«Muoversi, spostarsi nel territorio è una prerogativa umana, inscritta nella biologia e nella socialità degli individui». L’ultimo studio, Per terre e per mari. Quindici migrazioni dall’antichità ai nostri giorni (il Mulino, Bologna 2021), del demografo Massimo Livi Bacci, autore di innumerevoli articoli, saggi e volumi sulla popolazione italiana e sui mutamenti registrati in questo campo nella nostra realtà nazionale e non solo, affronta la classificazione dei diversi modi di dislocazione di popolazione nel corso della storia e nei diversi spazi del nostro pianeta. Le tipologie di tali spostamenti, infatti, pur avendo punti in comune, non sono uguali fra loro, ma mostrano diversità di origine, di modalità di svolgimento, di protagonisti e di conseguenze. A seconda del grado di libertà nella scelta da parte di chi emigra, si può quindi parlare di migrazioni organizzate, migrazioni forzate, migrazioni dovute a catastrofi naturali, migrazioni libere.
Lo studioso esamina anzitutto le «migrazioni organizzate da istituzioni sovraordinate alla famiglia, al clan, alla comunità locale», finalizzate al popolamento di territori privi o quasi di abitanti o con abitanti poco graditi al potere. Molto conosciuta è a questo proposito la fondazione di colonie nel mondo greco, dal mar Nero al Mediterraneo occidentale, verificatasi dall’VIII al VI secolo avanti Cristo. Il fenomeno è noto in Italia avendo prodotto la civiltà della Magna Grecia, caratterizzato dalla gemmazione di città madri con l’insediamento di gruppi più o meno numerosi di loro cittadini in terre lontane individuate come fertili o dotate di posizione strategica. Tale mobilità era causata da motivazioni economiche, politiche o malthusiane, dal momento che in molti casi le risorse erano o sembravano insufficienti per soddisfare i bisogni di una comunità che accresceva i suoi componenti. Era guidata da un «ecista» e si svolgeva a volte in modo pacifico e in altri casi con il ricorso alle armi, dovendo affrontare gruppi già insediati nelle zone di destinazione.
Nell’antica Roma, invece, le migrazioni furono disposte dallo Stato. Per esempio, Ottaviano Augusto effettuò alla fine delle guerre civili la distribuzione di terre ai veterani. Una parte di queste era collocata nei pressi dei confini del territorio imperiale, e quindi gli insediamenti servivano per costruire dei filtri nei confronti delle pressioni esercitate dai popoli “barbari” che premevano dall’esterno. Verso tali popoli veniva adottata dallo Stato romano una politica flessibile: in molti casi i gruppi, costituiti non solo da guerrieri ma da intere famiglie, venivano respinti con la forza, in altri venivano ammessi in modo graduale all’interno del limes romano, costituito dalla frontiera del Reno di circa 1.300 chilometri e da quella del Danubio, lunga più del doppio. Poi, a partire dalla battaglia di Adrianopoli del 378 d.C., i confini vengono superati dai Goti, i primi a rompere le difese di Roma, e dopo un secolo avremo il crollo dell’impero romano d’Occidente.
Di più modeste dimensioni i trasferimenti organizzati in età moderna da Luigi XIV e dal suo ministro Colbert nell’ambito di una politica mercantilistica e popolazionista, allora diffusa, che considerava la risorsa del numero degli abitanti come colonna portante della politica di potenza. La Francia contava allora 20 milioni di sudditi, ma le poche migliaia di francesi presenti nel Quebec non riuscivano a crescere. Furono così inviate le filles du roi, ragazze del re, giovani donne che potessero sposare soldati o commercianti presenti nel Canada. Dal 1663 al 1673 per impulso della corona che fornì adeguati incentivi, immigrarono pertanto nelle province francesi del nord America circa 800 ragazze nubili o vedove, per lo più orfane, analfabete e poverissime. Molte di più – aggiungiamo noi – furono le ragazze sposate per procura che nel XX secolo si recarono dall’Italia In Australia. Il fenomeno è stato indagato dalla storica Grazia Messina, secondo cui «il ricorso a tale formula, anche se i matrimoni venivano registrati fuori dal Paese, fu promosso dal governo australiano al fine di favorire l’immigrazione di giovani donne per la formazione di nuove famiglie, e si ritiene che circa 12.000 donne italiane si siano sposate per procura per raggiungere l’Australia tra gli anni Cinquanta e Sessanta» (Studi storici siciliani, anno II n. 3 – dicembre 2023). Di esse, molte venivano dal meridione e dalla Sicilia in particolare.
