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Appartenenze multiple, migrazioni e mediazioni

 

downloaddi Chiara Dallavalle

I libri di narrativa sono sempre più storie di vite, un genere letterario che si va affermando ai confini dell’antropologia con scritture in bilico tra verità autobiografica e finzione romanzesca. Nella trama dei fatti realmente accaduti si mescolano suggestioni dell’immaginario, trasposizioni metaforiche e invenzioni fantastiche. A volte, la storia di vita che si racconta è invece, pur sul filo di una narrazione di ispirazione letteraria, il frutto di una rigorosa e rispettosa ricerca etnografica, la testimonianza che ha valore di documento di un incontro tra chi racconta e chi ascolta, tra il protagonista e il narratore. Le due voci si incontrano, si mescolano, si fondono fino a confondersi in un testo che appartiene alla letteratura quanto all’antropologia.

É il caso della storia di Ameze raccontata nel libro di Brigitte Atayi e Vanessa Maher, Ameze. Mondi che si incontrano (Gabrielli editore, 2021), la storia autobiografica di un viaggio, il viaggio di una donna coraggiosa – ovvero Brigitte – che cerca la sua strada nel mondo. Il racconto è l’esito di lunghe e assidue conversazioni con l’antropologa Vanessa Maher che ha restituito le vicende narrate e le ha accompagnate e arricchite con sue conoscenze ed esperienze sul campo. È un viaggio innanzitutto fisico, perché la protagonista vive in prima persona l’esperienza della migrazione, allontanandosi dalla natìa Africa più volte e per trasferirsi di volta in volta in Paesi anche molto diversi tra di loro. Ma è soprattutto un viaggio tra le relazioni, in cui Ameze si muove alla ricerca di una propria appartenenza, attraverso il superamento di stereotipi e pregiudizi che di volta in volta le vengono attribuiti.

La prima migrazione di Ameze è africana, ed è l’effetto della separazione dei genitori. Ameze nasce in Nigeria ma a soli 8 anni è costretta a trasferirsi in Tanzania per vivere con il padre, che nel frattempo si è risposato. La Nigeria è un Paese che ritorna spesso nei discorsi sulla migrazione. Se ne parla in relazione all’infelice esperienza della tratta, un fenomeno che in Italia coinvolge migliaia di giovani donne nigeriane costrette a prostituirsi. Ma se ne parla anche rispetto alla costante situazione interna di instabilità e violenza in cui il Paese si trova da anni, e che provoca l’emigrazione di tanti giovani verso l’Europa. Tuttavia, senza voler negare tutto ciò, la protagonista di questo romanzo ci presenta un’Africa diversa dai soliti cliché di Paese povero e sottosviluppato.

Ameze nasce in una famiglia agiata, cresce in un contesto culturalmente stimolante e abitato da membri dell’élite locale e straniera, quali diplomatici, liberi professionisti e docenti universitari. Il padre di Ameze tiene molto all’educazione dei propri figli, e questo le consente di proseguire gli studi anche a livello universitario, spingendosi fino a Londra dove sceglie di studiare recitazione. In quegli anni Ameze si muove fluidamente tra l’Inghilterra e l’Africa, cogliendo gli aspetti positivi di entrambi i Paesi. Una volta laureata, decide di ritornare in Tanzania dove fonda una compagnia teatrale. Negli anni della sua giovinezza, Ameze è una persona che lotta per affermare i propri sogni e riesce a trasformare la sua passione in realtà. La scelta di lasciare l’Inghilterra per tornare in Tanzania, apparentemente incomprensibile, fa di lei una giovane donna professionalmente realizzata, economicamente indipendente e capace di vivere di ciò che ama. Una condizione ad oggi quasi irrealizzabile per molti giovani che in Italia, nonostante titoli di studio elevati, faticano a trovare un’occupazione che consenta loro di affrancarsi dalla famiglia di origine. Colpisce quindi il fatto che la scelta di Ameze di rimanere in Africa le consenta di realizzarsi dal punto di vista del lavoro, una condizione che poi andrà a perdere con l’emigrazione in Italia.

Abuja, capitale della Nigeria

Abuja, capitale della Nigeria

In quegli anni l’unica cosa che manca ad Ameze è una famiglia. La protagonista del libro desidera intensamente sposarsi e avere dei figli, ma, nonostante abbia avuto diverse relazioni, sembra non riuscire ad incontrare l’uomo giusto. È proprio grazie al lavoro, al progetto di un laboratorio di teatro in una scuola per bambini ciechi, che Ameze incontra l’uomo che poi diverrà suo marito. Simone è un sacerdote missionario che dirige l’istituto in cui Ameze inizia a lavorare come insegnante di recitazione. Il loro rapporto, inizialmente squisitamente professionale, diventa sempre più profondo, finché Ameze rimane incinta e la coppia decide di trasferirsi in Italia. Nonostante Ameze abbia già sperimentato la vita in Europa, questa volta la migrazione è di tutt’altro segno. Al loro arrivo in Italia, Ameze e Simone si trovano subito ad affrontare grandi difficoltà di ordine economico in quanto entrambi sono senza lavoro. Simone ha ormai abbandonato il sacerdozio ed è quindi fuori dalla rete del mondo ecclesiastico dentro cui ha operato per tutta la sua vita. Lo stesso mondo che gli rende particolarmente difficile ricollocarsi come insegnante. Ameze è incinta ma non ha ancora ottenuto un permesso di soggiorno valido perché il matrimonio con Simone non è ancora stato ufficializzato, e ad un certo punto è anche costretta a rientrare in Tanzania per un breve periodo. A questo si aggiunge il fatto che la famiglia di Simone fatica ad accettare la sua scelta di lasciare il sacerdozio e non è di nessun supporto alla coppia. Anche la nascita della loro prima figlia non cambia i rapporti con la madre di Simone e i suoi fratelli.

