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Migrazioni in transito: fare l’avventura

copertinadi  Annamaria Clemente

Il libro VIII dell’Odissea narra di come Ulisse accolto nella fiabesca reggia di Alcinoo, re de Feaci,  durante il canto dell’aedo Demodoco, riconoscendosi nella storia proruppe in pianto inconsolabile, preludio all’agnizione. In modo simile sembra operare Bruno Le Dantec nel suo ultimo libro Partire. Un’odissea clandestina, (2018, Baldini&Castoldi trad. it F. Brivio), quando cimentandosi con la trascrizione di trenta ore di intervista, documentandosi e cercando uno stile che limitasse il suo io autoriale decide di non appropriarsi di una storia non sua, ma di restituire  la voce al protagonista dei fatti, il giovane Mahmoud Traoré, permettendo così a livello testuale l’identificazione tra narratore e soggetto extratestuale.

Se l’identificazione coinvolge narratore e protagonista, il riconoscimento coinvolge altresì l’autore, «Al di là delle ragioni obiettive che spingono un giovane africano di diciannove anni ad abbandonare la casa in cui è cresciuto, ho trovato nella storia di Mahmoud motivazioni più intime, nelle quali mi sono riconosciuto», fino ad includere il lettore. Tale riconoscimento è possibile non solo grazie al cortocircuito prodotto dal dispositivo biografico ma è massimizzato dalla capacità di toccare sfere emozionali intime. Una potenzialità da ricercare in quel sottotitolo Un’Odissea clandestina, dal momento che la citazione omerica non è semplice tentativo di nobilitare con la materia epica una storia di migrazione, quanto piuttosto un suggerimento che cela un significato. Nora Moll a proposito delle riscritture odissaiche segnala, riprendendo il concetto di Foundational fictions di Homi Bhabha, come:

«[…] l’Odissea non solo possiede una posizione inaugurale rispetto alla tradizione letteraria europea, ma parla al contempo delle origini di una civiltà, quella mediterranea. Ricca di tali contenuti, nel corso della storia questa opera è diventata un “segno” al quale la cultura europea ha fatto costantemente riferimento per dare voce alla propria identità. Per dirla diversamente, i significati di tale segno si sono volta per volta adeguati all’auto-immagine della cultura che lo ha elaborato, motivo per cui la sua rielaborazione equivale non solo ad una presa di coscienza rispetto ai suoi significati già acquisiti, ma anche al tentativo di rinnovare il suo significante» (Moll 2006:14).

 Il richiamo all’Odissea è segno che l’autore utilizza per fondare un’identità comune: per avvicinare e identificare una storia lontana, quella della migrazione, non sentita come parte del proprio orizzonte individuale o culturale ma che, al contrario, è parte del nostro patrimonio, dell’essere tutti figli di quell’unico ventre che è il Mediterraneo. Un appello che in modo affascinante rimanda il riflesso di questi nostri giorni, di questa attualità satura dell’emergenza migranti, e che mentre struttura la nostra identità dona perfino la facoltà di ripensarsi, di riconsiderare quell’autorappresentazione che potremmo dare di noi e della cultura accogliendo un Odisseo che non è un re, ma un clandestino, un profugo, un diverso, un altro che condivide con noi non solo il desco ma i medesimi tratti culturali, gli stessi innati bisogni, lo stesso modo di essere uomini.

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Migrante (ph. Oscar Corral)

