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Memorie rimosse e cicatrici mai sanate
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2022 @ 01:37 In Letture,Migrazioni | No Comments
C’è un sentire comune tra coloro che sono stati costretti, per ragioni diverse, a lasciare la terra natia. Allontanarsene, non per libera scelta, comporta strappi e fratture spesso insanabili nel corso di tutta un’esistenza. Quelle fratture, subite dagli italiani di Libia, ancora oggi restano aperte.
È una singolare storia di emigrazione quella che ha accomunato migliaia di persone che, sin dagli inizi del ‘900, avevano cercato fortuna nel Paese nordafricano, prima occupato dai Turchi e poi conquistato dall’Italia, trovandovi il proprio eden, una seconda patria dove vivere e fare crescere i propri figli, impiantare attività commerciali e artigianali e guardare serenamente ad un prosperoso futuro.
Ma circa settanta anni dopo, quando ormai gli affetti e gli interessi erano solidi e sedimentati, i discendenti delle stesse famiglie erano stati costretti a lasciare quella terra amica e accogliente per ritornare in un’Italia sconosciuta che faticava persino a riconoscerli come suoi figli. Un percorso doloroso che ha accomunato circa ventimila italiani, iniziato dopo la presa del potere di Gheddafi che, dichiarando la Libia Repubblica libera e indipendente, aveva deciso la loro espulsione.
Molte famiglie siciliane – e tra queste la mia – avevano scelto drasticamente di non tornare dove erano partiti i loro nonni o bisnonni e preferito affrontare un futuro pieno di incognite, trasferendosi in altre regioni, nel Lazio, in Toscana e in Veneto per lo più, lasciando la Sicilia sullo sfondo delle loro esistenze come luogo della memoria o di vacanza ma non come un approdo sicuro. Tante le ragioni che hanno determinato questa dolorosa decisione che imponeva loro di ricominciare in un altrove sconosciuto, profughi senza più case, beni, lavoro, che vivevano di ricordi e struggenti malinconie.
Su questa pagina di storia, iniziata con il colonialismo fascista, ancora oggi non si è indagato e riflettuto abbastanza; si è voluta dimenticare in fretta, quasi intenzionalmente considerandola retaggio di un tempo passato in cui l’Italia aveva dato il peggio di sé. Ma questa pagina è rimasta una ferita aperta nella memoria di molti italiani “tripolini” che nessuna colpa avevano avuto se non quella di essere nati e cresciuti in una meravigliosa terra multietnica e multireligiosa, ricca di spezie, profumi, sapori.
La storia di Giacomo Rallo si inserisce in questo contesto storico e sociale ed è una delle tante testimonianze di quel passato. Inizia nell’isola di Favignana nella seconda metà dall’800 dove la famiglia, di origine spagnola, già nel XVII secolo aveva messo radici. Era il tempo del passaggio dai Borbone ai Savoia e dell’insediamento dei Florio con le tonnare e i fiorenti commerci. Successivamente la famiglia, sulla spinta delle aspirazioni coloniali, lascia la Sicilia alla ricerca di una vita migliore e attraversa il Mediterraneo per raggiungere la Libia.
I Rallo approdano in Libia – siamo agli inizi del secolo scorso – quando il Paese arabo è occupato dai turchi e vi restano anche quando cade nelle mani italiane, con le imprese coloniali del regime fascista che incoraggia i trasferimenti della popolazione nella Quarta sponda, assegnando ai coloni terreni incolti e desertici e piccole case costruite nei villaggi fuori dalla Capitale, lungo la costa e fino in Cirenaica.
Dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, il Paese passa agli inglesi fino al 1951 quando ottiene l’indipendenza sotto la guida de re Idris I di Senussia. Per quindici anni il re riesce ad assicurare un’epoca di relativa stabilità. Ma nella notte tra il 31 agosto e il primo settembre del 1969 scatta l’operazione “Gerusalemme” e con un colpo di Stato fulmineo e incruento il colonnello Gheddafi prende il potere: la Libia diventa una Repubblica, il monarca viene esiliato, le imprese petrolifere nazionalizzate e i beni degli italiani confiscati dal governo. I ventimila italiani che vi risiedevano stabilmente vengono espulsi per sempre il 15 ottobre 1970.
Giuseppe Rallo è testimone dell’ultimo tracciato di questa epopea che ripercorre, riannodando i fili della memoria familiare, nel libro I giunchi. Lo scirocco. Il ghibli edito da Albatros nella sezione Nuove Voci. Un ponderoso volume di 500 pagine che può definirsi romanzo storico e autobiografico e che, come un diario che attraversa il secolo, segue quattro generazioni della sua famiglia e con esse la storia d’Italia e della Libia.
