati o legati, non disinteressatamente. Un’operazione inconsapevole (oggi, dopo Freud, potremmo dire inconscia), perché altrimenti avrebbe parlato di mistificazione dolosa o di pura e semplice menzogna.
Quest’uso del termine ideologia, per criticare alla radice le elaborazioni teoriche degli avversari (un uso ripreso dai suoi seguaci e ancora presente nel marxismo dogmatico), rappresenta l’uso polemico del termine ideologia, cui ho fatto sopra riferimento. Sarebbe stato Karl Mannheim (1893-1947) a proporre il superamento di questa concezione di parte, anche per questo da lui definita “parziale”, introducendone una “generale”, che estendeva la critica del condizionamento sociale del pensiero a tutti i soggetti, indipendentemente dalla loro posizione sociale e dal loro orientamento politico. Per di più, Mannheim ha sottolineato che il condizionamento sociale del pensiero investe non solo certe affermazioni di un soggetto (come nella concezione “particolare” dell’ideologia), ma le stesse forme di pensiero presenti in un determinato contesto, comprese le sue categorie fondamentali (un’estensione che porta alla sua concezione “totale”). Questa complessa elaborazione, al centro del suo classico studio Ideologia e Utopia (1929), in cui ideologia sta per il pensiero conservatore e utopia per il pensiero rivoluzionario (una distinzione non così coerente con il resto della sua analisi), ha gettato le basi della moderna sociologia della conoscenza (da non confondere con la gnoseologia, cioè la già ben consolidata filosofia della conoscenza), poi sviluppata da altri autori, su cui non mi soffermo.
Ovviamente le affermazioni di Mannheim sono state ampiamente discusse e non si è mancato di rilevare l’aporia presente in una teoria che si morde la coda, configurando come socialmente condizionate tutte le teorie, e quindi anche sé stessa. Dopo vari tentativi mal riusciti di uscirne, Mannheim ha creduto di poter superare quell’aporia asserendo l’esistenza di un “sottile strato sociale” capace di un pensiero socialmente svincolato: la freischwebende Intelligenz, costituita dagli intellettuali emancipatisi dalle proprie origini sociali e impegnati in un costante confronto reciproco (il dibattito scientifico) in grado di eliminare via via gli eventuali residui ideologici in loro presenti. Una categoria, va sottolineato, cui lo stesso Mannheim apparteneva, anche se evita di dirlo espressamente. È però una risposta molto debole sul piano teorico, anche se esistono indubbiamente degli intellettuali capaci di liberarsi, in più o meno ampia misura, degli originari condizionamenti sociali. Per di più, in tale elaborazione, è sin troppo facile intravedere un’ideologia degli intellettuali, subentrata, con simile funzione, a quella della classe proletaria, che Marx pensava di rappresentare.
Non è questa la sede per entrare nel dibattito su questa contraddizione, probabilmente insolubile. Da parte mia, mi limito a dire che la conclusione da trarne non è né il relativismo assoluto (ancor più contraddittorio) né il poco chiaro “relazionismo” postulato da Mannheim, bensì una lezione di umiltà, da tener presente anche nella ricerca scientifica più sorvegliata.
Vale invece la pena di ricordare il dibattito sulla “fine delle ideologie”, sviluppatosi in Occidente nel secondo dopoguerra, specialmente dopo la pubblicazione del libro di Daniel Bell dedicato a quel tema (The End of Ideologies, 1960). Per i suoi critici più severi, fra cui C. Wright Mills (1916-1962), forte sostenitore della responsabilità sociale e politica degli intellettuali, quell’azzardata teoria sarebbe stata solo una nuova ideologia conservatrice, di cui il tempo avrebbe fatto giustizia, così come in effetti è avvenuto. Lo stesso può dirsi per l’ancora più azzardata ipotesi della “fine della storia”, avanzata più tardi da un altro studioso americano, Francis Fukuyama (n. 1952), in uno dei tanti testi più citati che letti della recente letteratura politologica (The End of History and the Last Man, 1992).
Avendo richiamato il ruolo degli intellettuali, ricordo l’attenzione dedicatagli da Antonio Gramsci (1891-1937). Nei Quaderni del carcere (scritti fra il 1929 e il 1935, ma pubblicati postumi nel dopoguerra) si era molto soffermato, fra l’altro, sulla loro funzione nella cosiddetta “egemonia culturale”, un tema ritornato di recente al centro del dibattito culturale e politico. Per Gramsci, che ha rivisto in modo più articolato il rapporto fra struttura e sovrastruttura (base della concezione marxiana dell’ideologia), la conquista dell’egemonia culturale da parte degli intellettuali organici alle classi lavoratrici avrebbe rappresentato, nelle società sviluppate, la condizione sine qua non della loro ascesa al potere, che non era ancora avvenuta, proprio per la sua mancanza, là dove Marx se l’attendeva (le società economicamente più avanzate). La loro conquista del potere sarebbe invece avvenuta (come Gramsci ancora credeva) in una società assai arretrata, come la Russia, con gravissime conseguenze (Gramsci è stato un precoce critico dello stalinismo, anche se non era giunto a intravedere la costituzione là di una nuova società di classe, individuata più tardi da altri, fra cui il nostro Bruno Rizzi).
Per quanto concerne le società avanzate, secondo Gramsci sarebbero state la scolarità di massa gestita dallo Stato borghese e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa controllati dai ceti al potere a diffondere fra i lavoratori una “falsa coscienza” affetta da individualismo, nazionalismo e consumismo. Un tema su cui dopo di lui si è ampiamente discusso (cito per tutti i contributi della Scuola di Francoforte e, in particolare, del suo esponente più giovane, Herbert Marcuse) e si continua ancora a discutere.
L’“egemonia culturale” è una questione troppo importante perché la si possa liquidare in poche battute. Mi limiterò quindi a dire che la sua ricerca con mezzi impropri e controproducenti, come è avvenuto in Italia, a lungo connotata dalla presenza del più grande partito comunista dell’Europa occidentale, ha portato a gravissimi abusi, fra cui tante clamorose ingiustizie nei concorsi universitari e il rifiuto di veri e propri capolavori da parte di alcune ossequienti case editrici. È necessario cambiare strada.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
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Umberto Melotti, ha insegnato Sociologia e Antropologia culturale all’Accademia di Brera, all’Università di Pavia e, come ordinario, per ventisei anni, alla “Sapienza”. Ha fondato e diretto la rivista “Terzo Mondo” ed è stato a lungo membro della direzione dell’“International Review of Education”, pubblicata in tre lingue dall’Unesco. Fra le sue numerose pubblicazioni: Marx e il Terzo Mondo (Il Saggiatore, 1972), tradotto in inglese, spagnolo e cinese; L’immigrazione: una sfida per l’Europa (Edizioni Associate, 1992); Etnicità, nazionalità e cittadinanza (Seam, 1999); Migrazioni internazionali, globalizzazione e culture politiche (Bruno Mondadori, 2004), parzialmente tradotto in molte lingue; Marx: passato, presente, futuro (Meltemi, 2019).
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