In un lungo e ininterrotto monologo Mahmoud racconta così del suo viaggio, un cammino durato tre anni, iniziato il 17 settembre 2002 da Dakar, in Senegal, e terminato il 29 settembre 2005, quando presso l’enclave spagnola di Ceuta assalta il confine spinato per approdare a Melilla. Lo seguiremo mentre attraverserà il Mali, Il Niger, la città di Agadez, dove rimarrà per circa sei mesi e per la prima volta incrocerà la realtà dei foyer,  passerà per la Libia «il paese più razzista del mondo» dove comprenderà la cattiveria umana e il significato della parola razzista, percorrerà il deserto del Téneré, fino ad arrivare a Tripoli, dove «ci accolgono come dei redivivi, dei sopravvissuti all’inferno. Essendoci passati prima di noi, sanno che la traversata del Téneré è la parte più dura e pericolosa del viaggio. Ogni passo è questione di vita o di morte, ogni decisione una lotteria». Lo vedremo spostarsi ancora: «Algeri è stata una pausa, una parentesi in un viaggio completamente privo di tenerezza», poi Maghnia, la città di frontiera che vive di contrabbando, e «da qui in poi entriamo nel regno dei charmain. Più ci si avvicina all’Europa, più si accentua l’avidità di determinate persone». Oltrepassa il confine con il Marocco a piedi, affronta l’ostilità delle montagne del Rif e infine la repubblica clandestina del monte Gourougou, per ben tre volte tenterà l’assalto alla frontiera, ed ogni volta sarà riportato indietro e dovrà riattraversare le montagne del Rif.

È un racconto senza respiro quello di Mahmoud, nonostante i molti arresti del suo peregrinare,  le descrizioni dei mesi di fermo, dell’inamovibilità che spesso incontra nei foyer, dei tempi morti nell’attesa di raccogliere il denaro necessario al raggiungimento della tappa successiva, elementi che dovrebbero restituire al lettore un’atmosfera di stagnazione, di lunghezza dilatata del tempo, delle serie difficoltà del viaggio intrapreso, ma al contrario si ha come l’impressione che tutto scorra molto velocemente, come se anche queste pause non riescano a celare o dissimulare una vivacità intrinseca, una vitalità che è slancio vitale, un’energia che unita ad una tempra ed una fermezza diviene forza irrazionale, cieca, che rende nullo ogni tentativo di depistaggio o annichilimento. È quell’energia prerogativa della giovinezza, quell’entusiasmo che è scoppio vitale, voglia di vivere, voglia di mettersi in gioco, di confrontarsi con i propri limiti, quel misurarsi per superarsi, crescere, conoscersi. E quale via maestra, se non il viaggio, l’avventura con i suoi rischi, il piacere dell’ignoto, cammino che denuda l’uomo ponendolo da solo ed inerme di fronte al caso, costringendolo a conoscersi?

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Migrante (ph. Oscar Corral)

«Faire l’aventure» è la locuzione con cui i giovani africani denotano e connotano viaggio che da clandestini li porta in Europa, un universo di senso racchiude la proposizione, di significati preclusi a quanti in quel viaggio scorgono esclusivamente fatica, sofferenza, l’angoscia, patimenti, la drammatica assenza di futuro, la granitica presenza della morte, un viaggio rischioso che trae la sua ragion d’essere solo dal fuggire l’orrore. Scrive Le Dantec nella prefazione al volume:

«Limitare le cause dei flussi migratori alle guerre e alla fame in Oriente, e nel sud del mondo è un’approssimazione estremamente riduttiva e priva di immaginazione. Significa ridurli a esodi quasi animali, mossi dalla semplice necessità. Il significato del viaggio di Mahmoud va al di là della mera sopravvivenza. È un modo di esperire il mondo all’africana. Lui e i suoi compagni di viaggio non si considerano né migranti, né rifugiati, ma avventurieri. Nell’Africa francofana «faire l’aventure» è l’espressione con cui ci si riferisce comunemente a queste derive giovanili dal ritmo di percorsi iniziatici che, si noti, non puntano sempre al Nord».

L’autore sembra scorgere nella storia di Mahmoud, in quella propulsione al viaggio qualcosa che tracima dall’indigenza del quotidiano per giungere ad universi più intimi: «La voglia di partire ha radici molto articolate. Frustrazione, assenza di prospettive, sfida personale, curiosità, voglia di scoprire cosa succede altrove… l’essere umano non è solamente homo œconomicus». Se l’uomo non è un animale, né solo homo œconomicus spinto dall’esigenza di colmare i propri fabbisogni naturali,  allora tale spinta al movimento va ricercata altrove, dichiara ancora l’autore in un’intervista:

«[...]  È una spinta insita nella natura e nell’energia giovanile. Molti fuggono da carestia, guerre, fame, ma se non avessero questa spinta tradizionale, vorrei dire culturalmente all’avventura, non so se partirebbero, tanto meno così tanti. In loro è una sorta di sentimento del mondo» (Perotti 2018).