«Sono partito da Favignana, dalle radici e dalla storia della mia famiglia, una delle tante che nei primi del ’900 ha lasciato, la patria, la propria terra ed i pochi beni per inseguire un sogno» – dice Giuseppe Rallo. Dal romanzo emerge l’immagine di una bella famiglia favignanese compatta e sempre all’altezza degli avvenimenti, anche i più dolorosi. Sullo sfondo delle diverse vicende predominano l’Isola sempre amata e la Libia con una bella immagine, diversa certamente da quella di oggi, quasi a sottolineare che un altro mondo è possibile, un mondo di convivenza pacifica aperto alla cultura occidentale. L’intenso racconto si sofferma sulle microstorie che compongono le vite dei componenti della sua famiglia. Scrive ancora Rallo:
Per comprendere la necessità narrativa dell’autore, di ricostruire con dovizia storica e autentico fervore un passato a lui stesso appartenuto e ancora molto presente nella sua memoria, si deve partire dalla fine, da quel fatidico primo settembre del 1968, giorno in cui il colonello Gheddafi sale al potere, in poco tempo rivolta le sorti del Paese e caccia via gli italiani costringendoli a lasciare tutti i loro averi, le proprietà, i beni, i ricordi di una vita intera. Giuseppe Rallo, il primo di quattro fratelli, a quel tempo aveva 13 anni, frequentava la scuola, immerso nella sua meravigliosa adolescenza e vive quello strappo improvviso con dolore e sgomento. Sarà per lui una frattura insanabile che dimenticherà più.
Rallo, medico legale a Roma e professore aggregato presso l’Università “Sapienza”, nel suo lavoro attinge una grande quantità di materiale dagli archivi storici, dalle pubblicazioni sul tema, dalla letteratura sulle isole Egadi, dalle esperienze familiari tramandate dai protagonisti, dalle testimonianze raccolte dai parenti che avevano vissuto in Libia e, nell’ultima parte, dai ricordi personali più vividi dell’autore. Trasforma infine questa massa di informazioni in una ricostruzione attenta, partecipata, corale.
Le pagine scorrono veloci in una scrittura ariosa e tonda. I titoli ai capitoli aiutano ad inquadrare il periodo storico di riferimento, gli anni e i luoghi di cui si parla e la narrazione s’incunea dentro le vite dei familiari e degli amici con armonia arricchita dalla descrizione precisa dei luoghi, la città di Tripoli tra tutti, dai sapori della cucina, degli odori dei suk, della brezza del mare. I fotogrammi della serena quotidianità che animano le giornate tripoline inducono alla nostalgica malinconica. Ed emergono la convivenza pacifica con gli abitanti, il rapporto di amicizia e solidarietà che si era creato tra popoli di usi, costumi e religioni diverse, a ricordarci che negli anni Sessanta l’integrazione non era una mera utopia.
Poi improvvisamente tutto cambia, la scena si capovolge e il piccolo Giuseppe si trova inconsapevolmente a bordo della nave che da Tripoli li portava via per sempre dalla Libia e approda a Napoli, quando sta albeggiando. «Ero un ragazzino e con ingenuità chiesi a mio padre che cosa sarebbe accaduto, e lui mi rispose: Figlio mio non abbiamo più nulla, abbiamo perso tutto».
Sono ricordi che non si dimenticano. Le ultime pagine dedicate al momento dell’addio sono drammatiche, pervase da un senso di incertezza e di paura che ha accompagnato la famiglia per molto tempo. Allora ogni gesto viene ricordato con sacralità.
Nell’estate dei mondiali di calcio in Messico gli italiani si preparavano alla partenza imminente. Mestamente ottenevano il certificato di “nullatenenza”, lasciapassare per l’espatrio e prenotavano i biglietti aerei per il definitivo ritorno. Il consolato rilasciava i certificati di profughi che sarebbero stati poi vidimati in Italia. Il padre Francesco, tabib (medico) del porto, voleva lasciare il Paese prima di quel termine ultimo del 15 ottobre, imposto dal colonnello Gheddafi e a fine estate del 1970, in un clima di mestizia e di angoscia, con la moglie e i quattro figli che lo attendono vicino all’auto che li avrebbe portati al porto, chiude dietro di sé, e per sempre, la porta della casa in sciara Istikal, n. 374. «Lasciò le chiavi appese come se una persona amica dovesse entrare poco dopo e pianse di dolore», scrive Rallo.
Può essere diverso un addio? Pur con modalità diverse gli addii dei “tripolini” si sono consumati tutti allo stesso modo: c’è chi è partito quasi subito dopo il colpo di Stato nel settembre del 1969, chi ha atteso sperando sino all’ultimo in un miracolo che non si è avverato e chi ha fatto resistenza e prolungato l’agonia. Io ero bambina e mi trovavo in Sicilia per le vacanze estive e ho potuto dare l’ultimo addio alla mia terra solo da lontano e con profonda mestizia, affacciandomi ai bastioni di Erice nell’utopica speranza di rivedere le luci di Tripoli.
Tutti, nessuno escluso, hanno dovuto subire umiliazioni, soprusi e traversie per ottenere un certificato di “nullatenenza”, lasciapassare necessario per andare via dal Paese. Con le valigie stracolme dei pochi effetti personali entro il 15 ottobre del 1970 si è chiuso così un capitolo doloroso e solo dopo molti anni in Italia se ne è aperto un altro, volto ad ottenere, così come stabilito dai trattati, gli indennizzi in denaro per i beni lasciati in Libia. Una pagina che, dopo oltre 50 anni, non si è ancora chiusa.
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