Altro esodo organizzato, stavolta dal clero e dalla nobiltà, da ordini cavallereschi e grandi ordini religiosi, fu la cosiddetta Drang nach Osten (spinta verso est) per promuovere la germanizzazione dell’est europeo. Ai migranti inviati verso l’Ungheria, la Sassonia e la Slesia, la Prussia furono forniti sementi, materie prime e strumenti per il diboscamento e la coltivazione di terre difficili, mentre gli slavi erano in gran parte dediti a caccia e pesca e ad un’agricoltura itinerante. Si trattò di un processo in gran parte autopropulsivo, graduale e controllato, che, nato nell’XI secolo, si esaurì nel XIV.
Altra iniziativa dall’alto, quella di Caterina la Grande, zarina di Russia, che nella seconda metà del XVIII secolo fece girare nei Paesi europei, ma soprattutto della Germania, un manifesto per attrarre singoli e famiglie nei territori di sua competenza. Nel proclama si evidenziavano i diritti e i privilegi che la corona russa riservava a chi volesse accogliere l’invito: la libertà di culto, l’esenzione dalle tasse per un periodo da cinque a trent’anni, la concessione di terre da coltivare, di prestiti senza interessi, l’esenzione dalla coscrizione militare. Promesse senz’altro allettanti, che però non sempre furono mantenute nella loro interezza. Grazie al proclama di Caterina, 30 mila persone emigrarono dal 1764 al 1768 verso le terre situate lungo il basso corso del Volga, dove la popolazione in 124 anni aumentò di 17 volte, con un raddoppio ogni 30 anni.
Sono poi note le agevolazioni, le promesse e gli incentivi con cui i Paesi del Sudamerica nella seconda metà dell’Ottocento attrassero singoli e famiglie dall’Italia in zone poco abitate del Brasile, del Paraguay, dell’Argentina. Spesso gruppi di contadini veneti arrivarono in quei territori convinti di avere case e terre dal governo, salvo poi a scoprire che si trattava di stamberghe e di terreni in zone impervie o da diboscare ex novo.
Da parte nostra, per quanto riguarda il nostro Paese non possiamo non assimilare a questa tipologia di movimento quello delle migliaia di lavoratori italiani e delle loro famiglie che alla fine del secondo conflitto mondiale si recarono con l’assistenza di vari uffici governativi in Francia, Svizzera, Germania in cerca di manodopera generica oppure in Belgio per sopperire alla mancanza di minatori in quella regione, cosa che fu possibile grazie agli accordi stipulati tra il governo italiano e quelli dei vari Paesi europei con reciproci vantaggi economici.
Il secondo gruppo di spostamenti che Livi Bacci mette sotto la lente di ingrandimento è quello delle migrazioni forzate, avvenute in opposizione alla volontà dei singoli e delle famiglie: quindi dislocazioni, espulsioni, deportazioni. Oggi nel mondo ci sono 35 milioni di rifugiati all’interno della massa di 281 milioni di migranti. La più grande deportazione, che l’autore dichiara non poter trattare per l’ampiezza dell’argomento, è stata indubbiamente quella di 10-12 milioni di schiavi dal continente africano, che ha modificato in profondità la geografia etnica e umana delle Americhe. Nel corso della storia moderna, sono state meno numerose ma altrettanto importanti l’espulsione degli ebrei e dei moriscos dalla Spagna dal 1492 in poi e l’esodo degli ugonotti dalla Francia durante la guerra di religione che insanguinò quel Paese. Nella storia contemporanea oltre 160 mila ospiti delle carceri britanniche e irlandesi furono condotti in Australia per popolarne il territorio, mentre si è verificato un numero altissimo di rifugiati (tra i dieci e i venti milioni di abitanti) nell’impero anglo-indiano dopo la partizione tra India e Pakistan nel 1947, al momento della proclamazione dell’indipendenza dell’India. Risale poi al decennio scorso la espulsione/deportazione dal Myanmar verso il Bangladesh di un milione di rohingya.
Livi Bacci esamina dettagliatamente a proposito delle migrazioni non volontarie, i casi verificatisi nell’impero Inca prima dell’arrivo delle truppe spagnole: per ordine imperiale, gruppi di popolazione venivano trapiantati soprattutto dalla costa agli altopiani dell’interno. Si trattò dei cosiddetti «mitmac», cioè di trasferimenti di gruppi di singoli e famiglie con incentivi da parte dello Stato. Tali dislocazioni erano dettate dalla ricerca di convenienza economica per le casse dell’amministrazione centrale peruviana, per effettuare il consolidamento di territori conquistati, per la difesa dei confini, o per l’integrazione dei nuovi soggetti conquistati nel sistema imperiale. Successivamente, gli spostamenti di popolazioni andine furono indotti per volontà dei conquistadores che intesero così fiaccare la resistenza più o meno aperta delle etnie locali. Furono emanate da Filippo II nel 1573 le famose Ley de Indias, che prevedevano la pianificazione di nuovi villaggi o città con una piazza centrale con chiesa ed edifici pubblici, strade disposte ortogonalmente a formare una scacchiera.
