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Narrazioni ed educazione nell’Israele arabo

Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2019 @ 00:09 In Cultura,Società | No Comments

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da Hand in Hand, Educational Resource Center

di Hamza Younis

«I do not agree that the dog in a manger has the final right to the manger even though he may have lain there for a very long time. I do not admit that right. I do not admit for instance, that a great wrong has been done to the Red Indians of America or the black people of Australia. I do not admit that a wrong has been done to these people by the fact that a stronger race, a higher-grade race, a more worldly wise race to put it that way, has come in and taken their place».

Questa fu la risposta di W. Churchill sulla possibilità che sia stata consumata  ingiustizia nei confronti del popolo palestinese.

Ad inizio secolo chi era arabo musulmano veniva descritto come primitivo e incapace, allo scopo di giustificare l’occupazione e la rapina della loro terra. La narrazione sulla presunta superiorità della razza bianca o sul privilegio dell’ipotetica razza ebraica serve a spiegare e motivare le azioni prepotenti e violente del passato, a legittimare il persistente monopolio delle risorse da parte delle potenze straniere.

Al tempo della sua fondazione, ogni argomento che potesse danneggiare l’immagine del “progetto divino” e mettere in discussione la legittimità dello Stato d’Israele, veniva scartato dalla narrazione egemone occidentale. Per forza di cose questa descrizione dei fatti ha reinventato e quindi costruito una rappresentazione negativa dell’arabo musulmano: un Orientalismo che giustifica l’intervento straniero in Medio Oriente, innalza ed esalta i modi di fare europei, ignora o condanna la cultura autoctona.

È noto che le potenze europee d’inizio secolo scorso hanno avuto un ruolo e una responsabilità considerevole nella creazione e nella formazione dello Stato ebraico. Il processo di preparazione alla creazione degli Stati nazione e la loro integrazione nel mercato globale ovvero la colonizzazione moderna fu un periodo ritenuto necessario fin quando gli arabi non avessero imparato a governarsi da soli. Ma sulla Palestina il governo mondiale ha tradito le promesse e l’Inghilterra ha rinnegato i suoi libri bianchi, dal momento che la particolarità di Israele sta nel fatto che il khalifa lasciato a gestire lo Stato moderno è europeo, a differenza di tutte le nazioni limitrofe nelle quali sono state dinastie arabe o musulmane a proseguire le strade designate dalle potenze coloniali.

Oggi giorno nei media israeliani e occidentali l’arabo, musulmano principalmente, è rappresentato come il nemico, configurato come Hamas, Iran o Hizballah. Questa versione della storia – una pedagogia quotidiana e pervasiva – è necessaria anzitutto per persuadere i cittadini al fine di tollerare e accettare gli atti palesemente ingiusti del proprio governo. Se gli israeliani non si sono sentiti in colpa prendendo la casa di qualcun altro, se non pensano che sia un crimine bruciare un bambino vivo, se non sentono di dover fermare il loro governo quando massacra Gaza, è perché giustificano questi comportamenti per qualche sacra ragione, in nome di qualche nobile e superiore fine.

Vivono in un mondo che non ci prende in considerazione come soggetti alla pari, una realtà che proclama l’Askenazita in cima alla piramide sociale, una narrazione che fa odiare ai Mezrahi l’arabo che c’è in loro e che crea complessi di inferiorità e conflitti interni nei musulmani e cristiani dello Stato ebraico.

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Soldato arabo-israeliano

Penso che a livello identitario, la vittima principale della distruzione dell’immagine dell’arabo siano gli ebrei sefarditi, diventati etnicamente ebrei da quando hanno messo piede in Israele, hanno smesso di appartenere al mondo arabo islamico, anzi si sono trovati in guerra con il loro passato, ma il conflitto interno degli arabi ebrei è tema complesso che richiede una riflessione da sviluppare a parte.