Nonostante Ameze abbia finalmente costruito la famiglia che desiderava, in Italia non è più la donna indipendente e libera che era in Africa, ma al contrario si ritrova schiacciata dentro un’immagine di sé che non le appartiene e che sente definita dagli stereotipi. Ameze desidera solo preservare la propria famiglia, e, pur di risolvere i problemi economici che attanagliano lei e Simone, si adatta a questi cliché e inizia ad accettare lavori “da immigrata”. Pur con le sue competenze e il suo elevato livello di istruzione, prima si prende cura di un anziano e poi inizia a lavorare come babysitter. Paradossalmente è proprio grazie a questi impieghi che stabilisce finalmente un contatto positivo con la società italiana. Stringe le prime amicizie e inizia a coltivare rapporti genuini con quelle persone che riescono infine a vederla per quello che realmente è. Questo le permette piano piano di diventare un membro attivo della comunità locale, dove nel tempo viene sempre più apprezzata. È questo il momento in cui finalmente Ameze sente di aver trovato un posto tutto suo nel tessuto sociale della cittadina in cui vive, ma anche nel più contesto italiano.

La storia di Ameze racconta l’esperienza di diverse migrazioni e di appartenenze multiple. La Ameze che si sposta a Londra per studiare recitazione è una giovane donna ricca, sostenuta economicamente dalla famiglia, che vive con eccitazione la vita londinese. Al contrario la Ameze che si trasferisce in Italia, pur essendo moglie di un cittadino italiano e madre dei suoi figli, vive sulla propria pelle il razzismo e il peso dei pregiudizi. Le appartenenze multiple che contraddistinguono la storia di Ameze cozzano con la visione spesso dicotomica che le società occidentali, e nello specifico quella europea, utilizzano per rappresentare l’Altro.

Ameze non solo è nata e cresciuta in una famiglia appartenente ad un’élite cosmopolita, ma racconta di una società africana priva di quelle categorie rigide di cui sembra invece intessuto il mondo occidentale. In Africa la maggior parte delle persone parla diverse lingue, è abituata alla convivenza tra religioni e le categorie identitarie appaiono molto più fluide rispetto all’Italia. È qui invece che le differenze si fanno per la prima volta importanti e Ameze capisce il significato profondo e doloroso della parola “immigrata”. Le persone che la incontrano non sembrano interessate a conoscerla veramente, a sapere chi sia e che storia abbia, tutte le risposte sono già implicitamente sintetizzate nel suo essere africana.

Brigitte Atayi

Brigitte Atayi

Ameze è per la prima volta vittima di stereotipi che niente hanno a che vedere con la persona che lei sente di essere, ma che le vengono attribuiti per il semplice fatto di avere la pelle nera ed essere nata in Nigeria. In Italia Simone stesso è vittima di tutta un’altra sorta di pregiudizi, in primis da parte della propria famiglia, che non accetta la sua scelta e che lo vede come una vittima adescata da Ameze per farsi portare in Italia. Simone inoltre vive sulla propria pelle l’ostracismo della comunità religiosa a cui ha appartenuto fino a prima di conoscere Ameze, che non comprende la sua scelta e che, nonostante una valida professionalità guadagnata negli anni nel campo della disabilità, gli fa terra bruciata intorno anche al suo rientro in Italia.

Negli anni in Italia Ameze lotta con forza per affermare le proprie scelte, per difendere la propria famiglia e per ribadire al mondo la persona che sente di essere. Si fa così affermazione vivente della complessità del mondo contemporaneo, che non può essere ridotto a poche semplicistiche generalizzazioni. La sua lotta sembra finalmente concludersi nel momento in cui diventa mediatrice culturale. Qui la sua naturale capacità di muoversi tra mondi diversi si rivela una risorsa anche per gli altri, e Ameze si trasforma in un ponte tra quegli universi che faticano a parlarsi e a comprendersi. La sua dolorosa esperienza migratoria la rende capace di facilitare il dialogo e superare le visioni stereotipate di cui il nostro quotidiano è fittamente intessuto.

Ameze è la Brigitte che si è fatta apprezzare come mediatrice culturale, morta in un incidente stradale in Togo nel 2018, con grande rimpianto dei parenti e della comunità di amici che aveva costituito a Verona. Brigitte è morta ma nella figura di Ameze continua a vivere grazie alle pagine messe insieme con la diligenza etnografica e con la devozione affettuosa di un ex voto, dall’antropologa Vanessa Maher, anche lei di origine africana, di formazione britannica con residenza in Italia.

La storia di Ameze/Brigitte ci insegna che ciascuno di noi vive confrontandosi continuamente con un Altro da sé, sia che faccia un’esperienza di migrazione sia che rimanga per tutta la vita nel luogo in cui è nato. Ciascuno di noi è un’unicità, con la propria storia, il proprio bagaglio di esperienze, le proprie attitudini e le proprie passioni che direzionano le proprie scelte di vita. Incontrare l’Altro significa sempre mettersi in gioco con la differenza e saper andare oltre lo scontato e il prevedibile, anche quando questo ci obbliga ad uscire allo scoperto e a rifiutare una visione del mondo e delle persone precostituita e solo falsamente rassicurante.

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
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Chiara Dallavalle, già Assistant Lecturer presso la National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia Culturale, collabora con il settore Welfare e Salute della Fondazione Ismu di Milano. Si interessa agli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.

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