La migrazione sarebbe un sentimento del mondo: questo esperire all’africana non si esaurisce in mero automatismo, nella sopravvivenza animale e troverebbe la sua genesi, secondo Le Dantec, in  qualcosa di molto più complesso, molto più profondo, molto più elaborato e sofisticato: la cultura. L’impulso a partire va indagato nel dominio della cultura piuttosto che in quello della natura, il viaggio da clandestini si configura come un tratto culturale, un rito iniziatico, necessario al passaggio di status di adulti, quindi propedeutico allo sviluppo della propria individualità. Diversi gli antropologi che hanno esplorato i significati da attribuire all’evento migratorio e le modalità con cui il viaggio modelli la soggettività dell’individuo:

«Secondo molti autori (Bredeloup 2008; Marie, 1997; Sayad 2002; Timera, 2009), una delle  principali immagini attraverso cui i migranti conferiscono senso alla propria mobilità e alla propria esperienza sociale è quella “dell’avventura migratoria”. Nella figura dell’avventuriero le narrazioni delle tradizioni orali sub-sahariane, le retoriche liberaliste del self-made man, il desiderio di molti giovani di affrancarsi dalle reti familiari si intrecciano con le difficoltà e i rischi crescenti che le politiche di esternalizzazione europee impongono alle migrazioni. Il viaggio, in questa prospettiva diviene una vera e propria impresa, un’esperienza di individualizzazione in cui si compie il passaggio all’età adulta (Bredeluop)» (Massa 2014: 43)

Partendo dalle medesime premesse di Le Dantec, secondo cui l’idea dei migranti come popolazioni che sfuggono dalla miseria e dalla fame spesso  sia conseguenza di una certa retorica populista, uno stereotipo spesso non conforme ai dati reali, l’antropologo francese Mahamet Timera informa  come la migrazione sia non sempre il tentativo disperato di una salvezza ma qualcosa che si colloca a metà tra queste e l’essere un tratto culturale:

«À mi-chemin entre les représentations populaires et le discours savant, se dégage la vision culturaliste qui définit la migration comme un “trait culturel”, une pratique intégrée dans un système de valeurs et un mode de vie spécifique (les peuples de voyageurs). Cette réputation de “grands voyageurs” accordée à ces populations a aussi alimenté chez certains auteurs une vision de cette «tradition» du voyage fonctionnant comme un “rite initiatique” (Timera 2001:40).
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Migrante (ph. Oscar Corral)

Secondo l’antropologo ad alimentare l’interpretazione della migrazione come il grande viaggio concorre una lettura dell’evento che lo omologa ad un rito iniziatico. Con le dovute cautele dal momento che ricondurre la complessità della migrazione ad una sola variabile è operazione riduttiva se non pregiudizievole nell’analisi del fenomeno, intervistando un campione rappresentativo di giovani provenienti dalle regioni del Sahel, Timera individua proprio tale significato:  «le sens des projets migratoires, leur fonction de consécration sociale et de modalité d’entrée dans l’espace public» (Timera 2001: 38). La migrazione si connota come una prova da affrontare il cui esito positivo sarà appunto il riconoscimento sociale da parte della famiglia e della comunità. I giovani intervistati hanno una visione positiva del viaggio, interpretandolo come percorso necessario di emancipazione da una realtà tradizionale e comunitaria spesso avvertita pressante. Non avendo grandi scelte i giovani vengono supportati dal sistema familiare e così declassati e relegati in una minorità sociale, uno stato di dipendenza che alla lunga genera sofferenza e frustrazione:

«Il semble que cette situation puisse se révéler éminemment pesante pour ses jeunes bénéficiaires ; ce qui n’est pas le cas pour leurs aînés. En effet, si ces derniers en jouissent dans une sorte de droit à être secourus, entretenus, aidés, elle semble a contrario produire chez les jeunes hommes une souffrance plus forte ou plus intolérable que la faim, qui est celle, plus morale, de l’inexistence : le sentiment de « ne pas être », ou celui d’être réduit à ce que l’on ne désire surtout pas : l’insignifiance sociale. Véritable phénomène d’anomie, l’impasse sociale, familiale et aussi biographique des jeunes pose l’exil comme issue possible. Le jeune candidat à l’émigration reste insatisfait de l’assistance familiale qui permet de survivre, voire de vivre décemment mais sans réelle considération familiale et sociale » (Timera 2001: 38).

L’assistenza familiare non è vissuta come dimensione rassicurante quanto piuttosto come fonte di sofferenza. L’essere considerato incapace di soddisfare i propri bisogni, di appagare le proprie ambizioni personali, di assumere le proprie responsabilità, di ripagare l’investimento simbolico ed economico fatto dalla famiglia durante la crescita, il non poter contribuire  all’economia domestica è causa di un tormento di ordine morale, che ha a che fare con il non essere, con l’inesistenza sociale. È possibile vedere agire tale dinamica nelle parole del giovane Mahmoud, infatti l’incipit del racconto imposta immediatamente la narrazione entro le griglie analitiche sopra proposte: Mahmoud è un giovane ragazzo che viene persuaso, complice una notte stellata, una cometa augurante destini fausti e un vecchio amico, a cercare fortuna altrove. Di fronte alla resistenza del cognato e della sorella così presenta la situazione:

«Forse non ha torto, ma a cosa serve il pessimismo di chi è troppo stanco per fare l’avventura : non sarà certo il primo ragazzo che decide di partire in maniera impulsiva. Sei lì, a mani vuote, stanco di soffrire e di attendere qualcosa che, ne sei sicuro, non succederà mai, se non sei tu ad andartelo a cercare. Così un bel giorno decidi di darti una mossa e vai a cercar fortuna, dicendoti che se ti andrà male potrai sempre fare marcia indietro».
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Migrante (ph. Oscar Corral)

Le parole di Mahmoud restituiscono quel senso di immobilità e di dolorosa tensione di chi non può impiegare o spendere le proprie energie. Nel prosieguo del romanzo apprenderemo come il giovane sia supportato da una rete familiare: «Calcolando fino a dove potrò arrivare con i miei risparmi, mi rendo conto che avrei potuto viverci due mesi a Dakar, dato che da mio zio Mamadou non pagavo nulla, né affitto, né elettricità, né acqua, né alimenti». Mahmoud ha studiato grazie ai sacrifici materni, ha un’occupazione, sarà grazie al mestiere di falegname e al lavoro presso un atelier che avrà la possibilità di costruire dei piccoli mobili che rivenderà per conto proprio e potrà così guadagnare settanta euro, cifra con cui inizierà il proprio cammino. Se il bisogno di autorealizzazione è connaturato alla natura umana è soprattutto il riconoscimento sociale ad essere la molla che fa scattare il progetto migratorio e che orienta il viaggio. Tale pressione esterna, il bisogno di essere giudicato positivamente viene lucidamente spiegato da Mahmoud in questi termini:

«Durante le lunghe serate solitarie ho il tempo di ripensare al mio viaggio. Lungo il cammino fai fatica ad analizzare la situazione a sangue freddo. Stringi i denti e vai avanti, perché non sei spinto solamente dalla speranza, ma anche dalla vergogna e l’ansia di non farcela, di fallire e dover tornare a casa a mani vuote. Quando, alla fine del viaggio, sbatti il naso contro l’ultima frontiera, non puoi più fare dietrofront, perché al villaggio penserebbero che ti sono mancate la forza di volontà e la pazienza necessarie. Molti migranti restano bloccati per anni nei ghetti del Maghreb, altri vagano in Europa senza poter aiutare i loro familiari, altri ancora preferiscono scomparire, non tornare più in Africa, per timore di essere bollati come pigri, codardi o buoni a nulla. Da noi, la pressione familiare è molto forte».