Sul piano economico, ebbero un ruolo particolare le miniere d’argento del Potosì da cui partirono grandi quantità di argento dirette in Spagna. Mentre a fine Quattrocento vi erano in quella località solo 300 spagnoli, nel giro di un secolo gli abitanti erano diventati 160 mila. Molti indigeni furono impegnati nella mita, cioè in lavori obbligatori per pubblica utilità della durata di un anno. Furono portati a lavorare in miniera 14 mila indios all’anno compresi i familiari, con esodi di natura biblica.
Venendo più vicino a noi nel tempo, com’è noto, la crisi dell’Impero ottomano dovuta alle sconfitte subite nelle guerre balcaniche e nella Prima guerra mondiale favorirono la tendenza a rendere omogenea la popolazione, con conseguente allontanamento o espulsione di gruppi etnici non desiderati. Il trattato di Sèvres del 1920 prevedeva lo smembramento dell’impero ormai guidato da Mustafa Kemal (Ataturk). Già a partire dal 1914 erano stati espulsi dall’esercito gli armeni, si era proceduto all’arresto dei leaders politici, alla deportazione degli armeni dalle province orientali «nelle zone desertiche della Siria, abbandonati nella provincia di Zer, senza cibo, decimati dalle epidemie e da ulteriori massacri». Anche i greci presenti nel territorio dell’impero subirono massacri e persecuzioni che li ridussero da 1,8 milioni a 200 mila, in virtù di una «politica nazionalista di turchizzazione». Rimpatri di natura forzata furono accettati da tutte le potenze e dalla Lega delle nazioni. Uccisioni, purghe e deportazioni furono la conseguenza di un vero e proprio «piano di ingegneria demografica».
Un altro paragrafo del volume è dedicato all’Arcipelago Gulag, il sistema carcerario di lavoro forzato, luoghi di confino e di esilio interno presenti nel territorio dell’Unione Sovietica per ordine del regime staliniano. Tra il 1926 e il 1939 la Russia europea perse una popolazione di 5,4 milioni di persone, in Kazakistan 1 milione, l’area transcaucasica 6,4 milioni: si trattò di gruppi e famiglie costretti a trasferirsi oltre gli Urali, in Siberia, nell’estremo nord e nell’estremo oriente. Le aree urbane ne assorbirono invece oltre 25 milioni da quelle rurali. Tra l’altro, dal 1932 il regime sovietico impose l’uso del passaporto per avere un permesso di residenza in altro luogo. In seguito all’invasione tedesca del 1941 si mossero 16,5 milioni di abitanti: si trattò quindi di evacuati, dice Livi Bacci e non di rifugiati. Furono effettuate poi «deportazioni di minoranze linguistiche (come quelle tedesche) sospettate di intese con il nemico». Si trattò dello spostamento di intere comunità etniche, incluse le persone «politicamente indesiderabili», dal momento che «la forza dello Stato totalitario rendeva possibile ogni tipo di manipolazione della mobilità».
Un capitolo apposito è dedicato da Livi Bacci alle migrazioni forzate di tipo diverso, cioè non conseguenza di azioni umane, ma derivate da uno stato di necessità provocato da situazioni di stress e di pericolo causate da fenomeni della natura. Ci sono stati nel corso del tempo traumi naturali che hanno provocato non fughe temporanee ma migrazioni di lungo periodo, per cui si parla di «migrazioni climatiche» e di «rifugiati climatici». Tra i casi ampiamente esaminati nel libro troviamo la «Grande Seca» (siccità) verificatasi negli anni 1877-1879 nelle regioni del nord est del Brasile, il «Dust Bowl» (conca di polvere) negli Stati Uniti negli anni ’30 del Novecento negli Stati dell’Oklahoma, Texas, Arkansas per fenomeni derivati da uno stato di siccità prolungata. Più recente l’«odissea caraibica» derivata dal terremoto ad Haiti nel 2010, con una odissea che portò centinaia di migliaia di profughi prima in Brasile poi verso gli Stati Uniti, dall’uragano Matthew nel 2016 e dal ciclo del Niño.
È passato alla storia il gigantesco esodo dall’Irlanda in seguito alla peronospora che per cinque anni consecutivi distrusse i raccolti di patate, alimento base della popolazione di quel Paese, con la conseguente carestia e l’inarrestabile flusso migratorio verso la Gran Bretagna e l’America del Nord. Il numero degli abitanti dell’Irlanda subì un tracollo in seguito alla Grande Fame, per cui si passò da 8,5 milioni del 1841 a 6,5 milioni nel 1851, con 1,8 milioni di emigrati tra il 1845 e il 1854.