Io sono nato in un paesino piccolo accanto a Nazareth dove i miei avi hanno vissuto almeno per le ultime dodici generazioni. Sono cresciuto con la consapevolezza che non posso esercitare pienamente i miei diritti, che esiste un tetto massimo per le mie opportunità, per le mie aspirazioni. Per rimanere lì devo imparare ad essere un bravo ragazzo e devo abbassare la testa ogni tanto. Sono nato in Israele e appartengo anche al popolo palestinese, sono il “nemico interno”, quei cani di cui parlava Churchill, arabi del ‘48, palestinesi israeliani, musulmani israeliani.

È vero che tanti ragazzi dalle mie parti aspirano a poter fare un giorno la vita dei Askenaziti, sognano di aver la villetta sul mare, una macchina costosa, un lavoro facile e ben pagato, loro vivono la vita perfetta, tutti o quasi tutti noi desideriamo avere una vita “liscia”, senza complicazioni e senza sentire un’aria di soffocamento e di incertezze continue.

La dimensione simbolica non è sufficiente, penso che non basti la narrazione per cambiare le vite delle persone, a questa si aggiunge il bisogno di esercitare il potere coercitivo su di loro, di poter dettare regole e applicare quindi sanzioni a chi non le rispetta.

Con l’affermarsi dei confini rigidi – muri, recinzioni, fili spinati – c’è stato un improvviso sconvolgimento delle vecchie alleanze e dei modi di sussistenza nostri. Dal ‘48 fino al ‘66 l’autorità israeliana ha avuto un atteggiamento molto rigido nei nostri confronti, il governo militare con i suoi gendarmi controllava le entrate e le uscite dai nostri territori, poteva imporre il coprifuoco quando serviva: per viaggiare, per lavorare, andare all’ospedale c’era il bisogno di ottenere il permesso dei servizi segreti e i loro agenti (Abu Saad, 2001).

L’esperienza del regime militare è servita a confinarci negli strati più bassi della società israeliana. Si è creato e solidificato un gap tra noi e loro che ha prodotto una stratificazione non equilibrata e si è affermato un rapporto di dipendenza e subordinazione politica, economica e sociale. Al termine del regime militare sono state riformulate politiche differenti per mantenere in un rapporto di dipendenza la minoranza araba e islamica nel sistema economico egemonizzato dalla maggioranza ebraica (Selikter, 1984, Abu saad, 2003, Lustick, 1980, Mcdowall, 1989).  Un lungo percorso che ha visto la confisca di terre (Jiryis, 1976; Yiftachel, 1999; Kretzmer, 1990), la iniqua distribuzione delle risorse (Roosenfeld and Al Haj, 1990), il non riconoscimento degli insediamenti e la loro demolizione (Falah, 1989; Rouhanna, 1998), pochi incentivi statali per sviluppare l’industria e l’impedimento per gli arabi di occupare cariche di alto grado nel settore pubblico (Khalifa, 2001; Lewis-Epstein, 1993).

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da Hand in Hand, Educational Resource Center

Un aspetto fondamentale della nostra vita su cui il governo democratico ha avuto e continua ad avere il pieno controllo è il settore dell’educazione. Nelle scuole israeliane la maggior parte delle materie che si occupano di descrivere i palestinesi e di narrarne la storia è orientata a ricostruirne i contenuti per essere coerente con la versione sionista (Abu Saad, 2001).

Nei libri di divulgazione storica sono scritte considerazioni negative che insinuano che noi siamo cattivi di natura. Nei manuali scolastici – ha scritto Laura Nahawi Smith – si nega la storia degli autoctoni per affermare le ideologie coloniali. La dispersione di un numero rilevante di insegnanti e intellettuali palestinesi a seguito della guerra del ‘48, ebbe effetti negativi sul sistema educativo arabo in Israele. Questo vuoto ha portato ad una paralisi dell’organizzazione scolastica, tanto più per il fatto che non era facile diventare degli insegnanti o dei presidi senza l’approvazione dei “servizi di sicurezza nazionale israeliana” (Abu Saad, 2001).

Il governo israeliano ha prodotto l’insegnante indifferente e non politicizzato, escludendo dal settore educativo chi prendeva posizione, chi era attivo nel sociale, così che gli insegnanti arabi in Israele devono non solo accettare questa condizione ma anche sostenerla e giustificarla.