Continuando con il modello teorico proposto ed addentrandoci nella narrazione apprenderemo inoltre come lo stesso Mahmoud attribuisce all’esperienza il valore di un rito iniziatico, soprattutto nel momento in cui dovrà affrontare la prova più difficile, quella dello sconfinamento, del salto sul filo spinato:

«La cosa più difficile è lasciarsi cadere dall’alto della recinzione senza spaccarsi le ossa. Sono istanti quelli che si rompono una gamba. Quella notte due di noi riescono a passare; dopo la seconda barriera corro a più non posso verso il centro di Melilla. Il cuore mi batte così forte nel petto da farmi sentire solo al mondo, come un danzatore di dudumbà, la celebrazione guineana degli uomini forti».
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Migrante (ph. Oscar Corral)

L’accostamento del battito del cuore al ritmo tenuto durante uno dei riti che probabilmente è teso a decretare una prestanza fisica, evidenzia come nella mente del ragazzo la prova che è chiamato ad affrontare equivalga all’acquisizione di una nuova condizione sociale, al divenire uomini. A connotare il viaggio come prova iniziatica sono non solo tutte le insidie disseminate lungo il cammino: rabetteurs, chairman, passeur, il deserto, la piccola criminalità, il mare, la montagna, gli animali selvatici, ma anche altro: interessante è la prospettiva secondo cui ad alimentare questa visione della migrazione come prova iniziatica sarebbero state soprattutto le politiche di esternalizzazione dei controlli posti in quelli che sono diventati Paesi cuscinetto:

«Ponendo il controllo della frontiera al cuore della questione migratoria le istituzioni preposte al controllo migratorio hanno al tempo stesso spostato il senso che per gli stessi individui migranti riveste la mobilità, ormai sentita come una prova di superamento (Streiff-Féhart e Segatti, 2011): una prova nel senso di qualcosa di spossante (la violenza fatta a quei migranti, le sofferenza durante la traversata del deserto o le ferite durante i tentativi di oltrepassare le barriere, i naufragi), prova nel senso di esame, che si valuta in termini di successo o fallimento, prova anche nel senso di qualcosa che si prova come un’esperienza di vita particolare di cui solo quelli che la vivono possono rendere conto» (Poutignat, Streiff-Féhart 2016: 3-4).

La politica di chiusura delle frontiere, i controlli intensivi e il continuo rafforzamento delle misure finalizzate al respingimento dei migranti hanno concorso alla creazione di una forma di mobilità dei soggetti che alterna costantemente stasi e movimento, mobilità ed immobilità: la migrazione diviene migrazione di transito, «una forma di mobilità che non va da un punto all’altro, ma lascia i migranti fuori dal loro punto di partenza in un situazione di transito all’interno del continente» (ivi: 5). In questa sospensione, in questo limbo dove i soggetti non possono tornare indietro o proseguire si moltiplicano i rischi connessi al rimpatrio e per tale il viaggio  assume dimensioni epiche tanto che:

«L’avventura è la figura rovesciata della categoria amministrativa del transito: una nozione emica, che totalizza un’esperienza della vita, la forma soggettivata di un insieme di condizioni sociali specifiche» (ivi: 6).
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Migrante (ph. Oscar Corral)

Tra queste condizioni sociali specifiche che caratterizzano l’avventura dalle altre tipologie di migrazione vi è il distaccarsi di questo tipo di mobilità dalle filiere migratorie precostituite, il viaggio è un impresa individuale che non segue le tradizionali rotte segnate dai migranti delle generazioni precedenti, ma apre fronti pioneristici, avventurarsi è «cercare la rotta» (ivi: 5). Così è per Mamouhd che decide di attraversare le montagne a piedi per giungere a Tetuan piuttosto che pagare il viaggio in patera, o attraversare le città lungo il cammino: «Procediamo su un versante molto sconnesso, coperto da foreste e sovrastato da cime glabre come la testa di un vecchio. È molto facile perdersi, i sentieri non sono segnalati e sarei pronto a scommettere che nessun gruppo di clandestini abbia mai seguito esattamente quello stesso cammino».