Per quanto concerne le migrazioni “libere”, non governate da enti sovraordinati né imposti con la forza, lo studioso ricorda che prima della rivoluzione industriale sul continente europeo si registravano fenomeni di mobilità umana a corto raggio con rientri in giornata o entro poche settimane per lavori agricoli, o superamenti di confine per lavori stagionali come dall’Italia alla Francia o all’Austria. C’erano spostamenti verso poli commerciali e marittimi (come Siviglia, Londra, Bordeaux, Amsterdam). Per quelle a più ampio raggio, Massimo Livi Bacci afferma che il grande esodo transoceanico a cavallo tra Otto e Novecento dall’Europa al Nuovo mondo (si parla di circa 50 milioni di abitanti) fu «forse l’ultimo esempio di migrazione di massa libero», cui concorsero tante variabili. Tra esse, il progressivo abbattimento ai vincoli all’uscita dai confini nazionali da parte degli Stati europei che in passato avevano ostacolato tale flusso, ritenendo fondamentale per la politica di potenza poter disporre di un alto numero di abitanti. Tra l’altro, la fuoriuscita dai confini nazionali era considerata un tradimento della patria e a chi era emigrato all’estero veniva poi impedito il ritorno nel Paese di origine. Inoltre all’inizio del XIX secolo si ebbe la liberalizzazione degli ingressi nelle ex colonie del Regno Unito, dell’impero spagnolo e di quello portoghese.
Il libro di Livi Bacci, per altro arricchito da un inserto di cartine storiche, immagini e fotografie, risulta molto utile se non altro per sconfiggere i luoghi comuni diffusi sull’emigrazione e le semplificazioni di chi vuole ridurle tutte ad un’unica tipologia. Troppe sono infatti le diversità sia per quanto riguarda le cause, sia per quanto riguarda le modalità e le conseguenze. Lo scopo del libro è proprio quello di far riflettere il lettore su tali diversità e invitarlo a desistere dalla voglia di applicare a tutte le circostanze un medesimo modello. In particolare, Livi Bacci ci spinge a considerare la multilateralità del concetto di “successo” delle migrazioni: dobbiamo infatti prendere in esame il successo economico o demografico, e i tempi medi, lunghi o lunghissimi di tale risultato? Siamo a questo proposito invitati dall’autore a tener conto di due processi, quello di selezione e quello di fitness:
«I migranti – scrive Livi Bacci – non sono mai un campione rappresentativo della popolazione di partenza, ed è normale che abbiano caratteristiche biofisiche e capacità particolari […]. La selezione influisce anche sulla fitness dei migranti, cioè sulla loro adeguatezza, o capacità di beneficiare dell’emigrazione, per mezzo del lavoro e delle attività che riescono a svolgere nei Paesi di destinazione, per come riescono ad inserirsi con profitto in una società diversa».
Infine, il demografo sottolinea come le migrazioni libere, che sono le preferibili perché lasciano la scelta all’individuo o al suo gruppo familiare, che hanno caratterizzato la fine dell’Ottocento e il Novecento, siano ormai nel mondo occidentale rese sempre più difficili e comunque ristrette all’interno della stessa nazione o dentro aggregati come l’Unione Europea. Ai giorni nostri, purtroppo, «Le migrazioni non sono mosse da libere decisioni individuali, ma vengono condizionate da un intrico di regole che decidono chi ha titolo a migrare, indipendentemente dalle inclinazioni individuali. Molte di queste regole sono storte, danneggiano i migranti e impediscono alla migrazione di esprimere i suoi benefici effetti. Raddrizzarle è un’impresa difficile e richiederà un lungo impegno della comunità internazionale». Amare considerazioni sul presente e generosi auspici per il futuro, che pongono a tutte e tutti interrogativi a cui non sempre troviamo risposta.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
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Santo Lombino, ha insegnato lettere nella scuola media e storia e filosofia nei licei statali, si occupa di scritture autobiografiche, storia e letteratura dell’emigrazione, didattica della storia. Ha presentato al “Premio Pieve-Banca Toscana” Tommaso Bordonaro, autore de La spartenza, ha curato la pubblicazione di memorie e diari di autori popolari. Ha scritto I tempi del luogo (1986); Cercare un altro mondo. L’emigrazione bolognettese e la S. Anthony Society di Garfield (2002); Una lunga passione civile (con G. Nalli, 2004); Cinque generazioni. 1882-2007, il cammino di una comunità (2007). Tra le ultime pubblicazioni: Il grano, l’ulivo e l’ogliastro (2015) e Un paese al crocevia. Storia di Bolognetta (2016). Ha curato recentemente il volume Tutti dicono Spartenza. Scritti su Tommaso Bordonaro (2019). È direttore scientifico del Museo delle Spartenze dell’Area di Rocca Busambra.
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