A volte gli insegnanti scoppiavano, ogni tanto si lasciavano andare, ogni tanto dicevano tutta la verità. Mi ricordo quando una volta il mio professore ha pianto, ha parlato di Mohammad al-Durra e ci ha ricordato quanto è importante portare testimonianza, ci ha detto quanto nobile è il lavoro del giornalista e quanto per noi è fondamentale far udire la nostra storia.

Finita l’intifada, tutto è tornato alla normalità, e per i professori Israele è tornata ad essere democratica come nei libri scolastici, ma ci capivamo con gli insegnanti, ci sono bastati pochi momenti di sincerità.

Nonostante in Israele vi sia una diversità di attori e forze sociali, al contempo esiste di fatto una corrente dominante ebrea sionista venuta da Occidente che controlla la riproduzione del sapere e condiziona la memoria collettiva, promuove una narrazione che non prende in considerazione il punto di vista della popolazione autoctona, una ideologia che continua a negare i soprusi del passato, non ammette colpa e non chiede scusa, una politica culturale che sostiene l’idea che quella terra è in primis privilegio e diritto della presunta etnia ebraica, legittimata nel proprio potere in cima alla piramide sociale. Una voce che ogni giorno mi sussurra: «non sei voluto qua, anche se sei nato qua non è casa tua».

Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
 Riferimenti bibliografici
 Abu-Saad, I. (2001), Education as a tool for control vs. development among indigenous peoples: The Case of Bedouin Arabs in Israel, Hagar: International Social Science Review, 2 (2): 241-259.
Abu-Saad, I. (2003), Israeli ‘Development’ and Educa on Policies and their Impact on the Negev Palestinian Bedouin, Holy Land Studies: Interdisciplinary Journal, 2 (1): 5–32.
Al-Haj, M. (1995), Education, Empowerment and Control: The Case of the Arabs in Israel, State University of New York: Albany, NY.
Falah, G. (1989), Israel state policy towards Bedouin sedentariza on in the Negev, Journal of Pales ne Studies, 18 (2): 71-90.
Jiryis, S. (1976), The Arabs in Israel, New York: Monthly Review Press.
Khalifa, O. (2001), Arab political mobiliza on and Israeli responses, Arab Studies Quarterly, 23 (1): 15-36.
Kretzmer, D. (1990), The Legal Status of the Arabs in Israel, Boulder, CO: Westview Press.
Lewin-Epstein, N. and Semyonov, M. (1993), Arabs in the Israeli Economy, Boulder, Colorado: Westview Press.
Lus ck, I. (1980), Arabs in the Jewish State: Israel’s Control of a National Minority. Austin: University of Texas Press.
McDowell, C. (1992), Standardized Tests and Program Evalua on: Inappropriate Measures in critical  mes, in A. Madison (ed.),Minority Issues in Program Evalua on No. 53. San Francisco: Jossey-Bass: 45-54.c
Rouhanna, N. (1998), Israel and its Arab citizens: Predicaments in the rela onship between ethnic states and ethnona onal minori es, Third World Quarterly, 19 (2): 277-299.
Rosenfeld, H., and Al-Haj. M (1990), Arab Local Government in Israel, Boulder, CO: Westview Press.
Seliktar, O. (1984), The Arabs in Israel: Some Observa ons on the Psychology of the System of Controls, Journal of Conflict Resolu on, 28 (2): 247- 69.
Yiftachel, O. (1999), ‘Ethnocracy’: The Poli cs of Judaizing Israel/Pales ne’,Constella on: An International Journal of Critical and Democratic Theory, 6: 364–390.
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Hamza Younis, giovane studente israeliano di origine palestinese, ha studiato ad Haifa e si è laureato in Economia e Management presso l’Università degli studi di Parma e iscritto al corso magistrale in Antropologia culturale presso l’Università di Torino. Ha seguito i corsi e i workshop focalizzati allo studio dell’area mediterranea e ha recentemente intrapreso un progetto di ricerca sull’Islam quotidiano e in particolare sulla comunità marocchina insediata a Torino.

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