O ancora vediamo da parte dei migranti in transito l’utilizzo delle parole fortuna, destino, fato, per restituire il senso della vicenda e creare un racconto la cui trama è risultato dell’intersezione tra lo spirito di intraprendenza e la buona sorte;  in effetti ricorrente è la parola fortuna, seguita da tutto il campo semantico ad essa connessa,  una tra le prime che utilizza e la vedremo dispiegarsi in modo costante accanto all’evoluzione caratteriale di Mahmoud che da ragazzo diviene uomo scaltro, capace di prevedere le situazioni di pericolo e in grado di volgere a proprio vantaggio il capriccioso fato. Dirà alla fine, riassumendo quanto patito: «Senza dubbio sono stato fortunato». Infine terza condizione è il suo essere uno spazio-tempo altro, una sospensione, un «fragile inframondo» lo chiama Le Dantec, dove i rapporti e le norme sociali sono sospesi, in favore di rapporti egualitari, fraterni tra chi vive l’avventura e dove persino il tempo sembra seguire regole altre.

Epico è dunque il viaggio di Mahmoud, irto di pericoli, di amarezza ma anche di gioie, di slanci di generosità. Partire. Un’odissea clandestina è una testimonianza utile perché offre quel punto di vista interno che mai potrebbe essere adottato dal lettore. Il racconto di Mahmoud consente di scendere in una realtà che difficilmente può essere percepita, avvicinandola. Con Mahmoud apprendiamo quanto nel mondo dei migranti tutto sia contingente, come le scelte siano dettate dagli incontri, dal caso, come la nozione di tempo segua regole proprie, come esista una realtà nei sottoboschi o ai margine delle periferie organizzata da governi rigidamente strutturati, dove le regole sociali e spesso anche morali sono invertite, come esista una rete invisibile che manovra destini e percorsi. Ma soprattutto apprendiamo come, in fondo, a muovere questi giovani sia la stessa voglia, la stessa esuberanza giovanile, le stesse aspirazioni al futuro possibile, lo stesso sangue caldo che pulsa nelle nostre stesse vene.

Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018
 Riferimenti bibliografici
 Bhabha H.K. Nation and Narration, London/New York, Routledge 1993: 5. (trad. it. Nazione e Narrazione, Roma, Meltemi, 1997) cit. in Moll N., Ulisse tra due mari, Cosmo Iannone Editore, Isernia, 2006: 14
Massa A., Migrazioni di Transito, in  Riccio B (a cura di), Antropologia e Migrazione,  Cisu, Roma, 2014: 35-44
Moll N., Ulisse tra due mari, Cosmo Iannone Editore, Isernia, 2006
Perotti S., Incontri culturali a Marsiglia: Bruno Le Dantec, scrittore, 28 Luglio 2018, intervista disponibile al sito: www.progettomediterranea.com/Diario-di-viaggio/bruno-le-dantec.html
Poutignat P. Streiff-Féhart J., La prova della soglia: migranti africani tra immobilità e immobilizzazione, in Mondi Migranti (Rivista di studi e ricerche sulle migrazioni internazionali), 2016, articolo consultabile al sito: https://halshs.archives-ouvertes.fr/halshs-01332453/document
 Timera M, Les migrations des jeunes Sahéliens :affirmation de soi et émancipation, in “Autrepart” (18), 2001: 37-49
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Annamaria Clemente, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, è interessata ai legami e alle reciproche influenze tra la disciplina antropologica e il campo letterario. Si occupa in particolare di seguire autori, tendenze e stili della letteratura delle migrazioni. Su questo tema ha scritto saggi e numerose recensioni
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